Come nasce l'antivaccinista
Le resistenze di oggi non sono una novità. Il successo di queste credenze è radicato nella storia
Le attuali resistenze sociali contro le vaccinazioni non sono un fenomeno recente. I movimenti antivaccinisti hanno una lunga storia, che nasce insieme alla scoperta della vaccinazione da parte di Edward Jenner nei ultimi anni del 1700. Già allora, nonostante solo il 3 per cento dei vaccinati contro il vaiolo morisse contro il 30 o 40 per cento di coloro che venivano infettati dalla forma naturale della malattia, una minoranza ristretta della popolazione continuò a dubitare dell’efficacia e della sicurezza della vaccinazione. Le cose si complicarono ulteriormente quando nel 1853 l’Inghilterra introdusse l’obbligo per i neonati di tre mesi, gli oppositori decisero di fondare alcune associazioni antivacciniste e organizzare grandi manifestazioni di massa come quella di Leicester del 1885 cui aderirono circa 80 mila persone, con tanto di parate, volantinaggio e finte bare di bambini. La storia ci suggerisce dunque che già agli albori gli antivaccinisti avevano dunque due qualità spiccate: erano degli efficaci comunicatori e mostravano una certa refrattarietà ai dati offerti dall’esperienza e dalla scienza. Due atteggiamenti, come noto, ben validi anche oggi. Alcuni studi comparativi sulle resistenze sociali hanno poi dimostrato come le critiche attuali siano pressoché identiche a quelle presenti centocinquanta anni fa nei volantini delle prime leghe antivaccinali, quali, ad esempio, l’idea che i vaccini causino malattie o siano inefficaci, che la loro diffusione sia dovuta agli interessi commerciali, che essi contengano componenti tossici, che vi sia omertà sul numero delle reazioni avverse e che uno stile di vita naturale sia più efficiente dei vaccini contro le malattie infettive.
Ci troviamo
in un contesto
che gli evoluzionisti definiscono
di disadattamento (“misfit” o “maladapted”)
alla modernità
Il fatto che queste credenze siano così radicate e immutate nel tempo è probabilmente dovuto al fatto che esse sono sorrette da alcune distorsioni sistematiche di giudizio (bias cognitivi) cablate nel nostro cervello. La psicologia cognitiva e le neuroscienze dimostrano come il nostro cervello, selezionato per adattarsi al contesto ambientale del pleistocene, quando giravamo in bande di cacciatori-raccoglitori di trenta individui con un solo capo e valutazioni immediate del rischio, oggi fatica molto quando davanti a un vaccino o a una innovazione tecnologica è chiamato a fare il calcolo tra rischi-benefici, valutare probabilità, incertezza, scelte multiple e soprattutto informazioni contraddittorie. Ci troviamo in un contesto che gli evoluzionisti definiscono di disadattamento (misfit o maladapted) alla modernità. Gestire la complessità delle informazioni attuali con un cervello adattatosi nella savana del pleistocene è come montare un software moderno (un Windows 7) su un hardware dei primi anni Ottanta (ad esempio il Commodore64): il rischio che la macchina si ‘impalli’ è piuttosto probabile.
Questi bias cognitivi sottesi al rifiuto vaccinale sono validi oggi come a metà Ottocento, con la differenza che oggi l’avvento di internet ha aumentato significativamente la porzione di popolazione che entra in contatto con una enorme messe di informazioni legate al rischio e la probabilità sanitarie, che dunque il cervello spesso tende a rifiutare trincerandosi dietro paure o credenze irrazionali. Una reazione adattativa comprensibile ma fortemente dannosa per il bene pubblico.
