Epidemia e cultura. Come governare i professionisti della paura
La virologa Ilaria Capua ci spiega perché la sindrome simil-influenzale da coronavirus dovrebbe farci meno terrore
Roma. “Perché questa pandemia fa paura e non dovrebbe farne? Perché ognuno di noi pensa che potrebbe ammalarsi gravemente, ma se guardiamo a Codogno o a Vo’ Euganeo, a fronte di alcuni pazienti molto anziani, e con altre patologie, non si osserva un numero di ammalati gravi o di decessi significativo. Possiamo dire che a oggi non si comporta come un virus aggressivo”. Da giorni la virologa Ilaria Capua, che in America dirige il One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, cerca di spiegare che non dovremmo chiamarlo solo “coronavirus” ma “sindrome simil-influenzale da coronavirus”.
L’espressione serve a far capire che la covid-19 – la malattia provocata dal nuovo coronavirus, che ha iniziato la sua diffusione all’inizio di dicembre a Wuhan, nello Hubei – si nasconde, si camuffa, insomma può passare come una banale influenza, proprio con i sintomi influenzali. Nonostante tutto quello che il circo mediatico-giustizialista ha fatto a una delle sue eccellenze – una delle pagine più vergognose della storia giudiziaria del nostro paese – da giorni Ilaria Capua si sottopone a intense, lunghissime sessioni di interviste con i media italiani per spiegare una cosa semplice: bisogna cercare di rallentare il contagio senza fare allarmismo, “perché ogni parola usata in maniera allarmistica senza essere giustificata brucia milioni, che potrebbero essere usati per la ricerca”. Rallentare il contagio, ma non risolvere la situazione con la famosa bacchetta magica: “Perché questa epidemia sarà diversa dalle precedenti”, dice al Foglio Capua, “e anzi, dico pandemia perché lo è già, nella pratica, anche se per alcuni paesi non abbiamo ancora numeri alti.
E anche i costi di questa pandemia saranno molto alti, perché viviamo in un sistema talmente interconnesso, globalizzato, che le conseguenze le avvertiremo tutti. Pensi solo al fatto che nelle ultime settimane la Cina ha ridotto le emissioni di CO2 da carbone fossile del 25 per cento”, una conseguenza dello stop alla produzione. Secondo la virologa “questo tipo di emergenze saranno sempre più frequenti”. E infatti negli ultimi vent’anni, tra le tante epidemie, c’è stata la Sars, l’aviaria, la suina, l’ebola – con due episodi distinti – il coronavirus dal medioriente, zika. Perché si verificano? “Perché abbiamo costruito una società che ha invaso gli ecosistemi, li abbiamo squilibrati. Un virus che circola nei pipistrelli della foresta cinese dovrebbe rimanere lì. E invece abbiamo invaso alcuni ecosistemi con le megalopoli, trasportando anche abitudini alimentari poco compatibili con lo sviluppo – non è un caso se i mattatoi in occidente sono sempre stati fuori dalla città. Esistono oggi situazioni di ‘interazione’ tra uomo e ambiente completamente squilibrati. Prima nuovi virus emergevano più raramente, adesso la frequenza è uno ogni tre, quattro anni”.
Il riferimento è al mercato di animali vivi di Wuhan, e a certe abitudini rurali che già da tempo Pechino cerca di fermare. È per questo che il Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo cinese ieri ha deciso di proibire “il commercio illegale di animali selvatici, di abolire la cattiva abitudine del consumo eccessivo di animali selvatici e di proteggere più efficacemente la vita e la salute delle persone”. Buone notizie, insomma. Eppure qualche giorno fa c’era chi paragonava Codogno a Wuhan, la Lombardia alla provincia dello Hubei. Ma su dieci milioni di abitanti, i contagi accertati sono poco più di centosettanta: “E non tutti sono ammalati. Se guardiamo a quello che sta succedendo in Italia, questa ossessione per la ricerca del paziente zero, per esempio, in questo momento è totalmente inutile. Forse ci sono stati più pazienti zero in Italia, provenienti da paesi diversi. Che in Italia siano entrate diverse persone con il virus è verosimile, solo che magari hanno sviluppato una forma asintomatica o lieve. Quello stesso virus può però infettare una persona anziana, magari già malata, e farle sviluppare una sindrome più aggressiva”.
Oltretutto le prime immagini di Wuhan in quarantena, con gli ospedali presi d’assalto e un numero di morti, anche giovani, impressionante, sembrano molto diverse da quelle del nord Italia oggi: “E’ possibile che il virus si stia attenuando, rallentando la sua corsa: se molte persone hanno sviluppato la forma asintomatica vuol dire che già ci sono anticorpi in giro”, dice Capua.
L’Italia ha messo in campo delle misure restrittive particolari, rispetto ad altri paesi europei. Per esempio la chiusura dei voli da e per la Cina, che ha portato parecchie polemiche politiche, sembrava dovesse “immunizzarci” da eventuali contagi. Ma per la Capua il virus era probabilmente già in Italia: “Il signore di 77 anni che è morto il 21 febbraio scorso a Schiavonia, nel padovano, era già ricoverato da oltre dieci giorni all’ospedale per precedenti patologie; quindi si sarà infettato almeno una settimana prima, e non si è infettato all’aeroporto di Malpensa ma a Vo’ Euganeo. Credo che possiamo escludere che il virus si sia materializzato magicamente nel padovano, deve esserci arrivato in qualche modo. E questo vuol dire che l’infezione sta probabilmente girando già da metà gennaio, ed è possibile che ci siano tante persone che si sono infettate senza avere sintomi, oppure che hanno trattato la malattia come un’influenza, oppure che sono andate dal medico che l’ha trattata come un’influenza”.
L’aumento dei casi al nord, insomma, riguarda l’intensificazione dei controlli che l’Italia ha deciso di mettere in atto. Per la virologa l’infezione non è solo in Italia, in Europa, e “non è solo in Cina. E’ in Giappone, è in Corea, è in Iran, sarà anche in altri paesi asiatici ed è verosimile che sia in Africa ma non l’hanno ancora diagnosticata. Bisogna capire che è un fenomeno globale, e come tale va trattato”. E come, allora? “Per le pandemie ci si prepara in tempo di pace, perché in tempo di guerra tutto è più costoso, più complicato e confuso”. Capua ha lanciato su Twitter l’hashtag #pandemicost proprio per questo: “Faccio appello al tessuto produttivo del paese, per far capire che l’emergenza non è un problema solo della Cina o degli abitanti di Codogno o delle persone che sono morte. E’ un problema che ci riguarda tutti, e di cui possiamo essere parte della soluzione”.
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