Il vaccino per l'economia
Il rifiuto intellettuale dell’industria e del progresso ci fa dimenticare quanto acqua, plastica, energia, petrolio siano determinanti anche in questi giorni di emergenza. E quanto saranno necessari, domani, il dinamismo imprenditoriale, la fiducia nelle competenze e uno stato efficiente
Solo il tempo dirà quanto sono profondi i cambiamenti indotti dal coronavirus. Ma sappiamo da subito che dovremo conviverci a lungo. Abbiamo perso la fiducia in molte cose che davamo quasi per scontate: uscire non è più sicuro, le imprese sono costrette alla chiusura, le nostre più banali libertà sono temporaneamente sospese. Perfino il pluridecennale declino italiano, che ci eravamo quasi abituati a vedere come una sorta di decrescita dolce, adesso ci appare come una folle caduta a precipizio. Luigi Guiso e Daniele Terlizzese hanno stimato un impatto negativo sul prodotto interno lordo nell’ordine dei 9 punti percentuali (il Foglio, 24 marzo 2020). Forse andrà anche peggio, secondo la severità dell’epidemia e la durata del lockdown.
Mentre vecchie certezze vengono erose, altre – che avevamo perso – sembrano riemergere. Se avremo la forza e la lucidità di comprenderle, forse potranno rappresentare la leva a cui affidare la ripresa. La strada non sarà né breve né semplice, perché richiede di compiere in fretta e sotto stress uno sforzo riformista che avremmo dovuto perseguire (e che gli altri hanno perseguito) nei vent’anni trascorsi dall’adozione dell’euro. Ma, più ancora della fatica politica, è importante che affrontiamo una sfida intellettuale: rigettare i pregiudizi che informano la nostra sovrastruttura sociale e tornare ad apprezzare – marxianamente – la struttura sottostante. Il modo più semplice per esprimere il concetto è questo: la nostra relativa prosperità è figlia della civiltà industriale di cui siamo parte. Il rifiuto intellettuale dell’industria e del progresso è una delle cause della nostra incapacità di reagire. Se vogliamo ripartire, dobbiamo anzitutto riscoprire la fonte del nostro benessere e ripulirla dalle erbacce.
È importante fare un uso ragionevole del denaro dei contribuenti presenti
(le tasse) e futuri (l’indebitamento). Ma è ancora più importante spingere perché siano rilassati quei vincoli regolatori che fanno del nostro paese
la cenerentola di tutte le classifiche internazionali sulla qualità
del settore pubblico
La fonte è inquinata. E’ inquinata dalla diffusa credenza che l’uomo sia vittima dell’industria; che i marchingegni di James Watt, di Thomas Edison e Nikola Tesla, di Alan Turing abbiano dotato l’umanità del potere di distruggere la Terra. La globalizzazione e il capitalismo o, se preferite, il neo-liberismo sarebbero il serpente tricefalo che ci ha indotti a cogliere le invenzioni di quei grandi uomini e addentarle per gustare la perversione delle loro applicazioni pratiche. Nelle sue manifestazioni estreme, questa visione è paradossale. E’ il caso del consigliere economico del premier, Gunter Pauli, secondo cui grazie al virus il pianeta è tornato a respirare. Questa tesi, che oggi fa giustamente indignare molti ma continua a esaltare molti altri, non è altro che lo sviluppo logico e coerente di un modo di pensare assai diffuso. Nella sua essenza, ha ispirato molte delle decisioni che abbiamo preso, in questi ultimi anni, per limitare le attività e la stessa legittimazione sociale dell’industria, e con essa i diritti civili (come quello di spostarsi da un paese all’altro) ed economici (innovare e competere). Uno scenario che non dispiace a tanti che pure non si spingono fino agli estremismi di Pauli. La sua collega consigliera di Giuseppe Conte, Mariana Mazzucato, ha scritto mercoledì su Repubblica che questa crisi va presa “come modo per capire come fare capitalismo in modo diverso”.