I genitori che rifiutano le vaccinazioni infatti non solo mettono a rischio la salute dei propri figli, ma anche quella dei loro compagni di classe, esponendoli al rischio di malattie infettive potenzialmente letali. Il calo generalizzato dei tassi di vaccinazione nei paesi più avanzati sta infatti facendo riemergere malattie infettive sinora tenute sotto controllo proprio dalla vaccinazione. Nel 2015, una bimba di 4 anni all’ospedale Bambin Gesù di Roma, è deceduta a causa del morbillo, la stessa tragica sorte che è capitata a causa della la pertosse a una bimba di un mese a Bologna – dunque vittima delle mancata immunità di comunità, essendo priva di copertura perché in età prevaccinale –, negli ultimi due anni il focolaio infettivo di meningite in Toscana ha lasciato sul campo una dozzina di vittime e la difterite si è riaffacciata in Spagna e Belgio causando il decesso di due bambini.
Per questo negli ultimi anni sono emersi studi che hanno tentato di analizzare possibili soluzioni alle resistenze sociali contro le vaccinazioni. Da essi risulta chiaramente che gli oppositori non sono un insieme omogeneo, ma si distribuiscono tra oppositori radicali (8 per cento circa), che rifiutano categoricamente qualsiasi vaccinazione, e diverse forme di “esitanti” che vanno dai “selettivi” (20-30 per cento), disposti a vaccinare solo per alcune malattie, ai dubbiosi (25-30 per cento), che vaccinano in modo disomogeneo la prole e spesso senza rispetto delle scadenze, fondamentali, previste dalla schedula vaccinale. Una parte di radicali è impossibile da convincere: spesso votati a un atteggiamento naturista, se sfidati nelle loro credenze rinforzano ancora di più la loro posizione di rifiuto, secondo il noto bias del “ritorno di fiamma”. Per gli esitanti invece ci sono più possibilità di ottenere risultati, non solo evitando informazioni correttive – come ad esempio la dimostrazione che i vaccini non causano l’autismo come confermano le inoppugnabili analisi su milioni di individui – ma cercando di spostare l’attenzione dalla errata percezione dei rischi dei vaccini al rischio reale delle malattie infettive, un messaggio ancor più efficace se corredato da una informazione personalizzata e calibrata sulla prole anziché a generici riferimenti al bene comune o alla copertura di gregge.
Gli oppositori ai vaccini non sono un insieme omogeneo,
ma si distribuiscono
tra oppositori radicali, selettivi e dubbiosi
Sono stati analizzati anche gli effetti di alcune strategie neurocognitive in paesi privi di obbligo vaccinale. In Australia ad esempio chi è in ordine con la schedula vaccinale riceve incentivi per le tasse, ma i genitori di figli non vaccinati si impegnano a ritirarli da scuola durante le epidemie stagionali; in Canada è necessario che i genitori che obiettano-dissentono le vaccinazioni sottoscrivano una dichiarazione in cui attestino di aver ricevuto e capito tutte le informazioni sui rischi a cui espongono i propri figli, una soluzione adottata anche nella Repubblica di San Marino a cui però, saggiamente, le istituzioni sanitarie richiedono anche una polizza assicurativa, a carico dei genitori, di responsabilità civile verso terzi per eventuali danni da contagio; alcune autonome realtà regionali europee – su 27 membri comunitari, 15 non hanno le vaccinazioni obbligatorie e 14 invece ne prevedono almeno una – prevedono invece di richiamare i ragazzi non vaccinati una volta raggiunta la maggiore età offrendo loro una vaccinazione gratuita insieme a informazioni concernenti i rischi di una copertura vaccinale.
Di soluzioni efficaci ve ne sono molte, occorre capire quale adottare nello specifico contesto culturale italiano. Lasciano ben sperare gli atteggiamenti di promozione delle vaccinazioni presi in questi mesi dal ministro della Salute Lorenzin, dal Direttore del’Istituto Superiore di Sanità Walter Ricciardi, e soprattutto dalla coraggiosa decisione del Presidente dell’Ordine dei Medici (Fnomceo), Roberta Chersevani, che ha deciso di valutare insieme agli Ordini Provinciali severe misure sanzionatorie verso quel manipolo di ‘medici’ contrari alle vaccinazioni.
*Docente di Storia della Medicina, Sapienza Università di Roma
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