L'aumento apparente dei fondi per la sanità
I finanziamenti statali in termini reali sono stati tagliati, perché l’incremento annuo non ha tenuto il passo con quello dei prezzi. Un sistema comunque all’avanguardia, sia pure con qualche falla (personale e posti letto)
L’epidemia del coronavirus nel nord Italia è un evento eccezionale. Per il nostro sistema sanitario nazionale non è una sfida di ruotine fronteggiare questa ondata di contagi giornalieri, per di più concentrati in poche regioni. Ma un apparato sanitario deve poter reggere anche di fronte alle emergenze, adattandosi. Per ora sembra che gli ospedali stiano riuscendo ad affrontare la situazione eccezionale, grazie a sforzi e sacrifici del personale sanitario e della popolazione che sta rinunciando al normale accesso alle cure. Una condizione che però non potrà durare in eterno. Il coronavirus di certo non ci ucciderà tutti, ma potrebbe causare la morte per collasso del nostro sistema sanitario nazionale. Per questo per gli esperti le azioni da intraprendere sono ormai di contenimento dell’epidemia, nel tentativo di ritardare e ridurre il picco epidemico per fare in modo che non si trovino troppi pazienti bisognosi di cure nello stesso momento. Ma il nostro sistema sanitario avrebbe potuto farsi trovare più pronto?
Per un sistema sanitario essere pronto a casi eccezionali come l’epidemia del nuovo coronavirus non significa solo essere ben finanziato. Ma in buona parte sì. Negli ultimi giorni si sono accese delle polemiche, anche politiche, su questo tema. In tv a scontrarsi sono stati anche il medico epidemiologo Walter Ricciardi, ex presidente dell’Istituto superiore di sanità e ora consulente del governo per fronteggiare l’emergenza coronavirus, e un parlamentare di maggioranza, Luigi Marattin di Italia Viva. Il primo sosteneva che il comparto sanitario pubblico fosse stato tagliato di decine di miliardi, mentre l’esponente di maggioranza l’ha smentito, affermando che gli stanziamenti annuali siano sempre aumentati.
Sanità tagliata?
Il sistema sanitario nazionale, vale a dire la sanità pubblica, conta oggi un finanziamento di circa 114 miliardi e mezzo. Questi fondi sono poi distribuiti alle regioni che li assegnano a loro volta alle aziende sanitarie. A una prima occhiata ai valori e alla serie storica, il finanziamento è sempre aumentato negli ultimi venti anni, al di fuori del 2006 e del 2013. Sulla base di questi dati dovrebbe quindi avere ragione Marattin. All’inizio del nuovo millennio i fondi erano più di un terzo inferiori rispetto a oggi, fermo a poco più di 71 miliardi. E se allarghiamo ancora di più l’orizzonte, all’inizio degli anni ’80 il finanziamento era pari a un valore di appena 9 miliardi di euro attuali. Allora perché qualcuno parla di “tagli alla sanità” (anche lo stesso ministro Speranza)? La spiegazione è relativamente semplice ed è in qualche modo semantica: se negli ultimi anni il bilancio del sistema sanitario nazionale è sempre aumentato, di manovra economica in manovra, gli incrementi sono stati molto inferiori rispetto alle previsioni e agli accordi tra lo stato centrale e le regioni. Secondo Lavoce.info, rispetto alle previsioni di qualche anno fa (legge di bilancio 2014), nel 2019 la sanità pubblica riceveva più di 10 miliardi in meno. Ma non per questo ha visto il suo bilancio ridotto: come già ricordato, la spesa è sempre aumentata, anche se molto meno rispetto a quanto sarebbe dovuto accadere. Si può quindi parlare di mancati stanziamenti, invece che tagli. Se si sommano le spese perse in sanità degli ultimi cinque anni si accumulerebbe un tesoretto di più di 20 miliardi di euro (stime Lavoce.info) e di addirittura 37 negli ultimi dieci (calcolo Fondazione Gimbe).
Inoltre, se consideriamo anche l’aumento dei prezzi e la svalutazione annuale della moneta, il finanziamento reale della sanità risulta essere stato tagliato anche a livello netto. Secondo il calcolatore dei prezzi al consumo dell’Istat, i 105 miliardi e mezzo di finanziamento al Ssn del 2010 oggi varrebbero più di 117 miliardi. Mentre l’ammontare disposto dal governo l’anno scorso era di 114: la sanità è stata dunque tagliata in termini reali negli ultimi dieci anni, perché l’aumento annuale (+0,9 per cento all’anno dal 2010) non ha tenuto il passo dell’incremento dei prezzi (+1,07 per cento all’anno in media). Al contrario Germania, Francia e Regno Unito hanno aumentato gli stanziamenti reali nell’ultimo decennio, come ricorda l’Ufficio parlamentare di bilancio in un focus dedicato. Il finanziamento non è andato di pari passo nemmeno con lo sviluppo economico del paese, nonostante negli ultimi anni non sia stato particolarmente rapido. I dati dell’Ocse mostrano che la spesa pubblica per il settore sanitario rispetto al Pil ha smesso di crescere nel 2007 (circa il 7 per cento) e ha da allora perso più o meno mezzo punto percentuale. Rimane tuttavia sopra la media Ocse, ma inferiore rispetto a quanto spendono Francia, Germania e Regno Unito.
