Le spie dal cielo
Dietro ai droni in Ucraina c'è l'intelligenza artificiale, la chiave della guerra del futuro
La guerra nell'est Europa ci appare combattuta come nel secolo scorso, tra trincee e carri armati. Eppure protagonisti sul campo sono satelliti e robot, i cyber warriors guidati dalla mente digitale. Da questi strumenti dipenderà anche la geopolitica dei prossimi anni. Indagine a partire da un saggio di Eric Schmidt
Eric Schmidt, il manager che ha portato Google alle stelle, l’ha guidata dal 2001 ed è rimasto al vertice fino al 2017, oggi è un cervellone che consiglia il Pentagono. Figlio dell’economista Wilson Schmidt, a cavallo degli anni 60 ha trascorso l’infanzia a Bologna perché il padre insegnava alla Johns Hopkins, s’è laureato in architettura e ingegneria elettronica, ma a Berkeley ha scoperto il mondo del software. Prima ancora di lasciare le redini di Google-Alphabet, ha cominciato a collaborare con l’amministrazione Obama per poi presiedere il Defense Innovation Advisory Board. Due anni fa, insieme a Henry Kissinger e Daniel Huttenlocher, ha scritto un libro sull’età dell’intelligenza artificiale (“The Age of AI: And Our Human Future”). Sull’ultimo numero di Foreign Affairs ha pubblicato un saggio intitolato “Innovation Power” per spiegare come e perché la tecnologia definirà il futuro della geopolitica. Ecco l’incipit: “Quando le forze russe marciarono su Kyiv pochi pensavano che l’Ucraina potesse sopravvivere. La Russia aveva più del doppio di soldati. Il suo bilancio militare era dieci volte più grande. La comunità dell’intelligence statunitense stimava che Kyiv sarebbe caduta in una o due settimane al più tardi”. Invece l’orso russo s’è impantanato. Come mai sono stati smentiti anche i gufi della Cia?
L’eroismo, certo; la motivazione, non c’è dubbio; l’astuzia, anche; i dollari, gli euro, le armi della Nato; tutto vero. Ma gli ucraini stanno resistendo grazie all’intelligenza artificiale. Questa guerra ci appare combattuta come nel secolo scorso: le trincee, i carri armati, i cannoni, le bombe che sbucano dal nulla. Eppure protagonisti sul campo sono satelliti, droni, robot, i cyber warriors guidati dalla mente digitale. Le steppe del centro Europa, le distese di grano irrorate di rossi tulipani come fossero gocce di sangue, sono il laboratorio di un conflitto condotto con altri mezzi, i nuovi mezzi che gli uomini stanno sperimentando per distruggersi a vicenda. E dopo più di un anno, quell’occidente del quale a destra e a sinistra si continua ad annunciare il tramonto, è ancora in evidente vantaggio. Bloccare ChatGPT è un cedimento al nemico, mettere in discussione Palantir, che ha consentito di colpire gli obiettivi russi, sarebbe un tradimento.
“Subito dopo l’invasione – spiega Schmidt – il governo ucraino ha collocato tutti i suoi dati critici nella nuvola così da salvare le informazioni anche nel caso in cui i missili russi avessero ridotto in macerie gli uffici dei ministeri. Il ministro della trasformazione digitale ha riorganizzato l’applicazione del governo in modo tale che ogni cittadino potesse caricare foto e video delle unità militari nemiche. Con le infrastrutture delle comunicazioni in pericolo, gli ucraini hanno usato i satelliti Starlink e le stazioni di terra di Space X per rimanere connessi. Quando la Russia ha utilizzato i droni iraniani, il governo ucraino ha acquistato propri droni disegnati per intercettare gli attacchi nemici, mentre i soldati venivano addestrati alle armi fornite dall’occidente. Le forze armate grazie all’intelligenza artificiale hanno scansionato le informazioni dell’intelligence, per la sorveglianza e il riconoscimento dei dati”. Schmidt non dà notizie riservate, ma mettendole in ordine tutte insieme il manager ci fa capire che si tratta di una strategia precisa grazie alla quale è stata creata una vera e propria barriera o meglio la trappola tecnologica in cui è caduto Vladimir Putin. Sì, il missile ipersonico russo fa paura, ma poi non centra il bersaglio. “Mad Vlad” vanta il suo arsenale atomico tattico e strategico, però quel che conta davvero è lo scudo stellare. E’ il mistero più fitto, chissà se gli Stati Uniti che posseggono meno testate nucleari della Russia, hanno ancora il primato della star war? E a che punto del loro frenetico inseguimento sono arrivati i cinesi?