Ecco: la tesi di questo articolo è opposta. Il capitalismo non ha alcuna relazione col coronavirus. Peraltro, nessuno lo sostiene (neppure Mazzucato). Non si capisce quindi perché la nostra risposta a Covid-19 dovrebbe consistere nella sua rottamazione. Al contrario, esso ha (o può avere) molto a che fare con la nostra capacità di reagire.
Ciò non significa che il sistema capitalistico sia esente da difetti o che le attività industriali non possano produrre esternalità negative, né che tali fenomeni non richiedano l’intervento correttivo della regolamentazione. Non si tratta neanche della solita, stantia discussione tra stato e mercato. Adesso più che mai c’è bisogno di uno stato che funzioni. Abbiamo davanti un periodo in cui la spesa pubblica aumenterà a dismisura. Ma questo impone una riflessione attenta sulle funzioni reciproche e sul modo in cui la nostra società potrà beneficiare del dinamismo dei mercati e della rete di sicurezza dello stato. Dobbiamo salvaguardare il meglio del nostro sistema economico e sociale. Per farlo, il bambino va separato dall’acqua sporca. C’è un modo intuitivamente semplice: chiedersi cosa ci aiuta a condurre un’esistenza migliore e in quale modo possiamo disegnare una via d’uscita dall’attuale condizione di emergenza.
L’industria e l’igiene
La prima regola da seguire per contrastare il coronavirus sono le norme igieniche. Bisogna lavarsi spesso le mani con acqua e sapone, utilizzare l’amuchina o uno dei suoi sostituti ed evitare ogni forma di contaminazione. Basta poco per contrarre l’infezione. Fortunatamente, disponiamo degli strumenti per farci scudo. A partire, va da sé, dall’acqua corrente. L’afflusso di acqua potabile nelle case è una conquista relativamente recente: già i romani erano maestri nella costruzione di acquedotti, ma il primo impianto di distribuzione di acqua potabile a servizio di un’intera città arrivò solo nel 1804 a Paisley, in Scozia. Oggi un acquedotto è un’infrastruttura estremamente complessa che prima preleva l’acqua e la ripulisce da ogni elemento nocivo, e poi – una volta usata – la ritira e la restituisce all’ambiente dopo averla depurata.
Un’infrastruttura la cui realizzazione e la cui operatività costa, vale e va pertanto pagata. Farla funzionare richiede tecnologia, capitali e molta, molta energia. L’energia che alimenta i sistemi idrici – prevalentemente sotto forma di elettricità – è, nel nostro paese, debitrice delle fonti rinnovabili. Non sarebbe così affidabile ed economica se non vi fossero centinaia di chilometri di cavi che interconnettono l’intera Europa, e innumerevoli impianti alimentati da combustibili tradizionali, quali carbone, nucleare e – soprattutto – gas metano. In quelle lunghe autostrade per elettroni si nascondono materiali (l’alluminio dei conduttori, l’acciaio o il calcestruzzo dei tralicci, la ceramica per le parti isolanti), tecnologia e design. Intere filiere si dispiegano a valle dell’interruttore (di plastica) con cui accendiamo il phon. E’ vero: la produzione di energia ha impatti ambientali, sia locali, sia globali. E’ importante promuovere le tecnologie che possono ridurli – minimizzando l’emissione di sostanze inquinanti o promuovendo l’efficienza nella generazione e nel consumo di energia – e adottare politiche che valorizzino tali sforzi (a partire dal carbon pricing). Ciò nonostante, senza energia elettrica, oggi vivremmo vite più misere o non vivremmo affatto.
L’energia elettrica è un input fondamentale del mondo moderno. E’ versatile, può essere usata per alimentare processi molto diversi tra di loro, e consente di sostituire più facilmente fonti o tecnologie “sporche” con altre pulite. Inoltre, i combustibili fossili, che per lungo tempo sono stati il cuore del nostro fabbisogno energetico, possono avere anche altri utilizzi non energetici che, oggi, si rivelano di importanza straordinaria nella lotta contro il coronavirus. Per esempio, il petrolio non è solo l’anima delle automobili che ci hanno emancipati dalla schiavitù luogo di nascita. E’ anche l’ingrediente principale delle plastiche. Le plastiche sono una delle invenzioni più incredibili della storia umana, perché ci hanno permesso di risolvere una enormità di magagne.
