W i camici bianchi contro i gilet gialloverdi
La fine degli specialisti. La guerra anti esperti non ha portato solo a diffidare dei vaccini ma anche dei chirurghi. Storia di un’emergenza aggravata dalla manovra, dai giustizialisti e da un governo che trasforma i competenti in nemici del popolo
L’economia, certo. Ma davvero è sufficiente guardare i dati sulla crescita per capire lo stato di salute di un paese? Dimenticate per un attimo i dati sulla produzione industriale, sulla fiducia dei consumatori, sulla crisi dell’export, sull’aumento della disoccupazione e provate a seguire questa storia. E’ una storia che riguarda la sanità ma è una storia che riguarda l’Italia e soprattutto il nostro futuro. Negli ultimi anni, il mondo della medicina ha dovuto fare i conti con un fenomeno difficile da gestire che potremmo sintetizzare più o meno così: la progressiva legittimazione culturale della guerra senza quartiere contro i professionisti della competenza, ovvero contro gli esperti. Questa particolare guerra non ha portato però solo a mettere in discussione i vaccini, e a considerare come verità alternative delle bufale conclamate, ma ha portato anche a un altro fenomeno non meno grave che rischia di esplodere nel giro di pochi anni a causa di uno dei provvedimenti più importanti presenti all’interno della prima legge di Stabilità populista.
Il provvedimento in questione è quello legato alla quota cento e il fenomeno che nei prossimi anni rischia di detonare nel nostro paese ha un legame molto stretto con la proliferazione della cultura antisistema, e riguarda il futuro di una delle figure mediche più importanti per gli equilibri di un paese: il chirurgo. Tra il 2009 e il 2016 il numero di medici-chirurghi in Italia è sceso in modo progressivo, passando da 118.900 a 110.500. Accanto a una crisi di vocazione per la chirurgia da parte degli specializzandi (dei settemila medici neolaureati che hanno avuto accesso alle scuole di specializzazione nel 2018 soltanto 90 hanno scelto Chirurgia generale) nei prossimi anni potrebbe maturare un’altra crisi legata proprio alla quota cento, a causa della quale, come sostiene il presidente dell’Associazione dei Chirurghi Ospedalieri Italiani, Pierluigi Marini, potrebbe esserci presto “l’impossibilità di garantire i livelli minimi assistenziali nelle sale operatorie del nostro paese”.
L’Italia, come riportato dai dati Ocse, ha una media di chirurgi con oltre cinquant’anni di età che risulta molto elevata, (sono il 53,3 per cento contro il 34,5 dei paesi che fanno parte dell’Ocse), e se i dati che verranno presentati all’inizio di gennaio in uno studio di Anaao Assomed verranno confermati, il fabbisogno di personale medico, tra il 2019 e il 2023, potrebbe andare in ulteriore sofferenza, considerando che a fronte di 52 mila medici che andranno in pensione i nuovi specializzandi saranno circa 31 mila (la curva dei pensionamenti raggiungerà il suo culmine tra il 2018 e il 2022 con uscite per “quiescenza” valutabili intorno a 6-7.000 ogni anno).
Risultato, sempre secondo lo studio Assomed: di questo passo nel 2025 verranno a mancare 16.500 specialisti, di cui 4.180 di medicina d’emergenza e d’urgenza, 3.323 di pediatria, 1.828 di medicina interna, 1396 in anestesia, rianimazione e terapia intensiva, 1274 di chirurgia generale. Lo studio di Assomed nota che una delle regioni più colpite è il Veneto, “dove a fronte della carenza ufficialmente riconosciuta di 1.295 medici specialisti, nei concorsi indetti per la selezione a tempo indeterminato si sta presentando un numero di candidati inferiore a quello richiesto e dove la stessa regione denuncia che 357 posizioni vacanti non sono state coperte”, e i numeri di ogni ricerca sul tema del mismatching nel mondo della medicina specialistica tendono a segnalare che i numeri più elevati, in termini di deficit di personale, riguardano le specialità legate a emergenza e urgenza, anestesia e rianimazione e medicina d’urgenza su tutte, seguite da ginecologia, pediatria, radiologia e ortopedia.
