Cosa non ha funzionato nel "modello Italia" contro il coronavirus
La difficoltà a valutare la gravità del problema, l'esodo post-decreto verso Sud, gli approcci diversi di Lombardia e Veneto, l'assenza di dati e di provvedimenti simultanei. Ecco perché la pandemia, in Italia, si è trasformata in una catastrofe
Pubblichiamo la traduzione integrale dell'articolo Lessons from Italy’s Response to Coronavirus degli economisti della Harvard Business School Gary P. Pisano, Raffaella Sadun e Michele Zanini, pubblicato sull'Harvard Business Review (traduzione Ludovica Mottura).
Le nazioni del mondo che si affannano a combattere la pandemia del Covid-19 si trovano in una situazione senza precedenti. È stato scritto molto sulle misure prese in paesi come la Cina, la Corea del Sud, Singapore e Taiwan per contenere la pandemia. Sfortunatamente in quasi tutta l’Europa e negli Stati Uniti è già troppo tardi per provare a gestire la prima fase della diffusione del Covid-19, e si fa fatica a tenere il passo con la pandemia che avanza. Si stanno replicando molti degli errori fatti in Italia, dove la pandemia è diventata una catastrofe. Lo scopo di questo articolo è di aiutare a capire gli errori commessi in Italia, con la speranza che questo ci aiuti ad affrontare una crisi senza precedenti.
Nel giro di poche settimane (dal 31 gennaio al 22 marzo), l’Italia è passata dalla scoperta del primo caso ufficiale di Covid-19 a un decreto di governo che proibisce gli spostamenti delle persone su tutto il territorio nazionale e prevede – anche se con dubbi sulla attuale implementazione di queste misure – la chiusura di tutte le attività non essenziali. In un periodo di tempo brevissimo il paese è stato colpito da una sorta di tsunami, scandito da una serie continua di vittime. Questa crisi è sicuramente la più grande che ha colpito il paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Alcuni aspetti – per esempio quando si è manifestata – non erano controllabili. Altri però rivelano i grandi limiti del governo italiano nel riconoscere la portata della minaccia posta dal Covid-19, nell’organizzare una risposta sistematica, e nell’imparare sia dalle vittorie sia dalle sconfitte nella lotta al virus. Non è troppo tardi per applicare quello che si è imparato finora.
È giusto sottolineare che questi problemi sono emersi dopo che il Covid-19 si era diffuso estesamente in Cina e dopo che alcuni modelli di contenimento del virus erano stati efficacemente applicati altrove. Visto che c’era già prova tangibile del pericolo, ed esistevano strategie e provvedimenti a cui ispirarsi, si può concludere che non mancassero le informazioni necessarie ad agire e che ci sia stata, piuttosto, una incapacità di prendere atto delle informazioni esistenti e di tradurle in provvedimenti tempestivi.
La percezione del problema
Negli sua fase iniziale l'epidemia italiana di Covid-19 non sembrava un’emergenza. Le dichiarazioni di allarme erano state accolte con scetticismo sia dall’opinione pubblica che dai politici, anche se molti scienziati avevano già segnalato la potenzialità catastrofica del virus. Per esempio a fine febbraio alcuni politici italiani di spicco si scambiavano pubblicamente strette di mano a Milano per sottolineare che l’economia non doveva bloccarsi a causa del virus (una settimana dopo ad uno di questi politici è stato diagnosticato il Covid-19).
Comportamenti simili si sono ripetuti in molti altri paesi, dimostrando quello che in psicologia si chiama confirmation bias – un fenomeno cognitivo per il quale siamo predisposti ad assorbire e considerare solo le informazioni che confermano le nostre convinzioni di partenza. I fenomeni che si sviluppano in modo non lineare (cioè cominciano con numeri piccoli ma crescono in maniera esponenziale) sono particolarmente problematici da affrontare vista la difficoltà a interpretare quello che succede in tempo reale. Il momento migliore per contrastare questi fenomeni è all’inizio, quando il problema sembra limitato (o anche prima che si manifesti del tutto). Questo è il periodo in cui alcuni provvedimenti potrebbero sembrare esagerati. Ancora peggio, se i provvedimenti dovessero effettivamente funzionare sembrerà, a posteriori, che quelle misure forti erano eccessive. Molti politici non sono disposti a correre questo rischio.