L’efficacia e la capacità innovativa del sistema finanziario
sono uno snodo nevralgico per uscire dalla crisi. E’ necessario che,
in tempi rapidi, il governo e i regolatori individuino strumenti
per promuovere l’innovazione finanziaria e assicurativa
e canalizzare il risparmio verso l’economia reale
Se bisogna evitare ogni forma di contatto con individui o superfici potenzialmente infette, la sicurezza degli alimenti è prioritaria. Questa è garantita dal cibo industriale e dalla plastica. Di plastica sono le tute protettive e altri dispositivi che utilizziamo per difenderci. Per anni abbiamo cercato di arginarla, consapevoli che gli abusi e soprattutto gli errori o l’incapacità di raccoglierla evitandone la dispersione nell’ambiente sono all’origine di autentici disastri (specie nei mari). Ma oggi nulla ci garantisce più e meglio delle confezioni industriali. Per questo – anche in relazioni al dibattito della settimana scorsa su quali siano le attività veramente essenziali – quella del packaging è un’industria nevralgica. Per funzionare, per mettere i produttori alimentari nella condizione di trasmettere i loro prodotti in modo sicuro alle catene logistiche della distribuzione o confezionare i dispositivi medici in modo sterile, essa richiede prodotti intermedi. Gli scarti dei processi industriali e i rifiuti da usi civili vanno raccolti: non sarebbe possibile senza le imprese e i lavoratori che se ne occupano, e senza le tecnologie di trattamento.
La chimica (da cui dipende pure la produttività dei campi e dunque il nostro sostentamento) ha una gemella cui stiamo affidando letteralmente il nostro futuro: l’industria farmaceutica. Se le misure di contenimento servono a rallentare la diffusione del coronavirus, la soluzione di lungo termine non può che arrivare dai medicinali grazie ai quali ne cureremo i sintomi e ai vaccini con cui ne stroncheremo le aggressioni. Lo ha giustamente ricordato Paolo Mieli sul Corriere della Sera di giovedì, citando anche i casi di Ilaria Capua ed Elena Cattaneo: dovremmo fare i conti col nostro tormentato rapporto con la scienza e gli scienziati. E chiedere loro scusa per tutte le volte che li abbiamo ignorati o svillaneggiati. Assieme ai produttori di dispositivi per la protezione personale (mascherine, guanti usa e getta, tute), di macchinari medicali, di apparecchiature salvavita, sono i responsabili ultimi della nostra sopravvivenza. Il loro lavoro, le loro competenze e le rispettive catene produttive fanno la differenza tra la vita e la morte per molti di noi; e tra una buona e una cattiva vita per molti altri. Eppure, da Hollywood alla politica italiana, farmaci, vaccini e imprese farmaceutiche sono storicamente in cima alla lista dei “cattivi”: forse è il momento di abbandonare i pregiudizi. Vale anche per l’industria finanziaria, bancaria e assicurativa, che oggi invochiamo per proteggere i nostri risparmi e fornirci le risorse per tenere in vita la società, oltre che per alimentare gli investimenti che saranno necessari domani.
L’industria e il distanziamento sociale
Non si vive di solo pane e non si combatte l’epidemia con i soli farmaci. Il distanziamento sociale è possibile solo grazie a una miriade di tecnologie. Vecchie, come il frigorifero, senza il quale non potremmo conservare gli alimenti nelle nostre abitazioni con altrettanta sicurezza.