Meno soldi, meno cure?
Si potrebbe però anche sostenere che i risparmi siano stati possibili tagliando le inefficienze del sistema, che pure sono molto importanti in alcune regioni, senza intaccare l’efficacia del sistema pubblico di cure. Il livello totale di finanziamento non ci indica se questo sia vero o falso. E per di più le classifiche internazionali valutano l’Italia come un paese dotato di una buona sanità. Per Bloomberg, che ha stilato una graduatoria mondiale nel 2014, l’Italia è al terzo posto su 51 paesi nel mondo e al primo posto in Europa per efficienza della sanità (calcolata mettendo in relazione l’aspettativa di vita con la spesa sanitaria). Secondo Agi, l’Italia registra i tassi di mortalità prevenibile tra i più bassi dell’Unione Europea, nel nostro paese si sopravvive più facilmente ai tumori che nel resto d’Europa, come anche il tasso di ricoveri ospedalieri per malattie croniche è tra i più bassi.
Ma la situazione non è così rosea come questi risultati potrebbero farci credere. Prima di tutto, perché le condizioni di salute non dipendono solo dal sistema sanitario; entrano in gioco anche il reddito, le scelte individuali, l’ambiente famigliare, il clima e l’eredità genetica. E per di più i segnali allarmanti sulla tenuta della sanità pubblica italiana non mancano. L’Italia ha solo 3,2 posti letto ospedalieri per ogni 1000 abitanti, mentre paesi come Germania e Francia raggiungono valori almeno doppi rispetto ai nostri. Anche in Italia erano quasi 5 ogni migliaio di persone all’inizio del nuovo millennio. Fortunatamente il calo non si è registrato nei posti letto in terapia intensiva, oggi così ricercati per fronteggiare le crisi respiratorie dovute al coronavirus, aumentati negli ultimi dieci anni di qualche centinaio. Altro tasto dolente, l’età dei medici in servizio: il nostro paese ha la percentuale più alta d’Europa di dottori tra i 55 e i 65 anni, quasi il 40 per cento. E siamo gli unici, in compagnia della Bulgaria, ad avere più della metà dei medici in servizio che ha superato i 55 anni. L’età media così alta è dovuta alle scelte politiche degli ultimi anni di bloccare le nuove assunzioni per sostituire i medici andati in pensione. Un blocco del turnover generalizzato a quasi tutta la pubblica amministrazione e sbloccato solo recentemente. Così si sono risparmiati 2 miliardi di euro tra 2010 e 2018 solo per la spesa per il personale.
Guardando in prospettiva
Ma per valutare lo stato di salute del nostro sistema sanitario non basta guardare agli ultimi dieci anni. Bisogna anche avere in mente il prossimo decennio. La tendenza di invecchiamento della popolazione italiana è infatti ormai inesorabile, e questo porterà – e già lo sta facendo – a un aumento della spesa sanitaria. L’Italia è oggi il paese europeo con la maggiore percentuale di individui ultra65enni e ultra85enni, ed è noto che i profili di spesa sanitaria mostrano importi più elevati per le persone anziane, per i maggiori bisogni di cui necessitano. Come ha ricordato su queste pagine Luciano Capone partendo dalle simulazioni dell’Ocse, la crescita della spesa pro capite per la salute in Italia sarà pari all’1,5 per cento ogni anno fino al 2030. Il dato più basso tra i paesi dell’area Ocse, ma comunque molto più alto della crescita degli ultimi 15 anni (0,9 per cento). Secondo la Fondazione Gimbe, allo stesso tempo nel 2025 il fabbisogno di spesa sanitaria sarà di 230 miliardi. La differenza tra le previsioni di crescita della spesa e di quella del fabbisogno non sarebbe da poco: circa 40 miliardi di euro, che in qualche modo – se le stime si riveleranno corrette – bisognerà colmare. E i tagli alla spesa sanitaria in termini reali, perché questo sono e così vanno chiamati, non aiutano. Come non contribuiscono a combattere l’epidemia del nuovo coronavirus.
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