L’incapacità di dare ascolto agli esperti mette in luce che i governanti (come del resto tutti noi) fanno fatica a prendere decisioni in situazioni di crisi complesse che non presentano soluzioni chiare. In tali frangenti, si tende a dare retta alle persone di cui ci fidiamo, o al proprio istinto. Ma è proprio quando c’è incertezza che bisognerebbe impegnarsi a scoprire, organizzare e processare le informazioni disponibili da diverse fonti, anche se incomplete e frammentate.
Evitare soluzioni parziali
La seconda lezione da trarre dalle vicende italiane è l’importanza di adottare approcci sistematici e coordinati, invece di soluzioni parziali. Il governo italiano ha affrontato il Covid 19 emettendo una serie di decreti che progressivamente hanno aumentato le restrizioni all'interno delle cosiddette “zone rosse”, estendendo poi queste, gradualmente, al resto dell’Italia.
In tempi normali questa strategia sarebbe stata prudente e saggia. Ma in questa situazione non ha funzionato per due motivi. Primo, non teneva conto della diffusione esponenziale del virus. I dati giornalieri non fornivano una previsione accurata dello sviluppo nei giorni successivi. Pertanto, l’Italia “seguiva” la diffusione del contagio invece che “precederla”. Secondo, i provvedimenti parziali potrebbero aver facilitato la diffusione del virus. Quando il decreto di “chiusura” del nord Italia è diventato pubblico, ha causato un esodo massiccio di persone verso il sud. E questo ha sicuramente facilitato la diffusione del virus in regioni in cui non era ancora arrivato.
Ciò dimostra quello che adesso è chiaro a tanti: una risposta efficace al virus va organizzata con una serie di provvedimenti simultanei. I risultati in Cina e Corea del sud lo confermano. L'analisi di ciò che è accaduto in questi paesi si focalizza prevalentemente su elementi isolati della strategia (per esempio i tamponi), ma la caratteristica saliente della risposta organizzata per frenare la diffusione del contagio è la pluralità dei provvedimenti presi contemporaneamente. I tamponi sono efficaci se combinati con il contact tracing (rintracciare tutte le persone venute in contatto con il contagiato), e il tracing è efficace se combinato con un sistema di comunicazione che raccoglie e distribuisce informazione sui movimenti delle persone potenzialmente infette, e così via.
Questi principi si possono applicare anche al sistema sanitario. Non serve solo riorganizzare le strutture sanitarie (per esempio separando la cura dei malati Covid-19 dagli altri), ma bisogna urgentemente passare da un’assistenza che ruota intorno al paziente a un approccio che supporta comunità intere (con particolare enfasi sulle cure domestiche). Il bisogno di provvedimenti coordinati è avvertito particolarmente in questo momento negli Stati Uniti.
Bisogna saper imparare
Anche in presenza di una strategia coordinata e sistematica, non è facile trovare il giusto approccio. Questo richiede l’abilità di imparare sia dalle vittorie che dalle sconfitte nella guerra al virus, e la disponibilità a cambiare strategia. Ci sono sicuramente cose da imparare da paesi come la Cina, Corea del sud, Taiwan e Singapore che sembrano essere riusciti a contenere il contagio. Ma qualche volta non è necessario andare troppo lontano per capire cosa fare. La decentralizzazione del sistema sanitario italiano ha creato una situazione un cui varie regioni d’Italia hanno adottato politiche diverse rispetto al virus. L’esempio più lampante di queste differenze è l’approccio seguito dalla Lombardia rispetto al Veneto – due regioni adiacenti con un profilo socio-economico simile.