E nuove: come le comunicazioni digitali. Nelle settimane in cui le scuole sono chiuse, gli investimenti, i servizi e il lavoro delle imprese di telecomunicazioni consentono ai nostri figli di seguire le lezioni e non interrompere (del tutto) il loro percorso di apprendimento. Che dire delle piattaforme online? Netflix e Sky ci tengono costantemente informati e ci mettono a disposizione infiniti prodotti di intrattenimento. Amazon ci fa arrivare comodamente a casa prodotti da imprese e artigiani di ogni sorta, con un’attenzione mai sperimentata per la cura del cliente e un prezzo competitivo (tranne i libri, per i quali la legge vieta gli sconti, e mai una disposizione è apparsa tanto ingiusta). Deliveroo e Glovo e JusEat e gli altri del food delivery ci promettono di tenere vivo il nostro rapporto col ristorante preferito. Quanto più a lungo alcuni gruppi di persone dovranno stare a casa, tanto più gli strumenti digitali saranno un supporto imprescindibile, a tutela del loro benessere e della loro sicurezza. Un discorso analogo vale per le catene della grande distribuzione, che ogni giorno procurano beni di ogni genere per consentirci di vivere e soddisfare i nostri bisogni, a dispetto dell’isolamento domiciliare a cui siamo costretti.
Da Hollywood alla politica italiana, farmaci, vaccini e imprese farmaceutiche sono storicamente in cima alla lista dei “cattivi”: forse è il momento
di abbandonare i pregiudizi. Vale anche per l’industria finanziaria, bancaria
e assicurativa, che oggi invochiamo per proteggere i nostri risparmi
Tutti questi soggetti sono stati a lungo demonizzati: gli uni accusati di prendere a spallate gli operatori tradizionali (che poi è una possibile definizione di concorrenza e in un mondo normale sarebbe un complimento), gli altri di alimentare speculazioni edilizie o mettere alle strette i piccoli esercizi di vicinato. La regolamentazione delle consegne di cibo a domicilio si è fatta negli ultimi mesi punitiva. Ora c’è urgenza più che mai di persone che si facciano carico delle consegne a domicilio e di mezzi per favorire l’incontro tra domanda e offerta: quella sui rider sembra una discussione semplicemente ridicola. Idem per gli orari di apertura degli esercizi commerciali: abbiamo passato mesi e mesi a discutere di quanto fosse estraniante la pretesa di tenere alzata la saracinesca 24 ore al giorno. Solo adesso ci accorgiamo che spalmare gli accessi su un periodo di tempo più lungo tutela clienti e lavoratori.
Tutti i beni che quotidianamente consumiamo – e che speriamo di poter continuare a consumare – arrivano a destinazione grazie agli addetti e agli imprenditori della logistica. Dovendo limitare gli assembramenti, è inevitabile che almeno per un certo tempo avremo meno voglia di imbarcarci sui mezzi del trasporto collettivo (i quali andranno almeno in parte ripensati). Per spostarsi, gli italiani dovranno dipendere dalla mobilità individuale. Questo chiama in causa le tanto odiate compagnie petrolifere: sebbene i carburanti alternativi (dall’elettrico al metano) stiano conquistando crescenti fette di mercato, gran parte del parco veicoli esistente è alimentato a combustibili tradizionali (benzina e gasolio), frammisti a biocarburanti. Il greggio soddisfa circa il 41 per cento della domanda globale di energia e il 35 per cento di quella europea e italiana (anche se noi non vogliamo estrarre quello che il buon Dio ci ha messo sottoterra). Non è pensabile, in tempi ristretti e in un anno di feroce recessione, raggiungere il livello di infrastrutturazione necessario per disseminare la Penisola di colonnine e spingere le persone ad acquistare un veicolo elettrico. Quindi, ogni giorno dovremmo ringraziare quei silenziosi eroi che si recano nelle raffinerie o gestiscono i depositi e mantengono impianti di distribuzione e ci permettono di fare il pieno a un prezzo tutto sommato contenuto (il grosso della spesa, naturalmente, va allo stato sotto forma di accise e Iva).
Nelle aree più densamente popolate, è impensabile che tutti si muovano con l’auto di proprietà, se non vogliamo rimanere bloccati nella congestione o alla ricerca di un parcheggio. Dobbiamo quindi promuovere modalità alternative per spostarsi. Da anni vietiamo di operare alle piattaforme di condivisione come Uber, che permettono a chi deve muoversi di approfittare dell’auto di conducenti non professionisti. Questa possibilità è stata bloccata da una sola ragione: l’opposizione della corporazione dei tassisti. Cedere al ricatto delle auto gialle è un lusso che non possiamo più permetterci.
