piccola posta
Caro Rovelli, anch'io amo l'occidente ma so da che parte stare
Ci sono bombe giuste e bombe sbagliate, e anche guerre necessarie a non combatterne altre. Replica punto per punto sui mezzi leciti e doverosi da impiegare per difendere i princìpi liberali minacciati da Putin
Caro Carlo R.,
Nel primo periodo della guerra mi turbarono due notizie simmetriche, per così dire: che a Genova alcuni portuali boicottavano la spedizione di armi verso l’Ucraina, e che in Bielorussia alcuni ferrovieri boicottavano i convogli ferroviari di armamenti dell’esercito russo. I camalli genovesi vantavano fieramente la propria iniziativa, i bielorussi rischiavano la galera o peggio per la loro. In altri tempi, avrebbero potuto essere due facce della stessa medaglia: ora erano le facce stridentemente opposte.
Gli scambi precedenti tra Sofri e Rovelli:
Ho una domanda per te. Partendo dal punto fermo: tu sei contrario all’aiuto in armi alla resistenza ucraina. Non sei nemmeno di quelli tepidi: “Ero favorevole, ma poi le cose sono cambiate, adesso bisogna smettere…” – contrario e basta. Ora: immagina di trovarti in un punto del fronte dell’operazione speciale, e di avere per qualche ghiribizzo degli dèi (si deve immaginare di tutto, noi lettori di Anassimandro e colleghi) l’autorizzazione ad armare o disarmare gli uomini che ti stanno sotto, nella trincea che si sono scavati, e aspettano che tu decida. Che fai?
Sarei deluso se mi obiettassi che una cosa è rifiutarsi all’invio di armi da lontano, deciso ed eseguito da altri – senza toccarle, senza vedere in faccia gli uomini della trincea, senza sentire il rombo e il sibilo dalla trincea di fronte – e altra cosa sguazzare nel loro fango. Ma padrone come sei del tema dello spazio e del tempo, ammetterai che la responsabilità della decisione, se non è identica, è moralmente simile, che venga presa da un laboratorio di Marsiglia o dal fronte di Bakhmut. Se il caso che ti chiedo di immaginare ti sembrasse emotivo o bassamente sofistico, te lo riproporrei nei termini settecenteschi dell’apologo sull’uccidere un mandarino cinese (“che cosa faresti nel caso in cui potessi arricchirti uccidendo in Cina, con il tuo solo pensiero, un vecchio mandarino, senza muoverti da Parigi?”). A meno che non accetti che la compassione scompaia con la distanza, ne concludo che tu, e i molti che come te ritengono che le armi in mano agli ucraini non facciano che protrarre il loro sacrificio e mettere a repentaglio la pace di tutti, siate risoluti non solo a non armare, ma a disarmare i combattenti ucraini. Dunque che l’avversione all’aiuto armato, comunque motivata (salvi i casi personali di nonviolenza religiosa, assoluta) corrisponda all’esortazione agli ucraini di arrendersi, e al desiderio intimo che si arrendano. A quella strategia della resa, che a volte può essere un’eccellente scelta, a condizione che non ci si arrenda per conto altrui. Per delega. Sei per strada, uno grosso assalta un altro a tradimento e lo picchia e gli urla: “Di’: mi arrendo!”, e tu, dal marciapiede dirimpetto, gridi a tua volta: “Arrenditi!”.
(Mi rimproverano di ridurre la guerra alla portata di un pestaggio di strada. Ma ho dei maestri. Uno è quello dell’uomo pestato sulla strada di Gerico e dei farisei che passarono oltre. L’altro sei tu, Carlo Rovelli: “Due maschioni tatuati di periferia che si picchiano di santa ragione e sono disposti a tutto pur di non cedere, e per punire l’altro. In mezzo, un popolo devastato e infinito dolore”. E’ quasi così. Che si tratti anche di un affare fra maschi è certo. Ma c’è uno dei due che “ha cominciato”. E il popolo devastato e dolente è uno, e proprio quello di chi non ha cominciato).
