Di chi possiamo fidarci sul virus? Non della Cina, ma neanche dell'Oms
Le colpe di Pechino e quelle dell'Organizzazione mondiale della sanità. Il multilateralismo tradito e una riflessione urgente
Quando l’emergenza del nuovo coronavirus sarà finita, e i contagi inizieranno a calare, e una cura sarà a disposizione di tutti, allora sarà il momento di riflettere su un tema politico cruciale. Diversi analisti internazionali hanno accusato la Cina di non essere stata tempestiva nel comunicare la gravità della situazione. Di essere stata costretta, quando ormai era troppo tardi, a prendere una decisione drastica, una quarantena che da due settimane coinvolge un numero spaventoso di persone. Ma tra il 31 dicembre e il 31 gennaio, cioè quando è stata dichiarata “l’emergenza globale”, anche l’Organizzazione mondiale della sanità ha minimizzato. Mentre la Cina tentava di controllare la narrativa sulla reale situazione nello Hubei, il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus volava a Pechino, si faceva fotografare sorridente con il presidente cinese Xi Jinping e lodava la “determinazione politica e le misure tempestive ed efficaci intraprese per far fronte all’epidemia”. Cioè faceva quello di cui la propaganda di Pechino aveva più bisogno: rassicurare la comunità internazionale. Ciò che è successo dopo lo sappiamo, anche grazie alle inchieste della stampa cinese e ai social network, in questi giorni più che mai capaci di aggirare censure e controlli.
Forse nessun paese sarebbe stato in grado, da solo, di contenere un’epidemia così veloce, un virus così aggressivo e altrettanto sconosciuto. Ma nessun paese avrebbe rifiutato l’aiuto di una organizzazione internazionale per mandare un messaggio politico: sappiamo fare da soli, siamo una potenza responsabile. La conseguenza è stata quella di mettere in quarantena 56 milioni di persone, che ora sono sorvegliate e trattate come appestati, probabilmente senza cure adeguate per tutte, mentre il contagio aumenta (e in un futuro non molto lontano chissà se si occuperà l’Unhcr di queste persone). Se non possiamo fidarci delle comunicazioni di Pechino – e non si fidano neanche i cinesi, lo abbiamo visto in questi giorni – allora dovremmo poterci fidare di una agenzia super partes, che detti l’agenda per la protezione della salute internazionale, senza cadere nella propaganda e nella politica. E invece no. Perfino il comitato d’emergenza istituito il 22 gennaio per studiare il coronavirus, composto da esperti di tutto il mondo, si è spaccato tra chi voleva subito dichiarare l’emergenza globale e chi voleva tenere la questione molto più bassa, ha scritto il Monde. E John Mackenzie, docente alla Curtin University australiana e membro del comitato, mercoledì ha parlato chiaro, e detto che la Cina ha risposto in modo “riprovevole” all’emergenza. Parole in contrasto con quelle di Tedros.
L’influenza politica della Cina nelle organizzazioni internazionali è un problema enorme, e di cui si parla pochissimo. Taiwan è stata inserita dall’Oms nelle “zone ad alto rischio”, nonostante i suoi pochi casi di contagio, perché la Cina rivendica l’isola come suo territorio. Per questa ragione Taipei non siede a nessun tavolo. L’Icao, l’agenzia dell’Onu per l’aviazione civile, di cui Pechino ha la presidenza, nei giorni scorsi su Twitter bloccava chiunque menzionasse Taiwan.
Da tempo Pechino impone una sua agenda nelle organizzazioni e alle agenzie dell’Onu. Grazie al progressivo deterioramento del multilateralismo nel mondo occidentale, ha trovato un’autostrada davanti a sé. “Non c’è dubbio che la Cina abbia alzato il suo profilo alle organizzazioni internazionali con Xi”, dice al Foglio Philippe Le Corre, senior fellow alla Harvard Kennedy School e che studia da tempo il soft power cinese, “Chiunque abbia lavorato in questi ambienti, comprese le Nazioni Unite a New York, ti direbbe che i cinesi sono molto aggressivi quando si tratta dei loro interessi. Qualsiasi cosa abbia a che fare con la Cina, e che potrebbe avere un impatto sulla percezione interna, è presa molto sul serio. Prova ad alzare una bandiera tibetana nella hall principale del quartier generale dell’Onu a New York”.
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