Guardiamo in basso, sotto i nostri piedi. Asfalto, cemento, acciaio, intrichi di cavi, materiali plastici, tubi, sono lo scheletro della nostra civiltà e del nostro modo di vivere. Esistono perché, ogni giorno, milioni di lavoratori mischiano il loro impegno col capitale organizzato dagli imprenditori, i quali rischiano i propri beni e la propria reputazione per soddisfare la domanda delle persone. La misura del loro successo – i profitti – non è lo sterco del demonio: è la prova che ci hanno dato qualcosa di cui sentivamo l’esigenza, e lo hanno fatto meglio degli altri. Verrà il tempo per fare ordine intellettuale e culturale tra i tanti pregiudizi che hanno alimentato le nostre politiche economiche e industriali. Ora chiediamoci quale sia il materiale più adatto per lastricare la metaforica strada che ci porti lontano dall’incubo che stiamo vivendo. Per storia ed esperienza, sappiamo che le buone intenzioni non si prestano. Ma l’ingegno umano e la libertà economica possono aiutarci.
Che fare?
Per uscire dalla crisi indotta dal coronavirus (e, in parte, dalla nostra risposta al coronavirus) dobbiamo capire che l’economia è un ecosistema: se vogliamo che prosperi, serve ossigeno. Occorre liberare gli spiriti animali del mercato, troppo a lungo scacciati come se fossero delle fiere da cui guardarsi o costretti a vivere in cattività.
Lo stato ha una parte cruciale: tutelare i più deboli, tamponare l’emergenza, garantire le cure sanitarie, soccorrere le imprese in crisi di liquidità e a secco di fatturati. Dovrà spendere molto e fare debito (lo ha scritto Mario Draghi, papale papale). Assieme a interventi condivisibili – quali la sospensione o riduzione delle imposte – ci saranno infiniti rivoli di spesa improduttiva e clientelare (citofonare Alitalia). Forse alcune imprese saranno nazionalizzate senza un motivo. Altre saranno assoggettate a vincoli o divieti più o meno comprensibili e raramente efficaci. Tutto ciò va evitato. E’ importante fare un uso ragionevole del denaro dei contribuenti presenti (le tasse) e futuri (l’indebitamento). Ma è ancora più importante spingere perché siano rilassati – possibilmente a tempo indeterminato – quei vincoli regolatori che fanno del nostro paese la cenerentola di tutte le classifiche internazionali sulla qualità della regolamentazione e del settore pubblico. Lo stato deve svolgere bene le funzioni per le quali esiste e da cui trae legittimità. Nel passato sprechi e inefficienze erano motivo di indignazione: oggi rappresentano un insulto per quei lavoratori e partite Iva che, nonostante tutto, ancora si recano al lavoro per consentire a noi di restare tappati a casa. E a quelli che sperano di poter tornare in fabbrica o in ufficio il prima possibile, perché sanno che non solo di epidemia, ma anche di fame, si muore. Ed è questa la domanda che dovrebbe ossessionare chi occupa cariche politiche: come attuare una riapertura graduale della nostra vita economica e sociale? Per citare Michele Boldrin: come passare da uno stato che “chiude, proibisce e punisce sulla base di improvvise ed erratiche decisioni” a uno che “informa pacatamente ed esaurientemente, supporta e aiuta le persone contagiate o vulnerabili e utilizza le sue risorse per aiutare i cittadini che cercano di continuare a lavorare e produrre per il bene collettivo”?
