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Perché abbiamo più paura della Chikungunya che del morbillo

Giovanni Battistuzzi

Il timore per il diffondersi della malattia africana, non letale e limitata nei casi, è inversamente proporzionale a quello che abbiamo per malattie ben più pericolose per le quali in molti non si vogliono vaccinare. La lezione di Salgari

Una parola che viene dal sud della Tanzania, dalla lingua makonde, è diventata un sinonimo di preoccupazione, in qualche caso di paura. Chikungunya, che a mala pena si riesce a pronunciare e che alla lettera vuol dire "che piega", per via delle fitte che vengono al presentarsi dei sintomi, dolori che fanno contorcere i pazienti e li fanno assumere posizioni innaturali pur di diminuire i fastidi. E' il racconto di chi nel 1952 giunse nel paese africano sconvolto dall'epidemia che si era propagata e provocò centinaia di morti, a causa più che altro delle poche strutture sanitarie e per di più sprovviste di materiale medico. Anche perché la malattia ha un decorso violento, ma rapido e, se si evita che la febbre alta, le contrazioni muscolari e il dolore alle articolazioni portino a complicanze di altro tipo, soprattutto non letale. L'ultimo caso di morte in Europa per Chikungunya risale al 1989 a Marsiglia, in una famiglia di persone contrarie alla medicina. In Australia occidentale, dove le zanzare continuano a infettare la popolazione, i tassi annuali di malattia variano tra i 31,5 e 288 per 100mila abitanti, mentre il tasso di morte è dello 0,1 per cento.

 

La Chikungunya è una malattia provocata da un virus trasmesso da alcuni tipi di zanzare (tra queste la zanzara tigre). Nelle ultime settimane sono stati registrati undici casi ad Anzio e sei a Roma, come ha confermato il Servizio Regionale di Sorveglianza Malattie Infettive (Seresmi). I contagi, seppur limitati – nel 2007 nel ravennate si ammalarono 250 persone –, hanno provocato una piccola psicosi. Il Centro nazionale sangue e dalla Regione Lazio, per evitare il contagio, ha fermato le donazioni di sangue nella Asl Roma 2, che copre il sud est della capitale e dove vivono circa 1,2 milioni di persone. Il sindaco Virginia Raggi ha avviato una disinfestazione di massa.

 

Esistendo un vaccino per questo tipo di malattia in molti si sono recati agli sportelli sanitari per richiederlo. E il paradosso sta proprio qui. Mentre in tutta Italia c'è chi protesta contro il decreto Lorenzin che rende obbligatori dieci vaccini per poter chiedere l’ammissione all’asilo nido e alle scuole dell’infanzia (per i bambini da 0 a 6 anni), la fobia della Chikungunya sembra aver scatenato la corsa al vaccino. E pensare che le malattie identificate dal ministero sono ben più pericolose di questa “febbre tropicale”. Dal morbillo alla poliomelite, passando per la difterite, l'epatite B, la rosolia. Patologie che sembravano quasi debellate, ma che negli ultimi anni sono tornate d'attualità.

 

E' il caso della difterite, malattia che "può danneggiare, o addirittura distruggere, organi e tessuti", debellata in Italia nel 1991 e riapparsa nel 2016: negli ultimi sedici mesi sono otto i casi segnalati nel nostro paese. Ma è soprattutto il caso del morbillo: nei primi otto mesi del 2017 ci sono 4.001 casi e 3 decessi, un netto aumento rispetto agli 865 casi del 2016 e ai 10mila degli ultimi sei anni.

 

La presenza di malattie gravi e altamente contagiose che dall'Ottocento al secondo dopoguerra uccideva una media di 100 neonati ogni 1.000 nati vivi, sembra però non preoccupare i cittadini italiani quanto i virus venuti da chissà dove. Sarà il nome curioso, la poca esperienza che si ha in materia, ma il terrore per queste patologie sembra espandersi tanto quanto si restringe il timore di quelle che storicamente hanno fatto stragi in Europa. E' successo l'anno scorso per Zika, una sessantina di casi in Italia in poco meno di sedici mesi, si sta riproponendo in questi giorni per Chikungunya.

 

Oltre un secolo fa, un uomo che veniva da un paesino del veronese e che aveva il dono incredibile dell'immaginazione, descriveva, seduto nel salotto della propria casa, paesaggi lontani e magici nella loro crudeltà, luoghi che non aveva mai visto se non in qualche foto nei cataloghi di viaggi. Quell'uomo scriveva al suo editore: "E' in luoghi remoti che il nostro animo di lettori si appassiona alle storie. Quel che scrivo non è altro quel che vedo ogni giorno nelle nostre terre. Storie di fame, di disperazioni, di ingiustizie e soprusi che se raccontassi ambientate a Torino non si leggerebbe nessuno. Siamo attratti dall'esotico, attendiamo notizie da oltre oceano e ci dimentichiamo di quello che succede in Italia". Emilio Salgari aveva capito allora quello che ancora molte volte ignoriamo oggi.

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