Ho svolto questo arzigogolato paradosso dell’arrenditore, per venirti incontro. Il 24 febbraio 2022 sono rimasto senza fiato per qualche secondo, e quando l’ho ripreso ho gridato: “Forza!” agli ucraini, e non avrei potuto fare altrimenti, e sono stato sbalordito e avvilito che potesse essere diversamente, benché i due anni di intrepida resistenza ai vaccini avessero messo sull’avviso (tu ai vaccini non hai resistito, al contrario – e ci mancava altro!). Avevo, oltre che una naturale inclinazione e una prima infarinatura – il libro “Cuore”, la via Pál, il “Piccolo alpino”, manuali da maschietti – il vantaggio di esperienze più tarde. La Bosnia aggredita dal nazionalismo serbo in una nitida anticipazione della Russia in Ucraina, dove il tuo principio: “Non con le bombe!” si è misurato con quattro anni di bombe da una sola parte contro un’altra parte, contro Sarajevo – ero lì, fa bene procurarsi un interesse personale a detestare le bombe e i cecchini. Sicché gli abitanti di Sarajevo assediata le bombe le invocavano, quelle poche che finalmente, ma solo dopo Srebrenica, misero fine al mattatoio. Pacifisti simularono gratuitamente di interporre i loro corpi ai cancelli dell’aeroporto di Aviano da cui decollavano i caccia per la Bosnia: la parola Pace gridata da loro suonava come un oltraggio vanesio. La cosa si è ripetuta con lo Stato islamico: nel Kurdistan iracheno, fra le scampate yazide, aspettavo che il mondo trovasse la decenza di farla finita con quella masnada di decapitatori televisivi. Quando scoprii che tu invitavi a lasciarli fare (“la gente non ha ragione di fuggire dalle zone sotto il controllo dell’Isis perché questi territori ora non sono più in guerra”) non credetti ai miei occhi, e fu la nostra prima mezza discussione. Ti avvertii che “dai territori controllati dall’Isis, sono fuggiti – quando ci sono riusciti, e non sono stati massacrati se uomini, schiavizzate se donne – centinaia di migliaia di yazidi, cristiani, sciiti e turcomanni e membri di altre minoranze, oltre a un gran numero di sunniti spaventati e disgustati dal regime dell’Isis”.
Di bombe i jihadisti dell’Isis fecero scialo come i loro colleghi nazional-serbisti, tanto più che l’esercito iracheno si era dato alla fuga lasciando nelle loro mani il colossale armamento appena fornito dagli americani. Il Califfato del Daesh finì (almeno in quella incarnazione, perché è vegeto in Asia e in Africa e in medio oriente, e in Europa aspetta la sua nuova occasione) solo nel 2017, dopo aver spadroneggiato per anni, e solo grazie al valore dei curdi e infine degli iracheni sul terreno e alle bombe della coalizione internazionale, 60 paesi!, guidata dagli americani, dal cielo.
(Certe volte mi fai cadere le braccia. Dici: “Mi unirei al coro contro il riconoscimento del Donbas che ha innescato la guerra ucraina, se aggiungessimo che ci siamo sbagliati riconoscendo Slovenia e Croazia, innescando la guerra civile Iugoslava”. E un po’ di righe più in là dici: “L’Ucraina si potrebbe risolvere come la crisi Iugoslava: con una separazione”).
Bisognava, e bisogna, ogni volta metter fine a “quella guerra”, non “alla guerra”. In nome della fine “della guerra” si lasciavano infierire quelle guerre. E questa.
C’è bomba e bomba: che brutta constatazione, eh? Potresti obiettare che c’è una scelta alternativa, la nonviolenza. E’ successo anche a me di perseguirla, perfino con un eccesso di zelo e di confidenza, facilmente spiegato dalla confidenza nella violenza rivoluzionaria da cui venivo. Fu il tempo del Leopardi della Ginestra – “tutti fra sé confederati estima…”-, di Tolstoj e Gandhi. Provammo a prendere uno scacco come un’occasione: la disfatta, il disfacimento, delle ideologie totali e unilaterali, e poi la fine della Guerra Fredda, risarcite dalla lezione femminista e dalla conversione ecologista, accanto alla lotta di classe ricondotta a una dimensione relativa. (“Non è vero che i proletari non hanno da perdere che le loro catene: hanno da perdere le loro donne”).
Poi però andai a vedere le guerre.