Il campo di battaglia in Ucraina rimanda a super computer, microprocessori sempre più potenti, software iper sofisticasti, ma anche a piccoli guerrieri digitali, relativamente a buon mercato, maneggevoli, facili da usare: i droni, protagonisti in cielo, in terra e in mare dove sono riusciti a colpire la possente flotta russa. Micro droni diventano gli occhi e le orecchie dei soldati. Per disorientare un areo-drone s’è mosso addirittura un Mig-21. John Boyd, colonnello dell’aeronautica americana e stratega del Pentagono, chiama la nuova strategia “cappio OODA”, acronimo per Osservare, Orientare, Decidere, Agire. Il nodo si stringe attorno al nemico grazie all’intelligenza artificiale in grado di eseguire ognuna delle quattro attività in modo più rapido e preciso, perché il conflitto ormai si combatte al ritmo dei computer, non più a quello delle persone. Agli esseri umani è riservata la decisione ultima, oltre alla sorveglianza e al comando delle operazioni. L’Ucraina dimostra come saranno condotte le guerre: da uomini e macchine che operano insieme. Gli algoritmi stanno diventando sempre più sofisticati fino ad avvicinare le capacità e le prestazioni umane. Con l’arrivo dell’Intelligenza artificiale generale (Iag) anche questo sarà possibile; per ora non ci sono elaboratori veloci e potenti abbastanza, si aspetta l’arrivo dei computer quantistici, una tecnologia ancora emergente. Ma già oggi sorgono profondi problemi etici e legali anche in caso di guerra, a meno che il conflitto armato non sia travestito da “operazione speciale” o non si tratti di barbarico sterminio. Occorre compiere un’altra tappa nel cammino iniziato quattro secoli fa dal filosofo olandese Ugo Grozio (“De iure belli ac pacis” che fonda il diritto internazionale basato sul diritto di natura, è stato pubblicato nel 1625). E proprio l’Olanda si è presa il compito di aprire questo capitolo tutto da scrivere.
Il 16 e 17 febbraio si è svolto a L’Aia, organizzato dal governo olandese insieme a quello della Corea del sud, il summit Reaim (Responsible artificial intelligence in the military). All’evento hanno partecipato delegati di 50 Paesi, fra i quali Stati Uniti e Cina, ma non è stata invitata la Russia. Governi e imprese private si sono confrontati su un futuro che è già presente. L’amministratore delegato della statunitense Palantir, specializzata nelle nuove tecnologie e nell’analisi di big data, non ha nascosto il coinvolgimento della propria azienda nel conflitto in Ucraina. “Siamo responsabili della maggior parte degli attacchi”, ha ammesso Alex Karp. Fra i servizi della sua impresa c’è la possibilità di analizzare i movimenti satellitari e i feed dei social media per visualizzare la posizione del nemico, consentendo all’esercito ucraino di prendere di mira carri armati e artiglieria. L’IA riesce a elaborare rapidamente una gran quantità di dati, velocizzando le manovre e favorendo un approccio ostile in minor tempo. Ma Karp, con i suoi capelli grigi scarmigliati che ne fanno lo stereotipo dello scienziato picchiatello, è stato sincero: “Siamo agli albori dell’intelligenza artificiale e una delle cose principali che dobbiamo fare in occidente è renderci conto che questa novità è stata completamente compresa anche da Cina e Russia”.
La AI war (Artificial intelligence war) è stata preparata da tempo. Era il 2019 quando il Pentagono dichiarava solennemente nel suo documento strategico: “L’intelligenza artificiale è pronta a cambiare la natura stessa del campo di battaglia”. Un anno prima aveva aperto uno specifico centro di coordinamento (Jaic) ed era stata istituita la Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale. Nel 2020 l’amministrazione americana ha stanziato quasi un miliardo di dollari per queste applicazioni digitali e una cifra più di quattro volte superiore per le strumentazioni autonome o senza equipaggio. Da allora si è andati avanti a passo di carica grazie al vantaggio strategico offerto dall’intelligenza artificiale. Sarebbe un errore pensare che essa sia utile solo per le attività di routine. Le immagini basate sull’IA forniscono un quadro esatto di ciò che sta accadendo in combattimento, consentendo colpi più precisi e meno danni collaterali, oltre a proteggere i soldati. Il software e gli algoritmi, macinando grandi quantità di informazioni in modo rapido, possono ridurre al minimo gli errori.
Michael Horowitz dell’università della Pennsylvania paragona l’intelligenza artificiale al motore a combustione interna o all’elettricità – una tecnologia pratica dotata di una miriade di usi – dividendo le sue applicazioni militari in tre categorie. Una consiste nel permettere alle macchine di funzionare senza supervisione umana. Un’altra nel processare e interpretare ampi volumi di dati. La terza nel contribuire a guidare, o addirittura nel dirigere in prima persona, le attività belliche di comando e controllo. I robot sono più economici, più resistenti e più sacrificabili degli esseri umani. Ma una macchina in grado di vagare per un campo di battaglia, e a maggior ragione di versare sangue su di esso, dev’essere abbastanza intelligente da sostenere un simile fardello. Un drone stupido non sopravviverà molto. Peggio ancora, un robot ottuso e dotato di armi da fuoco può facilmente provocare un crimine di guerra. All’intelligenza artificiale è richiesto il compito di fornire alle macchine le abilità necessarie. Tra queste ce ne sono di semplici, come la percezione e la navigazione, e altre più raffinate, come il coordinamento con altri agenti. “I robot, che siano assassini o no, devono agire in base a ciò che vedono”, ha scritto l’Economist, quindi è fondamentale raccogliere, con satelliti, aerei spia, droni o magari semplici sms dal telefonino, dati grezzi che possano essere trasformati in utili elementi d’intelligence.
