Una contestazione del comitato no vax davanti a Montecitorio (foto Imagoeconomica)

Vaccini: ovvero come avere i numeri vincenti della lotteria e voler buttare il biglietto

Daniele Pirozzi

“Il cugino di un mio amico ha un cognato il cui figlio va a scuola con una bambina che ha un fratello autistico per colpa dei vaccini”. Perché dissolviamo oltre 200 anni di ricerche mediche in simili affermazioni?

I vaccini sono considerati una delle più grandi conquiste della scienza e dell’intera umanità. Eppure dal 14 maggio del 1796 – anno di introduzione del vaccino contro il vaiolo – fino ai giorni nostri, sono al centro di controversie, paure e ipotesi complottistiche che hanno portato alla nascita di movimenti antivaccinisti e a ciclici cali delle coperture vaccinali. L’attuale riacutizzarsi della diffidenza nei confronti di questi farmaci spinge sempre più genitori a non rispettare le tempistiche previste per le vaccinazioni dei propri figli o, nel peggiore dei casi, a rifiutarle completamente. Come riportato dal Rapporto Vaccini 2017, ad esempio, dal 2013 in Italia si è osservato “un calo progressivo del ricorso a tutti i vaccini”, con le coperture scese “sotto il 95 per cento, la soglia minima raccomandata dall’Organizzazione mondiale della Sanità”. L’ondata di morbillo dello scorso anno ha riguardato ben quindici paesi europei, con il triste podio per Romania (5.562 casi), Italia (5.006 casi) e Ucraina (4.767 casi), mentre l’epidemia di morbillo originatasi nel parco Disneyland in California nel 2014 contagiò oltre cento persone, diffondendosi rapidamente anche in altri stati: una dimostrazione di come un calo delle coperture possa sfociare in breve tempo in un’emergenza sanitaria.

 

Un aspetto quanto meno paradossale per dei farmaci che si sono dimostrati i più sicuri ed efficaci alleati nel combattere malattie come il tetano, la difterite e la poliomielite (solo per citarne alcuni). La domanda, allora, sorge spontanea: cosa spinge un genitore a compiere una scelta che mette a repentaglio la vita di un figlio? La risposta va cercata all’interno di tre macroaree: un’errata percezione del rischio, il web e i cambiamenti nella società.

 

All’interno della comunità scientifica si è soliti affermare che i vaccini sono vittime del proprio successo. Un’espressione che fa riferimento a un meccanismo per il quale una malattia che in assenza di una cura era percepita come un pericolo concreto e spesso mortale, in epoca post vaccinale – cioè quando la scoperta di un vaccino ha permesso di debellarla o confinarla per lungo tempo – diviene sconosciuta alla popolazione: mano a mano che il numero dei contagi inizia a ridursi per merito dell’immunizzazione, cala la preoccupazione nei confronti della malattia e si sovrastimano i rischi (presenti ma nemmeno paragonabili per gravità e frequenza a quelli di contrarre la patologia stessa) della vaccinazione.

 

Anche il web è in parte responsabile del rinvigorirsi dei movimenti no vax e dell’aumento dei cosiddetti genitori “esitanti”, un gruppo eterogeneo per credenze e paure che in comune ha una certa titubanza sul vaccinare o meno i figli. Secondo l’Istat, l’80 per cento dei genitori cerca su internet informazioni sui vaccini, con il rischio di accedere a siti non affidabili. Più studi infatti confermano che gli antivaccinisti hanno maggiori probabilità di aver consultato il web rispetto ai pro-vax e un’analisi ha riportato che solo il 51 per cento delle fonti consultate riguardo la falsa relazione tra vaccino trivalente e autismo dava risposte corrette e basate su prove scientifiche.

 

Ma concretamente cosa accade quando navighiamo sul web? Uno studio dell’University of California ha dimostrato come la valenza delle parole digitate su Google incida drammaticamente sul tipo di pagine individuate dal motore di ricerca. Gli autori dello studio hanno selezionato dei termini negativi (ad esempio “rischi vaccini”), neutri (ad esempio, “vaccini”) o positivi (ad esempio, “benefici vaccini”), analizzando poi i siti ottenuti nella prima pagina di ogni ricerca. E’ emerso che 14 degli 84 siti consultati diffondevano falsi miti sulle vaccinazioni, il più diffuso dei quali riguardava il presunto legame tra vaccini e autismo. Digitando termini negativi la probabilità di incappare in siti contenenti false informazioni è 3,6 volte superiore rispetto a chi utilizza termini neutri, e quasi 5 volte maggiore rispetto a una ricerca condotta con termini positivi.

 

Inoltre sembra esserci un collegamento tra il livello di conoscenza dell’argomento e il tipo di siti a cui si accede: meno cose sappiamo sui vaccini, più scarno è il nostro lessico utilizzato su Google e maggiore la probabilità di accedere ai siti no vax. Siti ineguagliabili nella loro capacità di far presa sull’emotività di un genitore. Questo perché, quando si parla di salute, i genitori sembrano preferire le storie personali alla scienza, il che può rivelarsi deleterio per la vita di un minore. Ad esempio l’analisi di un forum tedesco nel quale si condividono esperienze riguardanti la salute dei propri figli, ha dimostrato che solo il 19 per cento dei post conteneva informazioni scientifiche, mentre il 68 per cento si basava esclusivamente su contenuti personali ed emotivi.

