I limiti del modello “ospedalecentrico”
La risposta italiana al coronavirus, integralmente basata sulla rete ospedaliera, ha alcuni evidenti aspetti negativi (circa il 10% dei contagi è nell’ambito degli operatori sanitari). Forse è il caso di modificare il nostro approccio
Un gruppo di medici guidati da Mirco Nacoti ha pubblicato lo scorso 21 marzo su una sezione digitale del New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste scientifiche in ambito clinico, un articolo sulla loro esperienza in prima linea all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, tra i più moderni e funzionali in Italia.
Allo stremo delle loro forze, sfidati dai numeri impressionanti di un focolaio critico e all’inizio sottovalutato, si interrogano se il modello sanitario italiano, di cui la Lombardia è un esempio di eccellenza, basato sulla centralità dell’ospedale nella gestione del paziente sia la risposta più efficace all’emergenza pandemica.
Nell’attuale situazione, la risposta integralmente basata sulla rete ospedaliera mostra alcuni evidenti aspetti negativi. Una quota vicina al 10% del totale dei contagi rilevati è nell’ambito degli operatori sanitari (medici, infermieri, tecnici), per i quali sono infatti state previste e vengono continuamente modificate regole specifiche di sorveglianza sanitaria.
Il problema che si genera è duplice: da un lato perdiamo il contributo di professionisti in prima linea, dall’altro esponiamo categorie fragili (i pazienti ospedalieri, ma anche le famiglie degli operatori) ai cosiddetti super diffusori del virus.
D’altro canto in Italia stiamo ricoverando quasi il 50% dei contagiati noti (cioè quelli a cui è stato fatto un tampone risultato positivo), un numero molto elevato, superiore in percentuale a quello degli altri paesi europei impegnati nella battaglia al virus. In un Paese come il nostro, con un numero contenuto di letti per mille abitanti (meno della metà di quelli disponibili in Germania), e una situazione anagrafica sfavorevole (16% della popolazione sopra i 70 anni, la percentuale più alta in Europa), ogni letto è preziosissimo.
La Corea del sud ha deliberatamente scelto di fronteggiare l’emergenza Covid 19 utilizzando al massimo l’autoisolamento domiciliare, con sistemi evoluti di sorveglianza sanitaria a distanza, oltre che con il noto e dibattuto tracciamento digitale dei contatti avuti dagli infetti. Questa scelta deriva dall’esperienza specifica che il paese asiatico ha sviluppato nel gestire l’emergenza Mers (non a caso un altro coronavirus) nel 2015. In quella circostanza, come pubblicato su riviste scientifiche, il 98% dei contagi avvenne proprio all’interno di ospedali, o tra ospedale e ospedale.
È opportuno chiedersi se non occorra modificare il nostro approccio “ospedalocentrico”, pensando a nuovi modi per gestire il contagio, anche nel medio periodo. Una prospettiva di community care, di gestione della salute collettiva sul territorio, appare necessaria e complementare.
Ce lo ricordano contemporaneamente la Fimmg (Federazione dei Medici di Famiglia) e il presidente dell'Ordine dei Medici Italiani Filippo Anelli, quando chiedono strumenti, come i pulsossimetri, per una più efficace gestione a domicilio dei contagiati in isolamento fiduciario.
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