La Lombardia, una delle regioni più ricche e produttive d’Europa, è stata colpita sproporzionatamente dalla pandemia. Il 26 marzo la Lombardia ha registrato il record di 41.000 casi e 6.400 vittime su una popolazione di 10 milioni di cittadini. In Veneto dove pure si era vista una notevole diffusione iniziale del virus, la situazione è attualmente meno critica, con meno di 8.400 casi e 400 vittime su una popolazione di 5 milioni.
Il diverso sviluppo del contagio in queste due regioni è stato segnato da una combinazione di fattori che, in alcuni casi, nulla hanno a che vedere con le capacità di chi le governa. La Lombardia ha una maggiore densità di popolazione e aveva un numero di casi superiore quando la crisi è scoppiata. Ma è ormai chiaro che ci sono state scelte di politica sanitaria nelle fasi iniziali che hanno influenzato i risultati che vediamo oggi.
In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili sul social distancing e la chiusura dei negozi, il Veneto ha affrontato il Covid-19 con diverse misure di politica sanitaria come:
- l’uso dei tamponi da subito sia su casi sintomatici che asintomatici;
- il tracing di potenziali contagiati. Se una persona risultava positiva al tampone, tutte le persone che vivevano con lei, così come i vicini di casa, venivano testati e in caso di mancanza di tamponi, venivano messi in quarantena;
- enfasi sulla diagnosi e sulla cura domestica. Dove possibile, i campioni venivano raccolti direttamente nelle abitazioni e analizzati da laboratori locali o regionali;
- monitoraggio e protezione del personale sanitario e di altri lavoratori essenziali. Questo ha incluso medici e infermieri, personale in contatto con popolazioni a rischio (assistenti in case di riposo per anziani), e lavoratori esposti al pubblico (cassieri di supermercato, farmacisti e operatori di servizi di pubblica assistenza come vigili del fuoco e poliziotti).
La Lombardia ha invece seguito le linee guida del governo centrale e optato per un modello più blando di testing. A livello pro capite la Lombardia ha effettuato la metà dei tamponi del Veneto e li ha concentrati quasi esclusivamente su casi sintomatici, con un investimento limitato sul contact tracing, sulle strategie di monitoraggio a casa e di protezione del personale medico.
Tuttavia, abbiamo imparato troppo poco e troppo lentamente da queste diversità di politiche sanitarie. Si sarebbe dovuto riconoscere molto prima che provvedimenti di tipo diverso stavano dando risultati diversi in due regioni relativamente simili, e che pertanto le formule sviluppate con successo in Veneto avrebbero potuto aiutare ad aggiornare le politiche sanitarie nazionali o regionali. È solo negli ultimi giorni, dopo un mese dal primo caso di Covid-19 in Italia, che la Lombardia e altre regioni hanno cominciato a imitare alcuni aspetti del “modello Veneto”, per esempio insistendo affinché il governo centrale aumentasse la capacità diagnostica.
La difficoltà di diffondere e condividere conoscenze appena acquisite è un fenomeno molto diffuso sia nel settore privato che in quello pubblico. Accelerare la diffusione di quello che stiamo imparando dall’applicazione di strategie diverse (in Italia e altrove) è di fondamentale importanza in un momento in cui, come ci hanno riferito diversi scienziati, “ogni paese sta cercando di reinventare la ruota”. Bisogna pensare alle varie strategie come una serie di “esperimenti”, invece che a battaglie personali o politiche, e bisogna adottare un atteggiamento, sistemi e processi che facilitino l’apprendimento da esperienze recenti e passate il più rapidamente possibile.
