Come si batte un male
La malaria di ieri, il virus di oggi. Viaggio nell’Italia di 150 anni fa, preda del morbo portato dalle zanzare. Era un paese diverso, molto più povero e meno istruito di oggi, ma seppe rialzarsi grazie alla modernizzazione e alla ricerca. Qualche idea per il presente
Se ci sentiamo scoraggiati di fronte all’epidemia odierna, vale la pena e dà coraggio, e insegna molto, pensare a un’altra epidemia, non così lontana. Per introdurla dovete pensare o alla Bella Addormentata o a Cenerentola: così era definita l’Italia 150 e passa anni fa. La carta geografica della malaria, quella delineata nel 1882 dal senatore Luigi Torelli, parlava chiaro: delle 69 province della penisola solo Imperia (allora si chiamava Porto Maurizio) e Macerata non erano colpite. Fatti i conti degli allora 25 milioni di abitanti, 11 erano costantemente a rischio, e ancora, di questi ultimi, 2 milioni ogni anno contraevano il morbo e 15 mila morivano (anche se Giovanni Battista Grassi ritoccò questo dato in eccesso, 100 mila vittime). Un disastro. Le aree colorate indicavano le 3.300 aree malariche, e più o meno c’erano tutte: dalla valle del Po alla costa adriatica, poi l’Abruzzo fino alla Puglia, lungo tutta la costa tirrenica da Livorno alla Campania (con esclusione del golfo di Napoli), la Calabria e l’intera Sardegna, un terzo della superficie continentale.
I costi erano altissimi, tanto che lo stesso senatore Torelli, appunto, parafrasò la fiaba della Bella Addormentata: quella era l’Italia e bisognava risvegliarla. Altri medici però la paragonarono a Cenerentola, costretta a una miserevole esistenza da una matrigna cattiva: insomma l’Italia non tanto tempo fa.
C’è stato un altro momento nella nostra storia, durante il quale abbiamo patito una sofferenza (non da virus ma da plasmodio) e pur non affacciandoci ai balconi e nemmeno organizzando flash mob, siamo stati insieme e abbiamo sconfitto (con qualche aiuto esterno e chimico) la malaria. E sì, questa è la storia di una modernizzazione italiana (per rubare il titolo al bel libro di Frank M. Snowden, La conquista della malaria. Una modernizzazione italiana 1900-1962, Einaudi, su cui si basa questo articolo).
Illustrazione di Makkox
Il fatto è che le cronache dei viaggiatori del tempo raccontavano davvero di un paese addormentato, persone afflitte dal morbo, sdraiate ai bordi delle strade, incapaci di alzarsi, e poi alta mortalità infantile e bassa aspettativa di vita, specialmente delle fasce più povere, cioè una buona parte degli italiani (anche se pure il conte di Cavour morì di malaria, e i salassi che gli praticarono in piena febbre peggiorarono le cose).
Giusto per delineare un quadro socio-economico, se prendiamo il sud ed esaminiamo l’anno in cui i Borbone furono (finalmente) deposti (1861) è interessante esaminare alcuni parametri che lasciarono in eredità: l’86 per cento di analfabeti (dato 1861, che si avvicina a quello della Russia zarista). Nella Spagna la quota di analfabeti era del 75, mentre il Piemonte e la Lombardia stavano sul 50 per cento e la Liguria al 35: si poteva intravedere sul nascere il triangolo industriale.