Gandhi prese le sue cantonate. Cito ancora la famosa, tremenda “Lettera agli inglesi” che scrisse nel 1940: “Faccio appello perché cessiate le ostilità /contro la Germania nazista /, non perché non siete più in grado di sostenere la guerra, ma perché la guerra è un male in assoluto… Invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola… Se vorranno occupare le vostre case, voi le abbandonerete. Se non vi lasceranno uscire, voi insieme alle vostre donne e ai vostri figli vi lascerete uccidere piuttosto che sottomettervi”. Anche Gandhi infatti, pur sensibile alla “bellezza del compromesso”, cedette all’assolutismo della nonviolenza. Ma anche Gandhi badò all’efficacia della nonviolenza, e di fronte alla sua impotenza dichiarava la violenza cento volte preferibile alla viltà. “Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza… In base a questo principio ho partecipato alla guerra contro i boeri, alla cosiddetta ribellione degli zulù e all’ultima guerra. E sempre per questo principio mi sono dichiarato favorevole all’addestramento militare di coloro che credono nel metodo della violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che, in modo codardo, divenisse o rimanesse testimone impotente del proprio disonore”. Questo era nel 1920. E quest’altro del 1947: “Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione. Quest’ultima non reca beneficio a nessun uomo e a nessuna donna. Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve saperli giudicare da solo. Nessun altro può farlo o ha il diritto di farlo al suo posto”.
Tu hai davvero pensato a un’attuazione efficace, o appena dignitosa, della nonviolenza da parte ucraina il 24 febbraio 2022? Anche immaginare questo è irreale: la storia ucraina era la meno appropriata a una adesione culturale e materiale alla nonviolenza. Quand’anche l’avesse praticata, Zelensky e i suoi sarebbero stati sostituiti dalle “persone perbene” e il resto di conseguenza. Il resto, lo si è visto nelle città occupate. A Mariupol, a Kherson: fosse comuni, galere, torture, deportazioni, programmi scolastici rifatti da capo a fondo per la lingua, la storia, la geografia, le bazzecole.
Le cose su cui dissentiamo sono quasi tutte, per così dire. Fai tuo un racconto che coincide con quello del Cremlino e del generale Mini (è lo stesso) e della sequela degli Indulgenti: la Russia umiliata, Putin offeso. Per esempio, nell’insistenza sulla “complessità” identificata con i precedenti – la guerra che c’è dal 2014, la Nato che provocava alla frontiera russa, ecc. – e i precedenti trasformati nelle cause, la successione trasformata in genealogia. Ma i precedenti – il Trattato di Versailles – non sono le cause. E’ l’imbroglio logico dunque morale dei precedenti mutati in cause, spinto all’indietro fino alla preistoria e alla relativa archeologia, a rendere irriducibilmente nemici israeliani e palestinesi. Abbiamo sempre a che fare con una condizione pregiudicata, con il peso dei precedenti, dei fatti compiuti. Per il Creatore fu piuttosto facile, oggi non saprebbe che pesci pigliare. Il rimando alle “ragioni remote” non potrà mai cancellare la cesura fatale del passaggio a quella che noi (Putin no) chiamiamo guerra. Te lo dico con le parole di Chomsky, uno cui, nel caso in questione, ti senti vicino: “Prima di tutto dobbiamo stabilire alcuni fatti che sono incontestabili. Il più cruciale è che l’invasione russa dell’Ucraina è un grave crimine di guerra paragonabile all’invasione statunitense dell’Iraq e all’invasione Hitler-Stalin della Polonia nel settembre 1939, per fare solo due esempi rilevanti. E’ ragionevole cercare spiegazioni, ma non ci sono giustificazioni o attenuanti.”
Così, tu mi scrivi del “rifiuto dei piani di pace proposti dal governo cinese o dal Papa”. Ma non esistono piani di pace cinese o del Papa. I cinesi hanno detto che “la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi dovrebbero essere effettivamente garantite”. Lo dice l’Onu, è una premessa a tutto (anche alle loro preoccupazioni su Taipei). Sarebbe stata la premessa a un proposito di negoziato se Xi l’avesse proposta a Putin nel loro incontro. Il Papa auspica che tacciano le armi e torni la pace, e raccomanda alla Madonna il martoriato popolo d’Ucraina. Non è un piano.