Gli orari di apertura degli esercizi commerciali: abbiamo passato mesi
e mesi a discutere di quanto fosse estraniante la pretesa di tenere alzata
la saracinesca 24 ore al giorno. Solo adesso ci accorgiamo che spalmare
gli accessi su un periodo di tempo più lungo tutela clienti e lavoratori
Facciamo alcuni esempi. C’è una cosa ovvia, che peraltro in parte è già stata esplorata, ma di complesso disegno: lo stato deve offrire protezione a lavoratori e imprese. Agli uni – per mezzo di strumenti quali la cassa integrazione e il reddito di cittadinanza, opportunamente modificati – sostegno al reddito e formazione per facilitare transizioni professionali. Alle altre liquidità e dilazioni (o cancellazioni) fiscali. Senza fare figli e figliastri – dipendenti contro autonomi, grandi contro piccole imprese, dipendenti pubblici contro privati, Alitalia contro il resto del mondo – e senza voler salvare tutti e sempre a tutti i costi. Non bisogna sottrarre al fallimento quelli che non hanno le gambe per camminare, ma neanche condannare alla scomparsa coloro che, al netto di Covid-19, avrebbero avuto i bilanci in ordine. In sintesi: in questo momento prevenire l’azzardo morale non dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione, ma neppure il nostro ultimo pensiero.
Altri interventi sono tecnicamente semplici, almeno in principio, ma politicamente difficili. Forse la disperazione può riuscire dove la ragione non è, nel passato, risultata convincente. Partiamo da un caso concreto: nelle scorse settimane, diverse imprese si sono impegnate a riconvertire le proprie produzioni verso beni oggi indispensabili, come le mascherine e i ventilatori per le postazioni di rianimazione. Tuttavia, ancora non possono immetterli in commercio perché mancano timbri e carte bollate (che in altri paesi arrivano in pochi giorni). Queste lungaggini non sono tollerabili. La pubblica amministrazione si deve dotare del capitale fisico e umano per agevolare il lavoro delle imprese, costi quel che costi. Se servono computer, software o corsi di formazione, lo si faccia: nel mare magnum della spesa pubblica, saranno soldi ben impiegati. Anche perché la disponibilità di tali dispositivi è la condizione imprescindibile per tornare ad aprire gli stabilimenti e i luoghi di lavoro.
Proprio per questo, i sindacati giocano una parte cruciale: possono agevolare o ostacolare i cambiamenti, nel pubblico e nel privato. Vanno sfidati a disegnare procedure di sicurezza più robuste, per evitare che si rifugino (come attualmente sono) nel pertugio degli scioperi e delle chiusure precauzionali, che in troppi casi rischiano di diventare definitive. I tecnici dei ministri Stefano Patuanelli e Nunzia Catalfo sono da giorni occupati, assieme ai rappresentanti sindacali e datoriali, a stilare assurde liste di codici Ateco. Invece dovrebbero dedicare ogni risorsa a disegnare procedure non solo per svolgere il lavoro, ma anche per accedere alle fabbriche e agli uffici in modo scaglionato e, per quanto possibile, con mezzi individuali. Se mai il sindacato ha avuto un’opportunità di tornare socialmente utile, è adesso. Bisogna organizzare il ritorno al lavoro a partire dai gruppi potenzialmente meno esposti (i giovani e le donne) e sfruttare lo smart working ovunque ciò sia possibile. Nulla di tutto questo può essere fatto senza collaborazione e senso di responsabilità delle parti sociali.
Abbiamo detto che, per promuovere l’igiene pubblica, il settore delle consegne a domicilio e la condivisione dei mezzi di trasporto privati diventano strategici. Peraltro, si candidano ad attrarre persone che, purtroppo, perderanno il lavoro e certo non possono restare in cassa integrazione a tempo indeterminato. E’ doveroso eliminare tutti quei cavilli, alcuni peraltro di recente introduzione, che azzoppano le piattaforme, dalla regolamentazione del food delivery agli ostacoli al car sharing e al ride sharing. Non basta: l’uso più intenso di internet presuppone una maggior diffusione degli strumenti di pagamento elettronici, inclusi quelli innovativi. Molti italiani ne sono sprovvisti, specie tra i gruppi a rischio, come gli anziani. Le procedure di identificazione a distanza vanno semplificate, per salvaguardare le finalità antiriciclaggio senza imporre inutili gravami burocratici.