Nella carta geografica delineata nel 1882, delle 69 province della penisola solo Imperia e Macerata non erano colpite. Le cronache del tempo raccontano di persone afflitte dal morbo sdraiate ai bordi delle strade, incapaci di alzarsi
Sapevano leggere e scrivere solo preti aristocratici e qualche borghese. Nessuna donna sapeva leggere e scrivere. “In una società – scriveva Emilio Sereni – in cui l’agricoltura costituisce la fondamentale attività produttiva, l’esclusione della donna dal lavoro dei campi comporta una sua netta inferiorità sociale. Questa si manifesta chiaramente nel regime ereditario e soprattutto nella totale subordinazione della donna all’uomo, il marito è difatti non solo il capo incontestato della famiglia ma il signore, il padrone della donna”. Mettiamoci, visto che ci siamo, anche le famose ferrovie: i Borbone avevano costruito la prima linea, la Napoli-Portici (1839), lunga sette chilometri e prolungata, negli anni seguenti, fino a Castellammare e Pompei. Perché fu costruita? Perché nel 1738 Carlo III di Borbone – il più illuminato, stando a Benedetto Croce – aveva deciso di edificare la sua residenza estiva a Portici, ora sede di Agraria. Nella pratica appena un secolo dopo si diede il via alla linea ferroviaria così che la famiglia reale si potesse spostare verso il mare. Insomma: la ferrovia serviva ai ricchi (nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri, quella di Piemonte e Liguria di 850; di Lombardia e Veneto 522, della Toscana di 258. Pure il papato superava i Borbone, con 101 chilometri).
“La metà degli abitanti del Regno delle due Sicilie – scrive Emanuele Felice – viveva sotto la soglia della povertà, le classi popolari lottavano per sopravvivere, se non potevano mandare i loro figli a scuola, non avevano neppure speranza di riscatto, tanto meno si poteva avviare un qualche meccanismo virtuoso di crescita economica. Ma al sud viveva anche una minoranza agiata, doveva essere molto agiata, se è vero che innalzava il pil medio su livelli più alti di quanto ci si aspetterebbe dagli indicatori sociali. Specie in Campania, dove si concentrava nei palazzi dell’antica capitale. E non pare che questa élite di aristocratici e borghesi fosse particolarmente viva sul piano imprenditoriale e sociale”.
E poi in aggravio o come conseguenza dello status quo, al sud e al nord c’era la malaria. Addormentava tutti, chi più chi meno.
Geolocalizzazione di fine ’800. I medici cominciarono a cercare gli ammalati casa per casa, annotarono ogni dato utile, compilarono accuratissimi registri, identificarono le zone più povere
La malaria. Dopo un periodo di latenza (7-10 giorni dall’esposizione) arrivavano le febbri con i famosi e tristi picchi, brividi, sudorazioni, cefalea, vomito, diarrea, delirio. Nei casi maligni morte per coma, stress respiratori o anemia profonda. Nei casi benigni, il morbo causava menomazioni croniche, splenomegalia (ingrossamento della milza), deperimento, anemia e rischio di degenerazioni in cachessia.
Per usare le parole del medico Giuseppe Caraffa: “Il cachettico, caduto in una grave anemia, presenta un colorito terreo della cute, un forte dimagrimento, il ventre tumido, lo sguardo languido, è debole, torbido, apatico, si affanna col movimento, e ha disturbi nervosi, emorragie dal naso e dalle gengive, inappetenza, diarrea”.
Quindi, alla fine, visto lo stato cronico di deperimento, che vuoi lavorare? Per tornare alla questione meridionale: “La malaria è la chiave di tutti i problemi economici del meridione e delle difficoltà croniche del settore agricolo italiano”, così disse l’allora ministro dell’Agricoltura (in carica dall’ottobre 1917 al gennaio 1919) Giovanni Battista Miliani (agronomo e naturalista, pubblicò nel corso degli anni saggi sulla forestazione, sui pascoli, sull’agricoltura, sulla speleologia).
Ma la malaria era strafottente dei confini geografici. Secondo i dati di Eugenio Di Mattei, alla vigilia della Grande guerra l’aspettativa di vita media dei braccianti agricoli nelle regioni italiane non colpite dalla malaria si aggirava intorno ai 35,7 anni, nelle aree malariche scendeva a 22,5 anni (Mattei era uno di quei medici consapevoli dell’ignoranza pressoché completa della popolazione nei confronti delle malattie e soprattutto della noncuranza dei medici, che operavano con indifferenza verso i problemi epidemiologici e profilattici. Sono interessantissimi e molto commoventi i suoi scritti, tra cui I lavoratori della terra e L’igiene sociale, utile lettura per tutti quelli che apprezzano il pane e i contadini di ieri ma solo perché mangiano comodamente il pane degli agricoltori di oggi).
