Il modello regionale della sanità
Sicuri che la centralizzazione sia la strada giusta? Forse il Covid-19 (e il Veneto) dimostrano il contrario
L’emergenza sanitaria Covid-19 sta sollecitando diverse reazioni all’approccio fin qui tenuto dallo Stato e dalle Regioni colpite dall’epidemia. Alcuni osservatori ritengono che si dovrebbe riaffermare l’esigenza di un approccio centralizzato alla salute pubblica, da non lasciare all’iniziativa delle amministrazioni regionali. Più in generale, secondo questa lettura andrebbero abbandonati i progetti di differenziazione a livello regionale di materie e competenze a legislazione concorrente, e conseguentemente negata l’attribuzione alle regioni che ne hanno fatto richiesta (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna) di una maggiore autonomia tagliata su misura.
Mi sembra tuttavia che proprio la diversa risposta fornita all’emergenza “coronavirus” dai diversi livelli di governo possa suggerire una diversa, e opposta, lettura. Nella fase iniziale di diffusione del virus, ad esempio, i governatori di alcune regioni avevano chiesto al governo, senza ottenere ascolto, un inasprimento delle misure di contenimento del virus con riduzione delle occasioni di contatto sociale. In tal caso, la risposta rassicurante fornita in un primo momento dallo stato si è rivelata erronea, e meglio sarebbe stato lasciare alle regioni margini di manovra nell’ideazione e implementazione delle misure ritenute necessarie per contrastare l’epidemia. Nelle fasi successive, le scelte fatte dal Veneto sono sembrate, almeno fino a oggi, più efficaci di quelle adottate in altri territori. L’elevato numero di tamponi, la messa in isolamento delle persone infette, la presenza di una più capillare rete di presidi sanitari pre-ospedaliari, insieme ad altri fattori parrebbero costituire una risposta più efficace di quella riscontrabile in altre regioni. E questo autorizza a credere nella fecondità delle sperimentazioni effettuabili a livello di singole regioni, con adozione di pratiche mirate e originali che, in caso di successo, potranno essere emulate da altre amministrazioni regionali.
Ma questo stesso ragionamento potrebbe essere esteso ad altre materie, come l’istruzione e l’università. Non è affatto detto che la centralizzazione e l’omogeneizzazione di materie, programmi, metodi di insegnamento, rapporti col modo produttivo, sia sempre la migliore soluzione possibile. Potrebbe infatti essere più rispondente all’esigenza e all’interesse collettivo di specifiche realtà territoriali la libertà di sperimentare soluzioni anche diverse da quelle che potrebbero invece attagliarsi ad altre comunità. Le obiezioni alla possibilità di approcci differenziati nella fornitura dei servizi fanno solitamente perno sulla prerogativa statale di garantire a ciascuno i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” su tutto il territorio nazionale (art. 117 della Costituzione). Ma garantire a tutti i livelli essenziali delle è un obiettivo che può essere perseguito anche senza comprimere (o impedire che si espanda) l’autonomia di singole regioni “virtuose”, le cui pratiche potrebbero anzi indicare percorsi e modalità per elevare, a risorse date, il livello delle prestazioni anche in altre realtà regionali. Lo stato deve garantire ai suoi cittadini il livello essenziale di prestazioni nelle materie evocate dall’art. 117 (sanità, istruzione), anche esercitando i poteri sostitutivi previsti dalla Costituzione ma non impedire a determinate regioni di raggiungere migliori performances, inseguendo un ugualitario appiattimento verso il basso.
Dietro alla diffusa opposizione alle richieste di autonomia e differenziazione nelle competenze regionali si staglia un’idea centralista e unificante, ma totalmente irrealistica, all’accesso ai beni e ai servizi pubblici, che dovrebbe essere garantito a tutti su un piano di perfetta parità, come se ciò non dipendesse anche, o soprattutto, dalla qualità delle diverse amministrazioni locali e da molti altri fattori ambientali, oltre che ovviamente dalle risorse disponibili. Mal si tollera, soprattutto, che alcune regioni possano trovarsi a disporre, magari proprio per effetto di una positiva dinamica del pil regionale indotta da un miglioramento dei servizi pubblici conseguente alla regionalizzazione delle competenze, di maggiori risorse fiscali rispetto ad altre. Ma è in realtà proprio tale visione a rivelarsi in contrasto con gli indirizzi ordinamentali e l’assetto costituzionale. L’autonomia finanziaria di spesa ed entrata prevista per le regioni dall’art. 119 Cost., con attribuzione alle stesse di tributi propri e compartecipazioni al gettito di tributi erariali, delinea un assetto di finanza pubblica che pur avendo anche una connotazione solidaristica non è affatto ispirato all’appiattimento e all’indiscriminata redistribuzione delle risorse, bensì all’autonomia, alla responsabilità, alla riduzione ma non all’annullamento delle disuguaglianze distributive.
Lo stesso fondo perequativo, previsto a favore delle regioni con minore capacità fiscale per abitante, non può avere l’effetto di azzerare le disuguaglianze economiche presenti nei territori, come avverrebbe ipotizzando una spesa pubblica pro-capite uguale per ogni cittadino. Non si spiegherebbe, altrimenti, né l’“autonomia di entrata” del già citato art. 119, giacché tutte le risorse raccolte dalla regione dovrebbero concorrere alla perequazione, né la previsione di “compartecipazioni” al gettito di tributi erariali “riferibile” al territorio regionale, con cui è stato sancito il principio di territorialità nell’assegnazione delle risorse e l’esigenza che non venga del tutto reciso il legame geografico tra utilizzo del gettito e fonte che lo ha generato.
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