Come se ne esce
Un rapporto americano affronta la crisi in modo pratico, le sue soluzioni somigliano alle proposte italiane
Roma. L’American Enterprise Institute è un think tank americano conservatore – tendenza repubblicana ma non trumpiana per intenderci – e ha pubblicato un paper dettagliato che spiega passo per passo come si esce dalla crisi pandemia. I numeri contenuti nel rapporto sono tarati sugli Stati Uniti e non vanno bene per l’Italia. Tuttavia, le proposte del paper americano assomigliano alle proposte che in queste ore circolano anche da noi, a dimostrazione che nella crisi globale la soluzione se proprio non è globale è molto simile di paese in paese. Il rapporto del think tank americano suggerisce di dividere la crisi in tre fasi. La prima è quella che stiamo vivendo anche noi adesso, l’isolamento sociale per bloccare la strada al virus, ridurre il numero di contagi e salvare il sistema sanitario. Il paper distingue tra fase uno dura, quella dello stay at home, e fase uno meno dura, quella “slow the spread”, rallenta il contagio: non si rimane chiusi in casa ma non ci sono più occasioni di aggregazione. Dopo la fase uno c’è la fase due, è quella della riapertura sperimentale, si apre in modo progressivo con un occhio sempre ai numeri per tornare alla fase uno in caso di emergenza. La fase tre è quella del ritorno a una nuova normalità consapevole, che sarà un po’ diversa da prima – fino a quando non ci sarà una cura e anche dopo.
Per la prima fase il paper raccomanda che negli ospedali ci sia un livello di prontezza prestabilito sotto al quale non scendere mai – anche perché occorre mettersi in testa che anche dopo la riapertura ci vuole poco a tornare alla fase uno versione dura: se il numero dei casi raddoppia ogni cinque giorni (o ancora più rapidamente, come succedeva in Italia a inizio marzo) oppure se le autorità decidono che vista la situazione è meglio far scattare l’emergenza perché si stanno riempiendo di nuovo i reparti di terapia intensiva. Il sistema sanitario deve avere almeno sette posti di terapia intensiva ogni diecimila adulti, almeno tre ventilatori polmonari ogni diecimila adulti e almeno trenta letti per ricoveri sub intensivi – e questo sono numeri minimi.
Scorte sufficienti di maschere N95, guanti e indumenti protettivi. Capacità di fare almeno 750 mila test a settimana – l’Italia è più piccola, ma non ha ancora raggiunto questo numero di test dall’inizio della crisi: ieri eravamo ancora a 721 mila. C’è una raccomandazione interessante: il paper dice che occorre approntare un grande numero di sistemazioni, come per esempio stanze di hotel, per le persone che eventualmente risultassero positive ai test e i loro contatti frequenti. Non deve essere un sistema coercitivo come in Cina – dove la gente era strappata dalle case e messa in lazzaretti – perché altrimenti le persone potrebbero sfuggire ai test, ma nemmeno deve essere un sistema come in Italia adesso dove molti malati sono costretti a restare isolati in una stanza nella stessa casa dove vive la loro famiglia. Se uno vuole, sa di avere una scelta e di poter passare un periodo fuori casa perché ci sono dei luoghi comodi, gratis e già organizzati per lui. Così può salvaguardare le persone che condividono la sua stessa casa, considerato che il virus è persistente e contagioso e ci sono probabilità alte di trasmissione. In Italia in questo momento ci sono più di sessantamila positivi in cosiddetto “isolamento domiciliare” e non hanno altri posti dove andare perché possono essere ricoverati in ospedale soltanto se le loro condizioni peggiorano. Se i casi di contagio diminuiscono per quattordici giorni di seguito, se gli ospedali riescono a prendersi cura di tutti i malati bene (non in modalità emergenza), se le autorità possono testare tutte le persone che lo chiedono e se possono rintracciare i loro ultimi contatti – perché hanno squadre apposite che se ne occupano – allora si può passare alla fase due, dice il paper. Nella fase due le scuole e la maggioranza dei luoghi di lavoro riaprono. Gli assembramenti sopra le 50 persone sono vietati e le persone con più di 60 anni devono limitare il loro tempo nella comunità. Il concetto cardine della fase due è: sorveglianza. Se ci sono casi che non possono essere collegati a casi già noti – quindi c’è un focolaio sconosciuto – oppure se i casi crescono in maniera sostenuta per cinque giorni di seguito o se la tenuta del sistema ospedaliero è a rischio, si torna indietro alla fase uno. C’è anche la questione dei test sierologici: occorre capire quanto dura l’immunità avverte il paper, ma è chiaro che sapere quanta parte della popolazione ha gli anticorpi per il virus è essenziale e gli immuni possono diventare una forza fondamentale per la ripartenza. Come per i test di positività, anche quelli sierologici devono essere disponibili in quantità enormi, accurati, rapidi e low cost.
La fase tre è quella che arriva quando sarà sviluppato il vaccino e dovrà essere prodotto su scala industriale e somministrato subito alle fasce più vulnerabili. Quindi per adesso non se ne parla nemmeno.