Zanzara e malaria, lo sappiamo, vanno insieme, ma allora, al tempo, la zanzara se ne stava buona buona. Nel decennio 1870-80, andava di moda la teoria miasmatica: insomma, avvelenamento dell’aria.
Cosa l’avvelenava? Le ipotesi non concordavano: una sostanza chimica prodotta da materiale organico in decomposizione nelle acque paludose? Oppure microscopici organismi trasportati dal vento e dunque capaci di arrivare molto lontano (cosa che spiegava l’enorme diffusione della malaria)? Fu un medico francese, Alphonse Laveran, che osservando al microscopio il sangue delle persone infette – in Algeria nel 1878 – notò la presenza degli strani corpi pigmentati. Due anni dopo, nel novembre del 1880, scoprì un parassita a cui diede il nome di Haemamoeba malariae, l’agente della malaria. Poi due medici italiani (e qui inizia la storia tutta italiana, la celebre scuola di malariologia romana), Ettore Marchiafava e Angelo Celli, guardarono con più attenzione (cioè con microscopi più potenti) e il parassita di Laveran fu meglio identificato: Plasmodium, e fu universalmente accettato come agente della malattia. Per inciso, l’esperimento che portarono a termine, vista l’epoca, non seguiva nessun protocollo etico. Molto semplicemente e brutalmente: il sangue infetto (con plasmodi) venne iniettato in pazienti sani: si ammalarono, dunque i plasmodi c’entravano.
Poi arrivò Camillo Golgi, che studiando il ciclo del parassita notò la corrispondenza tra febbri terzane e la moltiplicazione dei parassiti (si annidavano nei globuli rossi e si moltiplicavano per scissione). E tuttavia – anche se la teoria miasmatica perdeva terreno – la zanzara non era ancora protagonista. Finché Giovanni Battista Grassi tirò in ballo le zanzare anofele (nel 1876 Patrick Manson capì che le zanzare sono veicoli di trasmissione dell’elefantiasi). Anche Grassi fece un paio di esperimenti, diciamo così, non proprio a norma: i suoi collaboratori catturarono un po’ di esemplari di zanzare anofele presso la foce del Tevere, lasciarono che si nutrissero del plasmodio e poi liberarono gli insetti in una stanza chiusa dove c’era un volontario sano: che si infettò. Più chiaro di così.
A quel punto bisognava dimostrare che le zanzare erano le uniche responsabili e che non c’erano altri mezzi di trasporto, come i vapori miasmatici. Allora fecero un altro test, questa volta nella piana del Sele, a Capaccio (nel salernitano), una delle più famigerate zone malariche del continente (ora è bello percorrerla e vedere le coltivazioni orticole in campo e sotto serra): 112 volontari sani, scelti tra addetti alla ferrovia e loro familiari, che potevano muoversi liberamente durante le ore del giorno, ma durante il tramonto erano costretti a rimanere nelle abitazioni, protette da reti anzi-zanzare. Quindi i (fantomatici) vapori miasmatici potevano entrare, le zanzare no. Risultato? Di quelli protetti se ne ammalarono solo cinque, ma in forma lieve (avevano infranto il regolamento ed erano usciti dopo il tramonto, una sorta di violazione a un #iorestoacasa, ma a metà) mentre del gruppo di controllo, i 415 contadini e braccianti non protetti, ecco, quelli si ammalarono tutti.
