Niente tamponi a tappeto, ma nemmeno “patente d'immunità”
Test diagnostici e sierologici. Dei primi non ne abbiamo abbastanza, dice il Consiglio superiore di sanità, ma anche per i secondi non abbiamo le tecnologie. Intanto le regioni si organizzano da sole
Roma. Scenario ipotetico. Un paziente anziano ricoverato da diversi giorni in medicina generale sviluppa una polmonite. Un’infezione che potrebbe essere stata causata da moltissimi fattori, ma come da protocollo gli viene fatto il tampone. Risulta positivo. I quattro infermieri dei tre turni – dodici persone – più un paio di medici che sono stati a contatto con il paziente vengono isolati in attesa dei primi risultati dei tamponi, cui seguiranno altri due test. Nel frattempo però quelle quattordici persone sono state in ospedale e a casa, da potenziali contagiati hanno toccato altri pazienti e altri operatori sanitari. E per avere i risultati di quei test ci vuole sempre più tempo, almeno 24 ore nella regione Lazio, vista la mole di lavoro affidata ai laboratori che eseguono la Rt-Pcr, il test diagnostico più efficace per i virus.
La trasmissibilità negli asintomatici è ancora oggetto di dibattito nella comunità scientifica, come è scritto nel Documento relativo ai criteri per sottoporre soggetti clinicamente asintomatici alla ricerca d’infezione da SARS-CoV-2 attraverso tampone rino-faringeo e test diagnostico del gruppo di lavoro permanente del Consiglio superiore di sanità, redatto il 26 febbraio scorso: “E’ ragionevole ritenere che la carica virale presente nei soggetti asintomatici sia marcatamente inferiore rispetto a quella presente nei secreti di soggetti con sintomatologia pienamente espressa”. Sui “tamponi a tappeto” quindi ci sarebbero ancora dubbi, nonostante la convincente esperienza sudcoreana – che testando e isolando è riuscita a contenere i focolai – e diverse opinioni autorevoli (l’ultima di Devi Sridhar, direttrice del Global Health Governance Programme dell’Università di Edimburgo, che su Foreign Policy la scorsa settimana scriveva “Senza i test di massa, il coronavirus continuerà a diffondersi”).
Il 9 marzo scorso il ministero della Salute ha emesso una circolare che cambiava i criteri con i quali si possono richiedere i test diagnostici – circolare che ricalca esattamente le direttive del Centro per la prevenzione e il controllo delle Malattie infettive dell’Ue. Prima si facevano solo a chi aveva almeno due sintomi tra tosse, febbre e difficoltà respiratoria e che avesse avuto contatti diretti con contagiati (o avesse soggiornato nelle cosiddette aree a rischio, cioè ormai in Italia). Poi si è iniziato a testare chiunque avesse un’infezione respiratoria acuta (cioè che abbia tosse, o febbre, o difficoltà respiratoria) e che sia stato a contatto con pazienti infetti.
I test diagnostici insomma stanno aumentando, e soprattutto negli ospedali, considerati ormai potenziali focolai, si fanno “con priorità” anche agli operatori asintomatici che siano stati a contatto con pazienti infetti senza le protezioni adeguate. Eppure nel documento del gruppo di lavoro del Consiglio superiore di Sanità si legge che “trasferire un numero elevato di campioni che risulteranno poi essere, nella larghissima maggioranza dei casi, negativi ai laboratori di virologia che, comunque, devono svolgere normale attività diagnostica per altri tipi d’infezioni virali a potenziale impatto negativo sulla salute dei cittadini, non sia scientificamente giustificabile e rischi di esitare in un danno per altre priorità sanitarie di ordine virologico/infettivologico”.
E infatti fino al 20 marzo i laboratori per diagnosticare il Covid erano esclusivamente quelli accreditati dall’Istituto superiore di Sanità: 43. In Lombardia 3, nel Lazio uno (lo Spallanzani). Adesso, soprattutto dopo le pressioni delle regioni del nord Italia, sono arrivati a 126. L’altro ieri in Italia sono stati eseguiti 477.359 tamponi, che diviso i 126 laboratori attualmente attivi tramite l’Istituto superiore di sanità fanno, di media, 3.788 analisi al giorno per laboratorio. In Corea del sud sono attivi seicento aree test, e a pieno regime se ne facevano duecentomila al giorno. Ora che il ministero della Salute ha dato alle regioni mano libera sui test, dopo Lombardia e Veneto, ieri anche l’Umbria ha annunciato “i test a tappeto”. Le regioni fanno da sole.
E il team di lavoro operativo del ministero della Salute? Lancia la campagna dei test sierologici. Ieri durante la conferenza stampa “alternativa” a quella della Protezione civile, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, ha detto esplicitamente che i tamponi diagnostici sono “in numero limitato”, e questo è un fattore limitante. Quindi – nel mezzo di una pandemia che ha l’Italia come focolaio maggiore – si sta “mettendo a punto una tecnologia per i test sierologici”. Che però non servono a isolare i malati o gli infetti, ma a identificare chi probabilmente ha avuto la malattia e ha sviluppato gli anticorpi. E non è ancora certo che chi ha avuto il Covid risulti poi immune. Alla conferenza stampa c’era anche Ranieri Guerra dell’Oms, e ha spiegato che sui test sierologici non v’è certezza, nel senso che non servono per capire se uno ha il virus o no, ma soltanto a sapere se probabilmente lo ha avuto poco meno di un mese prima. E’ insomma una retrospettiva: “L’affidabilità sulla capacità di identificare i casi negativi è elevata, quella sui positivi, cioè su quelli che hanno anticorpi, è del 60-70 per cento nei casi migliori. Questi test non funzionano per la diagnosi o come procedura per il ritorno al lavoro o per l’esenzione dalla quarantena, però possono dirci quanto si è diffuso il virus”. Brusaferro incalza: “La parola chiave è sperimentazione”. Insomma una “patente d’immunità”, come l’hanno definita, che però ancora non esiste.
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