È particolarmente importante capire quali provvedimenti non sono efficaci. Si sente subito parlare dei successi anche grazie al fatto che i leader sono pronti a pubblicizzarli, ma i problemi sono spesso tenuti nascosti per timore che qualcuno venga punito o, quando emergono, vengono attribuiti a errori fatti da individui invece che errori “di sistema”.
Per esempio il fatto che gli ospedali potessero avere un ruolo importante come “amplificatori” del contagio era emersa sin dal 25 febbraio, nell’ambito dei contagi avvenuti nell’ospedale di Codogno. Conte attribuì questa situazione all'incapacità manageriale della struttura, ma è più probabile che i contagi ospedalieri siano la spia di un problema molto più grande, legato alle diverse strutture organizzative necessarie a fronteggiare una pandemia.
L'importanza della raccolta e della distribuzione di dati
L’Italia ha dovuto affrontare due diversi problemi per quanto riguarda la raccolta e la distribuzione dei dati. All’inizio della pandemia, c’e’ stata scarsità di dati come, per esempio, l’incapacità di registrare i picchi di infezioni “anomale”. Recentemente il problema è stato invece quello della precisione dei dati. Nonostante lo sforzo del governo italiano che aggiorna quotidianamente le statistiche su un sito pubblico, alcuni commentatori hanno avanzato l’ipotesi che la differenza nei tassi di mortalità tra varie regioni di Italia o tra l’Italia e altri paesi sia in parte dovuta a una differenza nelle modalità in cui vengono condotti i test. Queste discrepanze complicano la gestione della pandemia perché in assenza di dati accurati e omogenei è molto difficile capire quali provvedimenti funzionano, e allocare risorse in modo adeguato.
Idealmente i dati che documentano la diffusione e gli effetti del virus dovrebbero essere standardizzati tra le varie regioni e paesi, seguendo la progressione del virus sia a livello macro (statale) che a livello micro (ospedale). Non si può sottostimare l’importanza dei microdati. Si parla spesso della qualità dell’assistenza sanitaria a livello di paese o di nazione, ma in realtà le strutture sanitarie sono diverse tra loro in termini di quantità e qualità dei servizi che offrono, e delle loro capacità manageriali, anche all’interno di una stessa regione o paese. Invece di nascondere queste differenze, bisognerebbe metterle in luce e pianificare di conseguenza come distribuire le limitate risorse. Si può capire cosa funziona – e cosa non funziona – solo con dati di qualità e livello adeguati.
Un approccio diverso nel prendere decisioni
C’e’ ancora tanta incertezza su quello che bisogna fare per fermare il virus. Molti aspetti sono ancora sconosciuti e lo saranno per molto tempo. Inoltre, c’è un lasso temporale tra il momento in cui si prendono (o non si prendono) provvedimenti e le conseguenze che gli stessi producono sul numero di contagiati e vittime. Dobbiamo rassegnarci. Ci vorranno molti mesi, se non anni, per capire quali soluzioni funzionano e quali no.
Tuttavia, due aspetti di questa crisi sono chiari. Primo, non si può perdere tempo, vista la diffusione esponenziale del virus. Come ha detto il capo della Protezione Civile, “l’epidemia va più veloce della nostra burocrazia”. Secondo, un approccio efficace per combattere il Covid-19 richiede una mobilitazione “di guerra” – sia per le risorse umane ed economiche da dispiegare, sia per il coordinamento necessario tra varie parti del sistema sanitario a livello pubblico e privato (testing, ospedali, medici di famiglia ecc) con il resto della società.
Solo un approccio decisionale diverso dal “business as usual” può produrre la necessaria combinazione tra azione immediata e mobilitazione su larga scala.
Se i capi di governo vogliono vincere la guerra contro il Covid-19 devono adottare un approccio sistemico che predilige l’apprendimento e condividere facilmente esperimenti di successo, ed eliminare rapidamente approcci che non funzionano. Questa è un’impresa difficile – in una crisi come quella in cui ci troviamo. Ma vista la posta in gioco, è una sfida da affrontare.
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