I medici fecero di tutto per raggiungere quella parte della popolazione povera e dunque più esposta al plasmodio. Il chinino di stato e le basi della medicina preventiva e sociale. L’opera dei volontari, soprattutto donne, il ruolo delle maestre. L’istruzione come fattore più importante della campagna antimalarica
La zanzara era tra noi e cominciava a dare molto fastidio. Da allora, e questa è la parte edificante della storia, l’Italia si mobilitò contro la zanzara. Che detto così sembra poca cosa. In realtà una parte della nazione prese molto a cuore le questioni povertà e ignoranza, e come un effetto domino le brutte abitazioni e le paludi, che ne erano l’espressione più ovvia. Come veniva evidenziato in alcune discussioni parlamentari che seguirono la famosa inchiesta di Stefano Jacini (Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia, avviata con la legge 15 marzo 1877), l’aspetto più preoccupante che la malaria evidenziava era la questione sociale, e quella della sanità pubblica nazionale, dunque, in sintesi, le abitazioni.
Il museo storico Piana delle Orme, a Latina, ne ha ricostruita qualcuna. Tuguri, niente altro da dire, capanne in fango e tetto in paglia e letame. Bisognava dunque, anche per garantire una sana profilassi, pensare alle abitazioni. Che almeno fossero normali, e cioè solide e con buone murature, finestre regolari, interni intonacati di bianco (altrimenti le zanzare non si vedevano). Durante l’apice della stagione epidemica, milioni di contadini, braccianti e pastori dormivano in abitazioni in fango e paglia: zanzare a go go (alcuni dormivano, invece, direttamente nella caverne, come i lavoratori di Grottarossa).
Alle abitazioni in fango corrispondevano problemi sanitari e l’ignoranza generava altri problemi. Per questo vennero fondate le stazioni sanitarie rurali, e proprio nelle zone calde. Le prime cinque furono aperte a Roma nel 1874, poi diventarono sette nel 1876, 19 nel 1884, 25 nel 1912. Pensate cos’era il servizio sanitario locale: inesistente. Le principali sedi erano in città o nei grandi villaggi e una consistente parte della popolazione che viveva in campagna non vi aveva accesso, anzi nemmeno sapeva a cosa era dovuta la malaria.
Nelle stazioni rurali del nord (Verona fu in prima fila e quella stazione diventò il modello per le altre), dunque, i medici cominciarono a cercare gli ammalati casa per casa, annotarono ogni dato utile (non era più il tempo di report fondati su impressioni personali ma di informazioni e misure, quelle soprattutto: bisognava analizzare i campioni di sangue, misurare l’ingrossamento della milza, e calcolare il numero di persone da sottoporre a cura), compilarono accuratissimi registri, identificarono le zone più povere, i tragitti che in genere i braccianti seguivano per recarsi al lavoro, visitarono gli alloggi dei braccianti al servizio dei latifondisti (inamovibili), e insomma siccome i poveri non andavano in clinica, le cliniche andarono dai poveri e le stazioni divennero così dei veri e propri ambulatori mobili, dislocati in loco, all’aperto (nei grandi latifondi) o nelle sagrestie delle chiese (dopo la messa domenicale), nei mercati, nelle feste rionali e nelle sagre popolari.
Appunto, la nazione si mobilitò, per svegliare la Bella Addormentata soprattutto. La classe medica fece di tutto per raggiungere quella parte della popolazione povera e dunque più esposta al plasmodio, tanto che il quotidiano socialista Avanti! descrisse il fenomeno come il più grande movimento della storia della professione medica: un immenso e altruistico programma mirato alla ricerca del contatto con la gente.
Poi, quando arrivò il chinino di stato, con molta probabilità si gettarono le basi della medicina preventiva e sociale, ovvero quella disciplina che voleva garantire assistenza e cura alla società nel suo complesso. Non solo con l’uso di strumenti medici ma soprattutto con riforme economiche per migliorare la sanità pubblica.
Da allora partì e si diffuse la crociata contro la malaria: e sì, perché i medici usarono molte immagini cristiane e si descrivevano come apostoli, francescani, pellegrini, incaricati di diffondere il Vangelo. Anche se poi l’orientamento politico dominante era di origine anticlericale, socialista e rivoluzionario: Angelo Celli, Tullio Rossi Doria, Pietro Castellino, Giuseppe Tropeano – tanto per citare alcuni nomi di punta – si rifacevano a Marx e Engels, e sostenevano che per sconfiggere la malaria era necessario garantire ai lavoratori un’adeguata istruzione, sufficiente nutrimento, condizioni igieniche idonee, giornate lavorative di otto ore e la possibilità di organizzarsi per poter difendere i propri diritti.