 

La disinformazione generata dal web rende tutt’altro che semplice il compito di pediatri e medici, con sempre più genitori che si aspettano di giungere a una scelta condivisa in tema di vaccini. Oggi chi si affida alle indicazioni fornite dalle autorità o dal pediatra è visto in modo dispregiativo, mentre il bravo genitore è il consumatore critico dei servizi e dei prodotti sanitari, concentrato solo sulla propria situazione e indifferente alle implicazioni delle proprie scelte sulla vita di altri bambini. Sebbene la figura del medico giochi ancora un ruolo chiave nell’indirizzare la scelta di un genitore, lo sgretolamento della fiducia verso le istituzioni mette sempre più a rischio il rapporto con il medico. Com’è ben noto, a minare l’autorevolezza della comunità scientifica fu proprio un medico, Andrew Wakefield, che nel 1998 pubblicò un articolo nel quale falsificava i dati per stabilire una connessione tra vaccini e autismo. Nonostante l’articolo sia stato ritrattato e Wakefield radiato a vita, le sue tesi infondate alimentano ancora oggi la sfiducia nei confronti delle istituzioni. Uno studio olandese ha riscontrato che l’83 per cento dei no vax crede che il governo sia fortemente influenzato dai produttori di vaccini e solo nel 56 per cento dei casi è convinto che non cesserebbe le vaccinazioni anche se ci fossero evidenze di effetti collaterali pericolosi. E non è una caso se l’avversione a questi farmaci sembri attingere anche a una visione del mondo sempre più diffusa, quella di aderire a teorie cospiratorie: chi crede che la principessa Diana sia stata assassinata o che il governo americano sapesse in anticipo degli imminenti attacchi dell’11 settembre è più propenso a ritenere i vaccini dei farmaci non sicuri.

 

Le cause dello scetticismo no vax sono anche di carattere prettamente sociale, e riguardano la mancata armonizzazione tra l’enfasi per i diritti dell’individuo e la trasmissione del concetto di bene per la comunità. Come individui siamo stati sempre più incoraggiati a pensare a noi stessi come consumatori critici, assumendoci la responsabilità della nostra salute e ritrovandoci al centro del processo decisionale. Un traguardo di per sé importante se non andasse, però, a discapito della comunità e della salute pubblica. In quest’ottica la vaccinazione è vista (forse giustamente, forse no) come una libera scelta e su questi princìpi si sono fondati, almeno in parte, i movimenti antivaccinisti dal 1800 ad oggi. Tuttavia, come dimostrano gli studi sopra descritti, non sempre cercare informazioni significa acquisire gli strumenti idonei a compiere una scelta che, seppure individuale, ha delle ricadute sull’intero sistema sanitario, oltre che sui propri figli. Non si deve dimenticare che un bambino non vaccinato ha una probabilità 23 volte superiore di contrarre la pertosse, 9 volte di contrarre la varicella e 6 volte di essere ospedalizzato per malattie invasive da pneumococco o polmonite. E il Veneto è una dimostrazione di come la sospensione dell’obbligo vaccinale del 2007 abbia condotto in sette anni a uno dei tassi di copertura regionali più bassi per il vaccino esavalente.

 

Last but non least, anche la politica si ritaglia un triste ruolo in questo clima di diffidenza. Un articolo pubblicato sulla rivista Lancet dimostra come i movimenti no vax siano supportati dall’ascesa di partiti populisti e anti-establishment (come i Cinque stelle) che rischiano di avere ulteriori effetti negativi perché “sostengono, legittimano e – quando eletti – legalizzano il rifiuto vaccinale”. Anche solo l’idea di ritenere sufficiente l’autocertificazione a scuola sembra così disconnessa dalla realtà scientifica che perfino il ragionier Ugo Fantozzi non esiterebbe a paragonarla all’opinione espressa sulla corazzata Potëmkin.

 

La verità è che non si conosce ancora un giusto approccio alla questione. Alla base di una scelta no vax non c’è (solo) una carenza di informazioni: fornire informazioni corrette non porta necessariamente le persone a cambiare attitudini e comportamenti. Al contrario può dare l’effetto opposto, spingendo un genitore a barricarsi ancora di più nelle proprie convinzioni.

 

Ciò che è chiaro, invece, è che non bisogna cadere nella polarizzazione pro vax/no vax, genitore saggio/ignorante, e che in questa storia non c’è un bianco e un nero. C’è piuttosto una scala di grigi e una nebbia che sbiadisce i colori tra ciò che è scienza e ciò che semplicemente non lo è. Ed è una nebbia che costringe chi non sa orientarsi a cercare i fendinebbia posteriori di chi sta davanti, sperando che conosca la strada. Sperando che – al di là che si tratti di un post online, di un dialogo al bar o del comizio di un politico – sappia ciò di cui sta parlando. E questo, per quanto riguarda i vaccini, è cosa assai rara.

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