Nell’elenco delle malefatte dal nostro lato citi le “basi militari americane tenute nella Siria in guerra civile – guarda caso proprio intorno ai pozzi di petrolio”. Immagino che ti riferisca a Deir ez Zor, dove, “guarda caso”, l’Isis di Raqqa spadroneggiò dal 2013 al 2017, compiendo stragi efferate e ingenti, contrabbandando petrolio, finché gli americani fecero saltare le raffinerie di fortuna e le autocisterne. Dai lati opposti i curdi sostenuti dalla coalizione internazionale e i “lealisti” di Assad sostenuti dall’aviazione russa e dagli hezbollah ebbero ragione dei miliziani. Poi il casino è continuato. A Deir ez Zor ci sono basi americane, iraniane, russe.
Ti copio un commento di Fouad Roueiha alla tua lettera, dal mio Facebook: “Da siriano, pur confermando la presenza statunitense vicino ai pozzi dell’area curda, non mi sfugge che ad aver costruito e ingigantito le basi militari permanenti sono i russi, così come ad aver firmato col regime accordi che svendono le nostre risorse sono di nuovo russi, iraniani e in minor misura i cinesi”. Nell’intera Siria, il fenomeno più rilevante è stato il progressivo ritiro americano dopo la tragicommedia della “linea rossa” di Obama, che nel 2013 ha lasciato mano libera alla forza armata russa e ha assicurato la sontuosa sopravvivenza di Assad.
Ti ho imputato una confusione fra i regimi e le persone, e replichi: “Sicuro? Per mestiere vivo fra argentini, cinesi, iraniani, indiani, brasiliani…”. Sì, immagino bene che tu abbia rapporti internazionali eccitanti, te li invidio. La comunità scientifica è un esemplare caso di collaborazione e amicizia che supera i confini (a volte si rovescia nel contrario, come quando all’atomica lavoravano squadre nemiche di formidabili scienziati, e se avesse vinto la squadra nazista…). I tuoi amici scienziati cinesi, te li invidio. Ho goduto di un privilegio un po’ somigliante in galera, anche là dentro c’è una comunità internazionale giovane che, quando invece di accoltellarsi solidarizza, è fautrice di simpatia e intelligenza, e bisognava investirci. Continui: “Studenti, colleghi, persone che incontro viaggiando. Anche loro, come te e me, detestano le nefandezze che elenchi. Ma pensano che queste nefandezze sarebbero più facili da combattere se l’occidente fosse meno aggressivo, non più aggressivo. Ho chiesto qualche giorno fa ad amici sudamericani quale sia il sentimento in Argentina riguardo alla guerra in Europa. Risposta: più simpatia per la Russia. E il Brasile?… Nessuna sanzione alla Russia da parte del Brasile, come del resto da parte di quasi tutto il mondo”. Il mio giovane amico Luciano Capone dissente scrupolosamente dalla tua impressione. Avverte che la tesi, circolante come assodata, secondo cui solo il piccolo ricco e decadente occidente avrebbe condannato la Russia mentre tutto il resto del mondo no, è del tutto infondata. “L’Assemblea delle Nazioni Unite ha difeso l’integrità territoriale dell’Ucraina (uno dei princìpi fondamentali della Carta) e condannato l’invasione russa con 143 voti a favore, 35 astensioni e solo 5 contrari. Oltre alla quantità, vale anche la qualità del voto, visto che i 5 contrari sono tra le peggiori dittature del mondo (Russia, Bielorussia, Nord Corea, Nicaragua e Siria). Neppure la Cina amica ‘senza limiti’ di Putin se l’è sentita di andare oltre l’astensione… Le democrazie che Rovelli cita come vicine alla Russia, Argentina e Brasile, hanno condannato l’invasione russa. Non c’è un paese dei Brics che nell’Assemblea dell’Onu abbia votato come la Russia. Davvero le sanzioni economiche per lui valgono di più del voto alle Nazioni Unite?”.
Penso che Capone abbia ragione, benché io stia piuttosto a metà strada. Penso che, non la resistenza ucraina, ma l’alleanza che l’ha sostenuta, abbia largamente sottovalutato l’eventualità che la Russia, annaspando dopo il calcolo sbagliato e canagliesco della prima invasione, cercasse poi riparo nella mutilazione totale della sua metà europea dal cosiddetto occidente collettivo – e nella deriva asiatista senza riserve, a rimorchio della Cina e con il miraggio della proiezione sul “sud del mondo”. Il Rest contro il West. Il West è stato distratto e anche stupido: ha scambiato i propri desideri per realtà. Non tanto per arroganza (un’arroganza in Biden c’è, oltretutto come riflesso della disfatta di Kabul) ma per esser stato preso di sorpresa, anche il West – come Putin, come Lucio Caracciolo, si licet – dalla inaudita resistenza militare e civile ucraina. Gli Stati Uniti erano davvero pronti a dargli un passaggio, all’attore comico Zelensky. A ripetere Kabul – l’avevano appena fatta, Kabul.
