La grammatica dell'epidemia. Si muore “per” e non “con” il virus
In Italia c’è chi pensa di contenere la mortalità con le preposizioni. Il buon senso e i dati ci dicono che non ci sono dubbi
In Italia sembra che la mortalità causata dal nuovo coronavirus possa essere contenuta con le preposizioni. Si muore “con” il virus, non “per” il virus, si dice. L’idea dietro questa affermazione è semplice: se tutta una popolazione si infetta con un virus altamente contagioso, anche chi è arrivato a fine vita per qualunque altra ragione risulterà infetto; ma attribuire la morte di queste persone (malate o anziane) al virus, si dice, sarebbe una distorsione della realtà, equivalente ad attribuire la fine della vita di una persona al rinovirus che causa il raffreddore, solo perché starnutiva ed era positiva a quel virus poco prima di morire. Alla luce di questa teoria, risulterebbe spropositato l’allarme sociale scatenato da una scorretta conta dei morti e degli ospedalizzati, perché in realtà quelle morti e quelle ospedalizzazioni non sarebbero dovute al virus.
Riconosco in queste idee esattamente una delle strategie che hanno usato i negazionisti della Xylella in Puglia, quando sostenevano (e in parte ancora sostengono) che gli alberi di ulivo stanno disseccando per altre cause, e la Xylella vi si trova solo per coincidenza, ma non sarebbe la causa della loro morte. Gli ulivi, direbbero i novelli negazionisti del coronavirus, muoiono “con” la Xylella, non “per” la Xylella.
Vediamo di respingere una volta per tutte questo assalto grammaticale al buon senso e alla realtà scientifica delle cose. Cominciamo con il buon senso: come sostiene il mio buon amico Giuseppe Mingione, uno dei migliori matematici italiani, insistere sul fatto che qualcuno positivo al virus sia morto per le sue pregresse fragilità, equivale a pensare che, nel momento in cui un’anziana signora muore investita sulle strisce pedonali, si discuta del rischio che correva perché era vecchia e malferma, invece che dell’auto che l’ha investita. Morta “con” l’auto, ma “per” la vecchiaia: questo funambolismo grammaticale ci sembrerebbe ovviamente un’inaccettabile ipocrisia.
Ma, tornando al coronavirus, possiamo fare anche un ragionamento in negativo: se il virus fosse davvero così benigno, bisognerebbe invocare un’altra causa per spiegare il riempimento esponenziale, iniziato settimane fa, delle unità di terapia intensiva. Sarà forse che i medici sono impazziti, e si divertono a ricoverare e intubare inutilmente pazienti a un tasso molto maggiore del solito? Perché se il virus è un mero “passeggero” che ritroviamo in chi si ricovera e muore, ma non è invece una seria causa di ospedalizzazione e morte, allora ci dovrà essere una diversa ragione per il fenomeno che stanno osservando tutti quelli che, invece di andare nei talk show, stanno in una corsia di un reparto trasformato in una trincea per fronteggiare l’arrivo crescente di soggetti con sintomi straordinari. Se le morti avvengono “con” il virus, e non “per” il virus, allora bisogna capire come mai nel bergamasco le camere mortuarie sono piene: sarà il cambio di stagione?
Esauriti gli argomenti di buon senso, vediamo di condurre un’analisi un po’ più raffinata, su basi scientifiche. Diamo per buona la preposizione “con”, e immaginiamo che, di fatto, il virus sia causa solo di pochissime morti tra i pazienti ospedalizzati. In questa ipotesi, muore chi sarebbe comunque morto a breve, per vecchiaia o per malattia o, soprattutto, per una combinazione delle due cose. Di conseguenza, possiamo aspettarci che le maggiori cause di morte siano le stesse di sempre, e cioè che le patologie che aveva chi muore oggi “con” il virus non siano sostanzialmente diverse da chi moriva ieri, “senza” il virus. La verifica di questa ipotesi è molto semplice: basta andare a guardare un campione di 268 deceduti – diremo “durante” l’epidemia, per non sbilanciarci tra le due preposizioni “con” e “per” – il cui quadro clinico alla morte è stato reso noto dall’Istituto Superiore di Sanità il 13 marzo. Fra questi, il 76,5 per cento dei soggetti presentava ipertensione arteriosa. Ammettendo che questa sia stata la causa primaria della loro morte, e non il virus, si tratta di una enorme deviazione da quanto censito dall’Istat fra le cause di morte nel 2014, per pari età. Come mai il rischio di morire con ipertensione arteriosa è improvvisamente schizzato alle stelle? E perché, percentualmente, la quota di morti con cardiopatia ischemica, come quella dei pazienti con fibrillazione atriale, è molto maggiore rispetto agli stessi dati di riferimento, come quella con diabete mellito e dei pazienti con insufficienza renale cronica? E perché anche la percentuale di morti con broncopatia polmonare cronica ostruttiva è accresciuta?
Fra l’altro, questo effetto è selettivo: fra i deceduti nel set di 268 persone del 13 marzo, la percentuale di soggetti con demenza, cancro o ictus è sostanzialmente in linea con quanto osservato nel 2014.
Abbiamo quindi un agente selettivo all’opera, che aumenta il rischio di morte di certi specifici pazienti, non di tutti. Questo è in profondo disaccordo con l’idea che il virus si trovi di passaggio su quei soggetti, in cui la malattia avrebbe fatto il suo naturale corso. In realtà, è evidente che un agente attivo ne causa il peggioramento selettivo, per cui muoiono molto di più dell’atteso (o prima, il che è lo stesso). “Per” cui muoiono: sì, l’ho scritto. E cosa riflette questa impronta selettiva del virus? Quasi certamente, in quelle condizioni – vuoi per la malattia stessa, vuoi per il trattamento farmacologico – il virus è favorito da qualche preciso meccanismo molecolare, sulla cui natura esistono già delle ragionevoli ipotesi. Presto sapremo se sono fondate; resta il fatto, tuttavia, che gli indizi che il virus ci ha lasciato permettono già di imputargli quelle morti evitabili, ben al di sopra dei pochi morti senza altre patologie. Con buona pace degli esercizi grammaticali, che non consolano né ingannano nessuno.
Enrico Bucci è Adjunct Professor in Systems Biology SHRO, Temple University – Philadelphia
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