Chi controlla l’IA? Come ai tempi della sfida atomica durante la Guerra fredda, oggi si apre l’ingarbugliato dossier del controllo bilanciato. E’ stato il tema centrale del summit Reaim. E’ interesse dei governi, ma anche delle imprese. La Boston Dymanics che produce BigDog, il robot quadrupede per l’esercito statunitense, ha lanciato con una lettera aperta un appello affinché ci siano regole chiare per tutti. Un sistema basato sull’intelligenza artificiale consente alle forze armate di operare in modo più efficiente, tuttavia ci sono seri pericoli per i civili. Il sottosegretario di stato americano per il controllo degli armamenti Bonnie Jenkins ha invitato tutti gli stati “a unirsi a noi nell’attuazione delle norme internazionali, in quanto riguardano lo sviluppo militare e l’uso dell’intelligenza artificiale. Vogliamo sottolineare che siamo aperti all’impegno con qualsiasi paese interessato”. Il rappresentante cinese Jian Tan ha chiamato in causa le Nazioni Unite, per lui il Palazzo di Vetro è la sede giusta per “opporsi alla ricerca di vantaggi militari ed egemonia assoluti.” Il ministro degli esteri olandese Wopke Hoekstra ha ammesso che siamo solo agli inizi. Che cosa controllare in questo turbinio di innovazioni? Chi controlla chi? Sorvegliare e punire è una strada impraticabile, non sappiamo per quanto, forse per sempre. E qui arriviamo alla natura stessa nelle nuove tecnologie.
Lasciamo parlare ancora Schmidt. La tecnica ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel determinare gli equilibri di potere: il passaggio dal bronzo al ferro e all’acciaio, le macchine a vapore, l’impiego di aerei fino alla fissione nucleare. Dov’è la novità? “In passato c’era una chiara soglia e una volta che un paese la raggiungeva, il campo da gioco era livellato. L’intelligenza artificiale, invece, è di natura generativa. Presentando una piattaforma per continue innovazioni scientifiche e tecnologiche, può condurre ad ancor più innovazione. Questo fenomeno rende l’età dell’IA fondamentalmente diversa dall’età del bronzo o dell’acciaio. Piuttosto che la ricchezza di risorse naturali o la maestria nell’uso di tecnologie date, la fonte della potenza di un paese giace ora nella sua abilità di innovare in continuazione”. Ciò non vale solo per la guerra naturalmente, si tratta di un principio di carattere generale, riguarda la crescita e il benessere economico, il posto nel mondo di una nazione e nello stesso tempo le condizioni di vita dei suoi cittadini. Ecco perché non si possono mettere i mutandoni alla ricerca e all’innovazione in generale, dalla sperimentazione di nuovi alimenti o farmaci che migliorino la vita alla mobilità urbana, dai metodi di studio agli strumenti di lavoro e così via. Questo semplice precetto vale ancor più per una tecnologia che di per sé genera sempre nuovi avanzamenti, qualcosa che non si era mai visto in passato, e realizza come nient’altro il paradosso della lancia e dello scudo.
Torniamo con i piedi per terra. La competizione su scala mondiale è soprattutto competizione tecnologica e oggi non si confrontano più solo paesi, ma sistemi. E’ drammaticamente chiaro in Ucraina. E’ evidente anche tra Stati Uniti e Cina. “Nel modello cinese di fusione civile-militare – scrive Schmidt – il governo promuove e sovvenziona direttamente dei campioni nazionali; le imprese massimizzano il successo commerciale e servono agli interessi di sicurezza nazionale del paese. Il modello americano, invece, si basa più su una serie disparata di attori privati. Il governo finanzia la scienza di base, ma lascia al mercato l’innovazione e la commercializzazione”. Questo sistema non è cambiato con le leggi dell’amministrazione Biden per incentivare la transizione digitale. Spesso il Pentagono svolge un ruolo attivo nel favorire fusioni, acquisizioni o la razionalizzazione di imprese nei settori più legati alla sicurezza (si pensi all’aeronautica militare o all’industria missilistica), ma il paradigma resta quello di uno “stato ostetrico” anziché uno “stato imprenditore”. Nel grande gioco l’Unione europea entra con l’idea di creare campioni europei, prendendo quindi un po’ dall’uno un po’ dall’altro, incerta se inserirsi senza remore nel modello americano o tentare una “terza via”. Il ritardo del Vecchio Continente non è incolmabile, però una zavorra ideologica e politica ha impiombato le ali d’Europa. La sorte dell’Ucraina segnerà senza dubbio un punto di svolta.
Editoriali