Poi accanto ai medici, ci furono i volontari, ed erano la parte più forte della storia. Donne, soprattutto: le maestre. Lasciarono le città per le campagne, affiancarono i medici e cercarono di convincere i contadini con grandi difficoltà a prendere le amare e costose pasticche di chinino, prodotte a Torino (prima della campagna antimalarica il chinino veniva venduto a un prezzo fino a dieci volte superiore al costo di produzione, poi dopo una serie di leggi speciali in sostegno alle regioni arretrate – Basilicata, Calabria, Sardegna – lo stato si impegnò ad alleggerire il carico di spesa che gravava sulle regioni assorbendo gran parte dei costi per l’acquisto).
Non sempre ci riuscirono, con il chinino. I contadini credevano fosse in atto un complotto ai loro danni (quando mai lo stato ci ha aiutato?), altri erano fatalisti: in fondo siamo solo contadini poveri (e braccianti e minatori e mondine) non abbiamo altra scelta che accettare la malattia, come accettiamo da millenni la fame e la sporcizia. Del resto cosa hanno insegnato in fondo in fondo i grandi profeti, con le loro sagge parole? Accettate questa vita con rassegnazione: arriverà poi la ricompensa. Avrebbero potuto fornirci una soluzione ai problemi agronomici, un suggerimento su un antibiotico, invece niente, anche loro erano figli della povertà e della rassegnazione, e alla fine i pani e i pesci li hanno moltiplicati per davvero gli agronomi e i chimici, mentre i potenziali morti li hanno resuscitati i medici.
Poi iniziarono i litigi, quelli tra farmacisti e medici: alla fine l’uso del chinino preventivo venne abbandonato e si cominciò a parlare di profilassi meccanica. Si capì infatti che il chinino era più efficace in alcuni stadi del ciclo vitale del plasmodio. Inoltre alcune persone non lo tolleravano, per non parlare delle controindicazioni, come dolori ed effetti collaterali che portavano molti ad abbandonare l’assunzione preventiva. Allora cambiò slogan: l’istruzione prima di tutto, diceva Ernesto Cacace, il pioniere delle scuole rurali contadine in Campania (L’insegnamento dell’igiene dell’infanzia e della scuola, per le madri e per maestri). L’istruzione era “il più potente fattore del gran moto e l’arma più sicura di trionfo” della campagna antimalarica in Italia.
Le scoperte della scuola di malariologia, quindi, dovevano confluire in un programma scolastico. Non bisognava solo insegnare alla popolazione a leggere e scrivere ma anche istruirla in materie come l’educazione morale e civile, la lingua italiana, i calcoli e l’aritmetica, l’agronomia pratica e geografica. Gli insegnanti seguivano i braccianti nelle loro migrazioni quotidiane e prestavano servizio nei pochi momenti in cui gli studenti erano disponibili, ossia la sera, la domenica e nei giorni di festa (conservo una antica foto, un gruppo di contadini, vestiti a festa, che ascoltavano maestri venuti a insegnare la sera del dì di festa).
Le lezioni di geografia per esempio: quale occasione migliore per spiegare quali fossero le zone malariche in Italia, raccontare i meccanismi di trasmissione e i metodi di profilassi? Secondo Cacace, per i contadini studiare la malaria era molto più utile che conoscere i sistemi di irrigazione e di avvicendamento delle colture, e nel 1913 i maestri della città curarono oltre 2.500 alunni della scuola elementare. Il Corriere delle Maestre tra le linee guide alla lotta alla malaria consigliava di affrontare i seguenti temi: la cura della peronospora, la gestione delle acque, la Costituzione, le elezioni, le faide, il concetto di perdono, le funzioni dell’organismo umano, il rispetto reciproco, l’igiene, la geografia, i raccolti, i pericoli derivanti dall’avidità e della tendenza allo sperpero, la cooperazione e le sue applicazioni, i doveri del sindaco e del comune, l’aritmetica e gli effetti del clima sulle piante.
