Crisanti, il “virologo di Vo'” che non tratta gli italiani da ragazzini
Il medico ha scelto la via del testare in massa: 3.300 test per gli abitanti di uno dei primi paesi della zona rossa
Roma. Chissà se una ventina di anni fa, quando approfondiva le sue ricerche sulle zanzare della malaria all’Imperial College di Londra, dove poi è diventato professore, avrebbe mai pensato, Andrea Crisanti, virologo e direttore dell’Unità complessa diagnostica di Microbiologia a Padova, che in un giorno del 2020, durante la crisi pandemica da coronavirus, sarebbe diventato per i media italiani “l’uomo di Vo’” (Euganeo), cioè lo scienziato che, nel Veneto ormai assurto a “modello diverso” nella gestione dell’epidemia (anche detto “Corea del sud italiana”), ha scelto la via del testare in massa: 3.300 test per gli abitanti di uno dei primi paesi della zona rossa, per scoprire quello che, all’inizio, in molti, dall’Oms in giù, non sottolineavano a suo avviso abbastanza: bisogna andare alla ricerca serrata dei positivi, ché gli asintomatici sono contagiosi, e a Vo’, come probabilmente ovunque, il numero degli asintomatici era altissimo (70 per cento).
E ora che l’esempio di Vo’ sta diventando caso da studiare e possibilmente replicare da un continente all’altro, e che gli estimatori di Crisanti crescono nel mondo scientifico e politico, il professore medesimo, in collegamento con varie trasmissioni tv (divulgare, a questo punto, può fare la differenza, è la speranza), ripete quello che in molti forse non si vogliono sentir ripetere: “Bisognava dire la verità fin dall’inizio e non quindici giorni alla volta”, ha dichiarato ieri mattina ad Agorà, su Rai3: “Si tratta di stare a casa due o tre mesi. La Nuova Zelanda ad esempio è stata chiarissima: quarantacinque giorni a casa, nessuno si muove. Gli italiani sono stati trattati da ragazzini. Ma è una questione di rispetto, e questa è una cosa seria”. E oggi, è chiaro, siamo lontani mille miglia dai tempi tranquilli in cui il professore, laureatosi alla Sapienza di Roma, poteva dedicarsi alle sue ricerche non soltanto in Gran Bretagna, ma anche in quel di Perugia, come direttore del centro di Genomica funzionale. Ma siamo anche vicini al punto di avvio della cosiddetta “fase 2”, che pare preoccupare non poco Crisanti, la cui parola d'ordine è: bisogna avere un piano.
Perché, se il piano non c’è, si rischia di ripartire dal via, come in un (tragico) gioco dell’oca: “Il vero problema”, ha detto, “è la ripartenza dell’epidemia, non dell’economia. Ora l’incidenza, cioè il numero di nuovi casi al giorno, non si riesce a calcolare perché mancano tamponi. E quindi non si può calcolare il rischio. Bisogna spostare il fuoco”, è il punto. “Cambiare metodo per calcolare l’incidenza, e considerare tutte le persone che chiamano e comunicano di avere sintomi Covid. Questo ci darebbe anche una dimensione geografica”, ribadisce, su schermi Rai e Mediaset (durante l’ultima puntata di Pomeriggio Cinque), lanciando la domanda chiave sottesa a ogni bollettino: abbiamo imparato la lezione? Abbiamo imparato a individuare ed estinguere i focolai? E la lezione è, dice, che la via verso la liberazione dal virus è lastricata di “stop and go”, motivo per cui la rimozione della misure previste deve essere graduale e modulata sulle situazioni locali; né si può prescindere dalla distribuzione su larga scala di dispositivi di sicurezza, dal rafforzamento sul territorio dei servizi di diagnosi, e dal monitoraggio dei luoghi di lavoro. E se, per riconquistare la mobilità, bisogna rinunciare in parte alla privacy, per garantire il tracciamento elettronico, beh, non si può avere tutto, è il concetto (sui test sierologici, invece, Crisanti attende le verifiche di idoneità). E il punto è prima di tutto quello che Crisanti dice, da professore in prima linea, ma anche il “come” lo dice. E “non trattate gli italiani da ragazzini”, così, con quella schiettezza stanca, durante la pandemia, non l'aveva ancora detto nessuno.
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