Al contrario di quello che a te piace credere, che tutto ciò che è avvenuto, l’implosione dell’Urss nel 1991, o almeno l’Euromaidan del 2013-14, o almeno la guerra, solo in minor parte “civile”, del 2014, o almeno la resistenza di Kyiv dal 24 febbraio in poi… – tutto sia stato ordito dalla longa manus della Casa Bianca e del Pentagono e della Cia, queste entità favolose sono state a loro volta prese in contropiede dal 25 e dal 26 e dal 27 febbraio, e ci hanno messo un po’ a sciacquarsi la faccia e prendere le misure. E perciò le hanno sbagliate. Hanno ecceduto dal lato opposto, come nelle frasi avventate di Biden frettolosamente rettificate, come nella sopravvalutazione dell’effetto delle sanzioni, come nel passaggio dalla scoperta stupefatta che Putin potesse non vincere a quella che l’Ucraina potesse vincere. E soprattutto, nel dimenticarsi di aggiornare l’intero complesso delle relazioni internazionali alla nuova, imprevista e sconvolgente scena della guerra in Europa. Scrivo questo anch’io col senno di poi, perché, pur essendo schierato dalla prima ora con la resistenza degli ucraini aggrediti, ed essendo persuaso – fidati: è tutto scritto, giorno per giorno – che la situazione chiamasse in causa soprattutto la responsabilità dell’Europa, non vedevo dove si potesse far leva per sventare la possibile uscita di sicurezza politica del Putin dimezzato: nella Cina, nell’India, nella rianimazione dei Brics, e nell’appello al sud del mondo, oltre che, in nome della tradizione di Dio patria e famiglia, nei non-occidenti interni all’occidente. Col senno di poi, ripeto. Che vuol dire guardando al padronato odierno di Xi sul benzinaio Putin, alla combutta russa con l’Iran dei droni Shahed e dello schiacciamento della rivolta delle donne e della libertà, al patrocinio dell’avvicinamento fra Arabia Saudita e Iran – che oltretutto intrappola la parte non infeudata all’Iran dell’Iraq arabo – e così via. Né gli Stati Uniti né l’Unione europea hanno fatto mosse che ostacolassero questi svolgimenti, con l’eccezione relativa dell’atteggiamento di Biden nel confronto Lula-Bolsonaro e poco più. In qualche caso, per esempio con Riad, il difetto di lungimiranza si aggiungeva a limitazioni imposte da una pubblica decenza, come l’ombra recente dello squartamento principesco di Jamal Kashoggi.
Se, una volta constatata la solidità della risposta ucraina all’invasione e l’instaurazione di un conflitto di così vasta e coinvolgente portata, Biden avesse proposto a Xi di andarlo a trovare, o di incontrarsi in capo al mondo, avrebbe fatto probabilmente una cosa utile, se non giusta (la Cina è il penitenziario che è, ed è appena di ieri il modo in cui ha schiacciato irreparabilmente uno dei luoghi più vivaci, liberi e coraggiosi del nostro tempo, Hong Kong. Lo ricordo perché tu hai una tremenda indulgenza con la Cina, non nomini il Tibet e il Turkestan orientale/Xinjiang, dici che non hanno mosso un soldatino, ignori la colonizzazione travolgente dell’Africa e quella promettente dell’America latina…). Non l’hanno fatto, né gli Usa né la Ue, i cui singoli paesi hanno a volte fatto passi che cercavano invece di trattenere un po’ del retaggio dell’età appena perduta, quella per eccellenza dell’economia tedesca e per cattivo folklore della politica italiana, magliette di Putin e della Piazza Rossa e letti a due piazze da un lato, vie della seta dall’altro. L’hanno bensì caldeggiato via via in parecchi, ma alla loro condizione iniziale, poi sempre più sfrontata, che era il disprezzo per l’Ucraina e l’auspicio della sua resa – e l’assicurazione della sua certa sconfitta.