Ma i numeri dell’emergenza per una volta vera e per nulla teorica non ci permettono da soli di mettere a fuoco l’entità del problema, che possiamo invece provare a sviscerare facendovi leggere una lettera non pubblica ricevuta da un importante ospedale del nord ovest della Toscana e che il Foglio ha potuto visionarie.
La lettera riguarda una segnalazione interna fatta da un dottore in servizio presso la medicina d’urgenza che ha segnalato questo fatto: “Alcuni giorni fa dieci medici della mia unità operativa hanno ricevuto un avviso di garanzia, cosa ormai comune e su cui non occorre dilungarsi. Ebbene, oggi 24 dicembre uno dei signori che ci ha mosso accuse gravissime tanto da provocare un avviso di garanzia per omicidio non stava benissimo e pertanto si è presentato al nostro pronto soccorso, mostrando una lista con i nomi di tutti i medici indagati con la pretesa di essere visitato da un medico diverso da quelli da lui indicati. Questo è avvenuto in data odierna in Italia, in un ospedale pubblico. Sono senza parole e francamente con sempre meno voglia di lavorare in questo triste paese”.
Il testo della lettera ci potrebbe portare a ragionare su quali conseguenze deleterie può avere all’interno della cultura di un paese la trasformazione di ogni indagato in un presunto colpevole e non in un presunto innocente. Ma la lettera del medico toscano, in realtà, ci suggerisce qualcosa di più e ci permette di ritornare al tema da cui siamo partiti: quali sono le conseguenze della progressiva legittimazione culturale della guerra senza quartiere contro i professionisti della competenza? Oggi buona parte dei problemi legati alla crisi della professione del chirurgo nel mondo della medicina pubblica non è legata solo agli stipendi irrisori, ai turni massacranti o alla difficoltà del lavoro ma è legata a qualcosa di molto più profondo e di molto più radicato: la trasformazione degli esperti in nemici giurati del popolo. E la stessa spinta che in nome della logica bacata dell’uno vale uno porta una parte del paese a diffidare dei medici quando parlano di vaccini, porta i chirurghi a essere soggetti a contenziosi interminabili rispetto ai quali ci sono ancora poche tutele normative. Un medico che non soddisfa il paziente oggi ha infinite possibilità in più di essere denunciato rispetto al passato dagli avvocati del suo paziente.
Giusto poche settimane fa, a Milano, il procuratore aggiunto a capo del pool ambiente, salute e lavoro, Tiziana Siciliano, ha ammesso che solo nel capoluogo lombardo nel 2017 ci sono stati circa 300 fascicoli penali a carico di medici – praticamente uno al giorno – e anche se circa la metà delle denunce vengono archiviate, in un paese giustizialista un medico sotto accusa o denunciato diventa un medico che oltre a dover sottoscrivere polizze di assicurazione molto costose si trasforma potenzialmente in un rischio anche per l’ospedale. La coda lunga della battaglia anticasta contro gli esperti sta arrivando dunque fin dentro gli ospedali pubblici, e un governo con la testa sulle spalle piuttosto che incentivare l’esodo dei migliori professionisti e specialisti verso il mondo privato – e piuttosto che giocare con la vita dei pazienti mettendo in campo un condono professionale che in nome dell’uno vale uno concede una deroga per l’iscrizione agli ordini anche ai professionisti della sanità senza titoli che abbiano lavorato, nell’arco di 10 anni, almeno per 36 mesi – dovrebbe fare di tutto per trasformare lo stato in un grande incubatore di eccellenze e di competenze, spendendo del tempo non per trovare un modo di delegittimare gli esperti ma per difenderli con tutte le forze possibili. E se il 25 gennaio i medici italiani saranno in piazza anche per questo, quel giorno non si potrà che stare con loro. Meno gilet gialli e più camici bianchi.
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