Morire legati a un letto d'ospedale
Ecco perché è urgente (e civile) superare la contenzione meccanica. Il caso della 19enne morta nell'incendio di un reparto di psichiatria a Bergamo. Il conflitto tra il diritto alla libertà e quello alla cura
Martedì mattina una ragazza di 19 anni è morta nell’incendio del reparto di psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Gli inquirenti per ora non hanno individuato le cause. L’ipotesi più accreditata è che sia stata la stessa giovane ad appiccare il fuoco, forse con un accendino scampato alla “perquisizione prevista per ritirare oggetti pericolosi”, come riporta in una nota l’Azienda sanitaria. “La paziente deceduta – si legge – era stata bloccata pochi istanti prima dell'incendio, a causa di un forte stato di agitazione, dall’équipe del reparto”. La morte di un’adolescente in un ospedale apre però questioni più delicate, che riguardano il diritto alla libertà personale e quello alla cura. Ieri è stata diffusa la notizia che la giovane avrebbe tentato il suicidio solo mezz’ora prima del rogo. E per questo sarebbe stata “contenuta” (eufemismo che in linguaggio medico indica “l’utilizzo di lacci, cinghie, tavolini servitori…” per bloccare il paziente agitato). Se ciò fosse confermato, sapere che dopo un tentato suicidio i pazienti vengono legati e lasciati soli in una stanza, sarebbe ancora più inquietante.
Il Garante dei detenuti si costituirà parte offesa nell’inchiesta: “Forse è proprio per il fatto di essere contenuta al letto che non si è riusciti a mettere in salvo la giovane”, scrive Mauro Palma, che sottolinea “ancora una volta la drammaticità della contenzione delle persone nelle istituzioni psichiatriche e delle sue possibili conseguenze”. C’è poi un problema di compatibilità con l’articolo 13 della Costituzione, “molto ben chiaro e prescrittivo per quanto riguarda le limitazioni di libertà e l’autorità che ha il potere di consentirla”. Non solo rispetto all’ambito psichiatrico, “ma anche a quello, meno oggetto di attenzione, della gestione in residenze di anziani o disabili”, aggiunge il Garante.
“La contenzione è traumatica per tutti, non solo per chi la subisce ma anche per chi la fa”, spiega al Foglio Edgardo Reali, psicologo della Asl Roma 2 e del Consorzio Zona 180. “Gli operatori si ritrovano troppo soli nell’affrontare le emergenze. Vanno ascoltati, aiutati e formati”. Anche perché esistono realtà che non utilizzano la contenzione. L’Agenzia di tutela della Salute della Brianza ad esempio si è impegnata nel 2019 a non praticarla più. Così come i Servizi psichiatrici diagnosi e cura (Spdc) di Ravenna, che da tre anni non legano nessuno. Al contrario, mettono in atto interventi sia strutturali – creando un ambiente di cura più simile a un domicilio che a un ospedale – sia clinico organizzativi: in collaborazione con la polizia locale e il pronto soccorso, hanno incrementato percorsi di cura individuali, una presa in carico a tutto tondo e non solo farmacologica. I cosiddetti Spdc no restraint, dove non si legano i pazienti, sono solo 15 su 321 in Italia: il 5 per cento del totale, secondo un’indagine della campagna “E tu slegalo subito”. Ma danno ottimi risultati, per altro in linea con le indicazioni formulate dal Comitato di bioetica del 2015.
Eppure in molti ospedali si “bloccano” ancora i pazienti, nonostante le tragedie che continuano a interrogare operatori e tribunali: dalla morte del 61enne affetto da sindrome di Down, trovato a giugno scorso strangolato dalle cinghie con le quali era stato legato al letto in una clinica privata di Cotronei, a quella di Franco Mastrogiovanni nell’agosto 2009, dopo 87 ore di contenzione. Nel processo Mastrogiovanni, la Cassazione stabilì che legare i pazienti non è un “atto medico”. Così come sostiene la letteratura medica e la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche.
Dopo l’incendio, la Fp Cgil di Bergamo ha dichiarato che “le criticità nell’area della malattia mentale” erano state denunciate da tempo: soprattutto scarsità di personale e carenza di strutture territoriali. “Per evitare la contenzione – aggiunge Reali – servono competenze specifiche e un’organizzazione del lavoro ben articolata con il territorio e con attività di prevenzione. Invece spesso gli Spdc diventano un contenitore di problemi di varia natura che richiederebbero risposte specifiche: povertà, problemi di integrazione, problemi legati all’abuso di sostanze diventano emergenze che finiscono in ospedale. Il superamento della contenzione è un tema che dovrebbe coinvolgere gli operatori a livello scientifico e organizzativo. Ma è troppo spesso ignorato in ambito accademico e politico. E questo è ancora più grave se si pensa quanto possa incidere sulla vita dei pazienti e sui progetti terapeutici”.
Lontanissima dalla freddezza che ci si potrebbe immaginare da un testo simile, la relazione al Parlamento del 2019 del Garante delle persone private della libertà, dà un’abbagliante fotografia della contenzione e dell’effetto che può produrre sui degenti: “Stanze isolate acusticamente, apribili solamente dall’esterno, spoglie, in qualche caso senza riscaldamento. Il letto è al centro della stanza con quattro fasce contenitive assicurate alla rete. Cinture che possono essere chiuse con speciali bottoni o con viti, a volte una traversa assorbente come tappetino scendiletto, un presidio igienico di fortuna. Stando legati, il tempo nella stanza di contenzione è interminabile. Difficile sopportare a lungo la luce fissa del neon (il comando della luce è fuori la stanza) insieme all’odore. Se manca il dialogo che aiuti a elaborare l’esperienza resta soltanto la non comprensione o un sentimento di umiliazione. In quella posizione e a quelle condizioni è difficile del resto anche chiedere aiuto, negoziare, cercare spiegazioni. Se manca la rielaborazione successiva, una volta terminata la contenzione, resta la paura di ritrovarsi ancora in quella stanza a guardare le pareti mentre la luce che passa dalle finestre si alterna tra albe e tramonti”.