Bene. Non è mai troppo tardi – speriamo. Questo esulava dalle nostre differenze trascorse e presenti, ma forse potrebbe attenuarle. Io non ho potuto né posso immaginare di non stare saldamente dalla parte dell’Ucraina invasa. E credo che tutto ciò che uno, una, di noi possa fare di giusto, oltre che aiutare chiunque abbia bisogno di aiuto, per essere efficace e autentico debba fondarsi su quella premessa. Così l’impegno di contrastare il nazionalismo che è un esito cupo della storia ucraina, e che la guerra esacerba. Non me la sento, a differenza di te, di dire a Zelensky che condizioni dovrebbe accettare per stipulare una tregua o una pace. Me la sento di dire che ha rinunciato troppo presto – dopo i primi, sporadici tentativi – a rivolgersi a un’altra Russia, agli altri russi, quelli del passato che Putin è indegno di nominare e annettersi, e quelli che in questo anno e oltre hanno detto No alla guerra, sono finiti in guardina o in galera, sono stati messi alla berlina, sono fuggiti dal paese in cui avevano casa, famiglia, amici, futuro. A rivendicare il diritto a un’altra memoria già fin dalla sua propria lingua materna di ucraino ebreo russofono. Suonano a me stridule le voci che rinfacciano agli ucraini un settarismo nazionalista (per non dire “nazista”…) e insieme deprecano l’abnegazione e il coraggio con cui si battono per la propria libertà, e augurano loro di perderla.
Mi scrivi: “Ti piacciono i giovani ucraini che sventolano la bandiera europea e usano armi europee per uccidere altri giovani ucraini, che combattono dall’altra parte del fronte e volevano un Donbas indipendente”. Ma gli “altri giovani ucraini” sono una minoranza. I giovani ucraini vengono uccisi e uccidono dei giovani russi, che sono diversi da loro perché sono stati mandati a sopraffare, e alcuni, ipotizzo che non siano i più, ne godono, altri vi sono forzati (altri ancora, estratti dalle celle). Scrivi: “A me non piace nessuno che sventola bandiere e si dice pronto alla morte per un confine un po’ più in là o un po’ più in qua”. Vedi che le dici grosse: “Un confine un po’ più in là o un po’ più in qua”? Ti ricordi che c’era un muro a Berlino, e la gente cercava di scavalcarlo, a costo della vita, sempre solo da là a qua? Un mio – forse anche tuo – caro amico, Peter Schneider, scrisse un libro intitolato “Il saltatore del muro”, “Der Mauerspringer” (1982), immaginando il paradosso di uno che saltava il muro per andare di là. Un paradosso, appunto. La gente premeva alla porta di Berlino. Si aggrappava agli aerei di Kabul. La gente arriva a piedi e a nuoto a Cutro. Io non ho affatto una reverenza per l’occidente com’è, per gli occidenti come sono. Ho un’esperienza del desiderio di occidenti, di donne vita e libertà, che brucia l’anima delle ragazze e dei giovani del mondo, specialmente da quando il mondo si è fatto conoscere fino nell’infima delle loro capanne.
Dici: “Esistono soluzioni. Un referendum, come quello proposto dagli accordi di Minsk, o dalla risoluzione Onu 2202, entrambi rigettati dall’occidente, non è forse meglio di una guerra ‘per liberare l’Ucraina?’” Entrambi rigettati dall’occidente? Mi fai pensare a quegli impiegati assicuratori tutti d’un pezzo che non si rassegnerebbero mai nemmeno a un concorso di colpa.