Alcune attività, come alberghi e ristoranti, da settimane sono chiusi de jure o de facto. Hanno davanti un futuro cupo: anche quando le restrizioni cominceranno a rilassarsi, passerà del tempo prima che gli italiani (e gli stranieri) tornino ad avere la fiducia e la spensieratezza di prima. Possono comunque svolgere un ruolo, specie nei comuni con la massima densità di casi. Infatti, è verosimile che – almeno fino all’arrivo di un vaccino – continueremo a vivere con periodici allentamenti o irrigidimenti dei divieti. Alcune categorie di persone, come gli anziani, gli immunodepressi e i malati lievi di Covid-19, dovranno passare giorni, settimane o mesi quasi senza contatti diretti con gli altri. Questo è spesso incompatibile con la nostra struttura sociale (basata sulla collaborazione inter-generazionale e in alcuni casi la famiglia allargata) e con la dimensione di molte abitazioni. Almeno transitoriamente, i ristoranti possono far funzionare le proprie cucine e gli alberghi (e le piattaforme quale Airbnb) ospitare le persone da tenere in isolamento, in un contesto confortevole e garantendo la necessaria sicurezza. Se anche parte del costo fosse sostenuto dallo stato, questo consentirebbe di alleggerire la pressione sugli ospedali ed evitare di esporre persone debilitate ad altre patologie.
Gli italiani hanno investito gran parte dei loro risparmi nel mattone. Le partecipazioni societarie perdono valore, e anche se ci sarà qualche rimbalzo ci vorrà molto prima di tornare ai livelli precedenti. Le imprese non si sono mai trovate di fronte a una crisi di liquidità come quella che rischiano di attraversare o che già stanno attraversando. L’efficacia e la capacità innovativa del sistema finanziario è uno snodo nevralgico per uscire dalla crisi. E’ dunque necessario che, in tempi rapidi, il governo e i regolatori, ciascuno negli ambiti di sua competenza, individuino strumenti per promuovere l’innovazione finanziaria e assicurativa e canalizzare il risparmio verso l’economia reale. Non bastano le citate misure di sostegno pubblico. Il fintech e l’insuretech sono ambiti vitali in tutto il mondo. Anche nel nostro paese ci sono esperienze incoraggianti. Possono aiutarci a finanziare la ripresa, se sapremo aprire le maglie senza esitazione, affiancando nuovi soggetti e prodotti a quelli tradizionali.
Qualunque intervento (inclusa la spesa pubblica) deve muovere da un presupposto: abbiamo bisogno di mettere benzina nel motore del sistema produttivo e industriale. Dobbiamo serrare i legami col resto del mondo e mantenere la posizione nelle catene del valore. Dobbiamo metterci in condizione di seguire le nuove regole comportamentali per avere una vita sociale e lavorativa compatibile con l’esistenza del coronavirus. Dobbiamo sostenere il settore manifatturiero, anche evitando di gravarlo di costi diretti (le tasse) e indiretti (gli oneri parafiscali sull’energia e gli eccessi burocratici). Finora le nostre imprese hanno tenuto botta nonostante lo stato, adesso è il momento che l’apparato pubblico diventi parte della soluzione. L’argomento è, in fondo, più empirico che teorico: qualunque cosa si pensi della capacità innovativa dello stato, in Italia abbiamo una tradizione di tutt’altro segno. Dobbiamo riscoprire lo spirito capitalistico e la fame di innovazione che altri hanno e che nel passato pure noi abbiamo avuto. Dobbiamo restituire allo stato la funzione che gli è propria: costruire una cornice di regole razionali, garantirne l’attuazione in modo puntuale e supportare chi si trova transitoriamente in difficoltà. Chiedere al pubblico di approfittare della situazione per prendere la guida del settore privato – come chiedono Mazzucato, Pauli e altri – è sbagliato in generale, sarebbe disastroso adesso. Atro che capitalismo clientelare e stato impiccione: c’è assoluta urgenza di un capitalismo coraggioso e uno stato efficiente.
Lasciamoci alle spalle i pregiudizi anti-industriali che ci siamo concessi il lusso di coltivare. Si esce dalla crisi con l’industria. Si esce dalla crisi col dinamismo imprenditoriale. Si esce dalla crisi con la tenacia di, e il rispetto verso, chi ha competenze, le mette in pratica, sa fare il suo mestiere e comprende i propri limiti.
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