Kharkiv dopo un attacco russo, lo scorso 10 febbraio (Ansa)

LO SPECIALE sulla guerra

La guerra aggrava i problemi di un paese e in Ucraina ne sono stati ignorati due rilevanti

Adriano Sofri

La considerazione del dissenso interno alla Russia e la stentorea campagna sulla controffensiva potevano essere gestitie diversamente da Kyiv. Ma Putin non ha vinto e ora si offre da esercito mercenario per la fantasiosa rinascita dei paesi non allineati

Noi siamo gli slogati che si vantano stanchi di guerra. Gli ucraini, donne e uomini, sono stanchi davvero. Milioni, tante donne e bambini, sono da due anni espatriati, e tanti non torneranno. Milioni sono sfollati, all’interno. Centinaia di migliaia sono combattenti, molti senza interruzione dall’inizio – chiedono un ricambio al fronte “dopo 18 mesi”. Molti sono spaventati e rintanati. Innumerevoli sono morti o mutilati o allucinati. Ieri la Danimarca ha detto che anticiperà la fornitura di F16 all’estate, e intanto che regala all’Ucraina l’intera sua artiglieria – affettuoso antiquariato. L’Ucraina potrà ancora battersi efficacemente, riguadagnare terreno, umiliare col proprio valore un’armata del soldo: lo spero ardentemente. Anche ogni altro esito è possibile. Che la società civile ceda, insofferente verso la leadership, divisa – fra combattenti, disertori e “imboscati”, fra espatriati e rimasti, fra poveri e arricchiti. Che ceda la leadership politica e militare. Qualcuno, fiducioso nella vittoria o disposto alla sconfitta dignitosa, si interrogherà prima che si faccia tardi? 


Si può pensare che in una guerra di difesa, quando è in ballo la sopravvivenza di un paese e della sua gente, i problemi di una normale vita democratica possano essere rinviati al tempo della pace restaurata. La guerra è il più stringente stato d’eccezione, e la legge marziale vuole adunare tutte le forze al fine della resistenza, con inevitabili sacrifici della vita civile. Ma due anni sono lunghi, e accantonare i problemi può mutarsi nell’abitudine a ignorarli. Per di più, la guerra li aggrava i problemi, a cominciare dal nazionalismo. L’alleanza internazionale che ha garantito all’Ucraina risorse civili e militari – almeno in parte, sempre in ritardo, attenta a limitarne le operazioni – si è astenuta dal confronto con la leadership ucraina sulla conduzione del paese, con una sola e ostentata eccezione, la richiesta di combattere la corruzione. La corruzione in Ucraina è un vistoso retaggio del passato sovietico ed è sentita da troppi come un ingrediente del colore locale. La guerra specialmente fa l’uomo ladro, era inevitabile accrescesse gli appetiti e insieme esasperasse lo scandalo dei pescecani, ingrassati addirittura sulle forniture di abiti e di cibo ai combattenti – vecchia storia. La corruzione non è stata estirpata, né poteva esserlo. E’ stata punita, spesso teatralmente, sempre dando l’impressione di tamponare una falla che si era troppo allargata. Così nel congedo di un ministro della Difesa, o nell’azzeramento delle Commissioni responsabili del reclutamento dell’intero paese. L’Unione europea e gli Stati Uniti lo chiedevano, gli ucraini glielo davano, il sistema resta. Sul resto, un non intervento degli alleati che probabilmente voleva evitare l’ingerenza e assicurare ai responsabili, a Zelensky per primo, il potere di decisione. Ma almeno due questioni meritavano di essere francamente sottoposte all’opinione pubblica internazionale. Una questione riguarda la considerazione dell’opposizione russa. L’altra riguarda la stentorea campagna sulla controffensiva. 

 