Veniamo al mondo multipolare, che inviti a riconoscere come “la vera questione in gioco”. Scusa, Carlo, ma questo è l’ordine del giorno riconosciuto dal colto e dall’inclita da qualche decennio, magari dalla prima crisi petrolifera, e un paio di decenni almeno, magari dalle Torre Gemelle. Certo, il mondo è diventato più prospero, e me ne rallegro quanto te: è una delle facce della cosiddetta globalizzazione. Ma la storia contemporanea non è quella della reazione a oltranza dell’occidente, della Nato, e cioè degli Usa, per arginare o dilazionare la fine del mondo unipolare. Gli stessi Usa hanno avuto a turno una gran voglia di ritrarsene (persino l’America First della avventura demenziale di Trump non era un soprassalto di egemonismo mondiale, ma un’apoteosi dei cazzi propri). Non hanno premeditato di giocarsi l’Ucraina per andare alla riscossa del mondo ribelle alla loro presa, ma se ne sono fatti prendere in contropiede (benché alla fine fossero i soli ad avvertire che Putin stava davvero per farlo) e solo dopo sono stati tentati di cogliere l’occasione per alzare il tiro. E per esempio si sono ingolositi, alcuni di loro, della possibilità che un’Ucraina vittoriosa sulla Federazione russa potesse essere l’anticipazione di una Taipei vittoriosa sulla Repubblica popolare cinese. Il mondo multipolare però non sarà – non è stato – un mondo pacifico: al contrario. E il suo vigore ha finora ridotto lo spazio delle democrazie e accresciuto quello delle autocrazie. Chiedi di “riconoscere che non siamo i poliziotti del mondo”. Sai da quando dico che gli Usa non sono più, che lo vogliano o no, il “gendarme del mondo”? Il problema era ed è che gli Usa erano il gendarme del mondo quando facevano i prepotenti col mondo, e il poliziotto del mondo quando ne arginavano le prepotenze. Le ultime volte in cui, tardi ma finalmente, l’ha fatto sono state quella in Bosnia e quella contro Daesh. Quando l’ha fatto da gendarme è stato un disastro, specialmente nell’Iraq in cui è incorso nell’aggravante della menzogna confezionata, e della decorazione giacobina-trotzkista, non sempre insincera, della esportazione della democrazia. Ci credettero brevemente anche alcuni dei migliori miei coetanei e compagni di paesi diversi. Sono di più le volte in cui invece non l’ha fatto: le ultime, micidiali, il Ruanda per il quale Bill Clinton andò poi in pellegrinaggio a chiedere scusa riconoscendolo solo a cose fatte come un genocidio (aveva un obbligo cogente a intervenire con la forza contro un genocidio!) e la Siria della linea rossa fissata da Obama, che non si figurava che un farabutto appeso a un filo come Assad davvero osasse oltrepassarla con le armi chimiche, e Assad osò; e anche di Putin noi non riuscivamo a pensarlo, né io, che detesto la Russia di Eltsin e di Putin anche perché conobbi la guerra cecena, né i geopolitici, che le guerre le studiano a tavola. Il problema era già che non c’è più il gendarme del mondo, e il mondo non ha mai avuto tanto bisogno di una polizia.
“La questione – dici – è se l’occidente continui a pretendere di imporre quello che Biden ha chiamato il “US-led world order”, il dominio degli Stati Uniti sul pianeta, oppure accetti l’idea che la “democrazia”, che tanto osanna, sia veramente un valore, e debba regolare i rapporti fra le genti del mondo”. Forse qui la confusione fra stati, regimi, governi, e popoli e persone, l’annessione delle persone agli stati che ti ho addebitato, ti ha preso la mano e consigliato l’impiego del termine insolito de “le genti del mondo”. Raro, fuori dal latino delle encicliche e del giure. La Cina ha in effetti una sua teoria della democrazia fra le genti, che consiste nel prendere atto di qualunque regime detenga il potere attraverso il pianeta, senza metterlo in discussione e vietando che si discuta il suo, e farci i suoi affari (reciprocamente convenienti, si potrebbe sostenere: in realtà sono affari enormemente squilibrati che valgono una forma di aggiornato colonialismo, compresa l’esportazione di manodopera umana in eccedenza). Questo regime ha una sua pretesa pacifica – la Cina preferisce per il momento comprare il mondo piuttosto che fargli guerra. Ma è difficile chiamare questa provvisoria convenienza, che svuota il Congo del suo cobalto e del suo coltan, il Mozambico del suo legname, e così via, “collaborazione fra popoli”. Il realismo può essere inevitabile, non la sua caratterizzazione idilliaca. La Cina è per antonomasia “too big” per essere costretta al diritto delle genti. Nemmeno con l’Egitto abbiamo il coraggio di farci processare quattro torturatori di nostro figlio. “Economia, Orazio, economia”: ma non democrazia.
Dici: “Amo l’occidente. Mi piace, è la mia cultura. La voglio difendere. Voglio che abbia la forza morale e culturale di apprendere da altri e di influire sul resto del mondo, nello stesso modo in cui vorresti tu”. Vedi, siamo d’accordo. “Ma non con le bombe”. No, non con le bombe, tutte le volte che si possa.