Bevo, mangio e fumo: la via diabolica per allargare la vita, invece di allungarla
Un libro di Pierangelo Dacrema sull’illusione del salutismo
Prendiamo Maradona. Il quale, com’è noto, al minuto cinquantunesimo di una partita decisiva della propria carriera – il quarto di finale fra Argentina e Inghilterra ai Mondiali dell’86 – saltò allungando il pugno verso il cielo e segnando, non visto, con la mano. Poteva decidere di non farlo. Poteva cioè optare per un comportamento virtuoso e lasciare che la palla rotolasse via, non traendo altro beneficio che l’intima soddisfazione di essersi comportato correttamente. Ma, in tal caso, sarebbe stato comunque Maradona, ovvero si sarebbe comportato secondo la propria identità? Invece Maradona, in quel pomeriggio messicano, scelse il vizio. Rischiò che il proprio comportamento venisse sanzionato e sfidò l’infamia della pubblica disapprovazione. Alla fine, ha avuto ragione lui. Più del beneficio specifico lucrato dal vizio, che consentì all’Argentina di vincere quella partita e poi i Mondiali, fece pesare la rivendicazione della scelta morale arbitraria e soprattutto il piacere connesso a quel gesto proibito e assurdo.
I fumatori sono in fondo dei piccoli Maradona inconsapevoli. Lo si evince dallo spericolato resoconto dell’economista Pierangelo Dacrema che racconta (“Etica dei vizi. Come resistere alla tentazione di diventare ex fumatori, ex bevitori e vegetariani”, Rubbettino) il tentativo dei medici, a cominciare da suo figlio, di fargli smettere di fumare. E di mangiare pesante. E di bere whisky al pomeriggio. Non è soltanto il disperato tentativo di giustificare la propria dipendenza; è un discorso più elevato, che cerca di capire quanto il libero e consapevole esercizio del piacere abbia rilevanza all’interno della scelta morale, mentre la sua privazione coatta depaupera e svilisce la vita umana.
Proprio in questi giorni sta avendo grande successo un articolo del Guardian in cui Tom Oliver auspica che, allo scopo di salvare il mondo, tramonti il mito dell’autonomia individuale. Se uno smette di pensare a se stesso – se uno smette di considerare l’esistenza di una propria identità da preservare con delle scelte – è più portato ad abbracciare una visione d’insieme, quindi a comportarsi avendo in mente il vero bene per sé, per gli altri e per il mondo. La prospettiva di Dacrema è diametralmente opposta. Ciò da cui non possiamo in alcun modo liberarci è proprio la nostra identità; Dacrema cita Manlio Sgalambro, per il quale ogni uomo è un io causato da circostanze fuori dal proprio controllo e per questo più o meno incline a determinate scelte, di cui modula l’esercizio barcamenandosi fra i marosi. Il fumatore (bevitore, crapulone, dongiovanni, quel che vi pare) che sia costretto da interventi esterni a rinunciare al proprio vizio, anzitutto rinuncerebbe alla propria identità, così come non sarebbe Maradona il Maradona immaginario che ritira la mano, non segna ed esulta kantianamente dentro di sé.
La seconda argomentazione di Dacrema è più sottile e ha a che fare con la libertà. Per la collettività è indubbiamente più utile che tutti i fumatori siano costretti a smettere di fumare, a costo di incorrere in sanzioni anche draconiane. Per l’individuo, tuttavia, ha maggior valore non fumare più per costrizione esterna o fumare quando si vuole e non fumare quando non si vuole, per scelta interiore? L’etica non s’incardina solo sugli effetti ma anche sulle intenzioni. E’ ciò che Dacrema descrive quale superiorità della morale sul penale, ossia il primato del margine che ciascuno di noi, come individuo, ha per esercitare una scelta calibrata sulle esigenze della propria identità. Per chiarire, basti pensare all’etica del premio. E’ più virtuoso un uomo che si astiene dal vizio per timore di una punizione (che sia una multa o la prospettiva di una malattia) o uno che si concede temperate trasgressioni come ricompensa per aver saputo contenere le proprie pulsioni entro i limiti dell’accettabile? Per la collettività il primo, per l’individuo il secondo; ma la collettività altro non è che una somma di individui. Bel paradosso.
La tesi di Dacrema si fa diabolica quando viene all’utilitarismo. L’argomentazione standard dei virtuosi conto terzi – quelli che vogliono farci smettere di fumare, di bere, di mangiare porcherie, di essere scapestrati – è che dall’eliminazione del vizio trae vantaggio sia chi smette di praticarlo sia chi non ne subisce la ricaduta. Il vizio danneggia gravemente te e chi ti sta intorno: questo è il loro slogan. Fatto sta che non regge. Se il beneficio diventa l’unico criterio per estirpare i vizi, crolla contro il dato di fatto che a esso corrisponde sempre un danno; Dacrema racconta ad esempio che, smettendo di fumare, gli è passata un’annosa tosse diurna sostituita da un’inedita tosse notturna. Peggio, se il criterio fosse quello di evitare i danni, allora lui avrebbe dovuto rifiutare i farmaci che i medici gli propinavano, poiché comportavano effetti collaterali tormentosi: se ci si regolasse così, le conseguenze sarebbero drammatiche. Soprattutto, il discorso etico utilitarista, secondo Dacrema, si scontra con l’eternità, nel senso letterale del termine, quando cerca di imporsi come orizzonte assoluto. Il salutismo ha come presupposto l’ignorare che “alla fine si perde sempre”, constata Dacrema, ossia che il traguardo ineliminabile dell’esistenza è la morte e che qualsiasi comandamento della virtù può al massimo ambire a posticiparla senza eliminarla; è un misero tentativo, come direbbe Woody Allen, di allungare la vita quando invece bisognerebbe allargarla.
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