Nei primi giorni dopo l’invasione, il presidente Zelensky si rivolse in russo, che è la sua lingua materna, al popolo russo. Dopo, è successo molto raramente. Dopo, il bisogno di ripudiare la Russia e il carattere imperiale e sopraffattore della sua famosa anima, ha prevalso su ogni distinzione. Questo ha significato ignorare e non di rado disprezzare le manifestazioni di dissenso interno alla Russia: la tepidezza (e anche l’irrisione, ma in questo noi italiani ci siamo mostrati maestri) con cui è stato accolto l’assassinio di Alexei Navalny è l’ultimo episodio. E ha significato un’offensiva contro la lingua russa, che ha oltretutto offerto un pretesto in più a chi confonde russofonia e russofilia – tanti russofoni ucraini avevano sentito più oltraggiosa e traditrice l’aggressione russa. Molti, soprattutto i più giovani, decisero di passare – spesso studiandola – alla lingua ucraina. Molti altri soffrirono di una mutilazione della propria personalità e della propria cultura e dei propri monumenti, regalati a Putin e al suo Kirill e al suo regime di malviventi. Putin è il padrone del Cremlino, non della lingua russa, né della poesia, della letteratura, delle arti, della rassegnazione dei suoi contadini, della nobiltà e del sacrificio dei suoi dissidenti. La moltitudine di russi, giovani donne e uomini, che sono emigrati per il desiderio di un’altra vita, o anche “solo” per non essere costretti al fronte – come tanti che in Italia andarono in montagna – non è apparsa come un’alleata e un’interlocutrice, ed è stata trattata con diffidenza e ostacolata fisicamente dai paesi confinanti. Spettatrici e spettatori occidentali, anche i più simpatizzanti per la causa ucraina, hanno scelto per lo più di uniformarsi allo stato d’animo degli ucraini, e della loro componente più intollerante. Hanno anche imparato molto, certo. “Putin, non Pushkin”, sembrò uno slogan compromissorio che faceva torto all’intransigenza intrepida dei difensori ucraini: era un buon programma. 

 

C’era stata l’avanzata di Kharkiv, la liberazione di Kherson. Poi la propaganda sulla controffensiva, quell’annuncio martellante di un’avanzata risolutiva sempre imminente, sempre in attesa che il fango si asciugasse, fino all’arrivo del fango dell’anno dopo. Zelensky ha incarnato questa campagna con tutto se stesso. Ha preso su di sé l’intera responsabilità della vittoria sperata e l’intero peso della vittoria mancata. Gli sarà rinfacciato, lo è già da parte di opportunisti come quell’Arestovich prediletto dai nostri putiniani – dove vola l’avvoltoio. Zelensky e i suoi più stretti collaboratori avevano motivazioni comprensibili: intimidire il nemico e fiaccarne il morale, esaltare il morale delle proprie file, allargare i cordoni della borsa degli alleati.

In un momento, a Bakhmut, la resistenza ucraina aveva avuto un costo esoso ma aveva suscitato la folle rivolta del brigante Prigozhin al suo zar, un’occasione imprevedibile e mancata. Finalmente la constatazione che compendiava l’eroismo ucraino dopo i primi giorni dell’aggressione – “la Russia, se non vince, perde. L’Ucraina, se non perde, vince” – le è tornata indietro: pochi giorni fa, senza accorgersi di farle il verso, El Mundo ha intitolato: “La Russia, se non perde, vince. L’Ucraina, se non vince, perde”. L’inversione ha preso a pretesto l’oltranzismo verbale della leadership ucraina. Così come i titoli: “Putin ha vinto” – titoli da tifosi, consapevoli o no. Putin ha smaccatamente perduto la sua marcia trionfale per prendere Kyiv, insediarvi un suo burattino e riportare l’Ucraina intera dentro il suo recinto. Nella Nato che gli abbaiava al confine sono entrati confinanti proverbialmente neutrali come Finlandia e Svezia. E lui, personalmente, si è fatto conoscere: un infimo, vile, sanguinario funzionario, uno che tiene in pugno il suo enorme paese come un direttore penitenziario tiene una colonia penale siberiana. Quanto alla sua posizione nel mondo, Putin è oggi il pupillo dei più luridi e fanatici criminali, degli ayatollah iraniani e di Kim Jong Un, oltre che l’ospite di Hamas. Al mondo, cui un paese grandioso come il suo non sapeva dare se non gas e petrolio, e cereali in concorrenza con l’Ucraina, ora si offre da esercito mercenario per la fantasiosa rinascita dei paesi non allineati, dove la guida economica e politica è la Cina. Un servizio d’ordine dell’antioccidente. Putin starà a quella alleanza del sud del mondo come Kadirov sta a lui. Un buffone con l’atomica, con migliaia di atomiche. Sarà lo svelamento finale, perché la guerra è connaturata al totalitarismo della Federazione russa. Quando non ha mosso guerra – Cecenia, Georgia, Ucraina – è stato perché invadeva e conquistava senza colpo ferire, senza trovare difese: Crimea, Siria... 

 

Lo speciale del Foglio a due anni dall'invasione russa