E in quest’ottica, si potrebbe tracciare una linea che unisce il chinino ai diritti delle donne. Perché solo qualche anno più tardi toccò alle mondine combattere la guerra contro le zanzare (i termini risaia e malaria sono quasi sinonimi e la canzone Bella ciao nasce dalle risaie). I padroni di certo non pensavamo a migliorare la qualità degli alloggi (tutte a dormire ammassate negli stanzoni, una vera pacchia per le zanzare attratte dai corpi e dall’alta concertazione di anidride carbonica) né a garantire condizioni lavorative meno pesanti (se otto ore vi sembrano poche provate voi a lavorare e sentirete la differenza tra lavorare e comandare).
Le mondine ricevevano mezzo chilo di pane e due razioni di polenta. Metti la mancanza di acqua potabile, le paghe irrisorie, l’assenza di strutture per l’assistenza medica e dei normali impianti igienici, aggiungi che la maggior parte delle mondine proveniva dagli Appennini ed era dunque priva di qualsiasi immunità dalla malaria. Le mondine erano giovani donne, in età fertile, si ammalavano e trasferivano il morbo ai loro figli (con il risultato di un numero impressionante di aborti e malformazioni, e neonati con bassa aspettativa di vita).
Così, per raggiungere i braccianti e le mondine e aiutarli, i volontari (medici, sindacalisti, socialisti) si servirono ancora una volta delle scuole rurali. Si può dire che parte del movimento femminista e sindacale (e anche la musica folk italiana) sia nato per combattere simbolicamente la zanzara e tutti i danni che causava.
Del resto nell’area settentrionale delle risaie, la questione sociale, cioè il problema della condizione delle donne, e la lotta alla malaria confluirono in un unico movimento. Nel primi anni del Novecento, Anna Kuliscioff, Angelica Balabanoff, Maria Cabrini e Argentina Altobelli tennero una lunga serie di comizi pubblici, e per la prima volta ottennero l’attenzione della masse.
La lotta alla malaria si rivelò meno rapida del previsto e, anche se il numero di morti cominciò a scendere già dopo l’inizio della campagna antimalarica, la battaglia fu dura anche perché si sottovalutarono due fattori: l’impatto sociale dell’infermità dovuta alla malaria e il nesso di casualità tra povertà ed estensione della malattia. Durante la Prima guerra mondiale il chinino divenne irreperibile e lo stesso accadde durante la Seconda guerra mondiale.
In più la chiamata alle armi diretta soprattutto alla popolazione rurale tolse manodopera alle campagne e lasciò i canali di bonifica nell’incuria più totale, con donne, anziani e bambini indeboliti e privi delle difese immunitarie, e quindi più esposti al contagio. I tedeschi in ritirata fecero il resto: sferrarono un orribile (e documentato) attacco biologico su larga scala a Pontina, distrussero tutte le infrastrutture idrauliche e allagarono il comprensorio, apparentemente per fermare l’avanzata degli alleati. In realtà sapevano – gli scienziati tedeschi Erich Martini ed Ernst Rodenwaldt, consulenti dell’esercito tedesco, erano tra i massimi luminari di malariologia – che l’Anopheles labranchiae presente in Italia meridionale era l’unica specie che poteva proliferare negli acquitrini sia dolci che salmastri, e sapevano quindi che allagando l’agro Pontino avrebbero infettato la popolazione.
Solo nel Dopoguerra si è riusciti nell’impresa di sradicare la malaria grazie un approccio multiplo: Ddt (piani quinquennali di irrorazione del Ddt) e soprattutto il miglioramento della condizioni ambientali, la fine del latifondismo, l’introduzione di colture intensive nelle aree più soggette alla malattie, buona alimentazione, abitazioni migliori e, in breve, la classica e mai paga lotta alla povertà.
Ps. Se oggi vi dovessero chiedere, qual è l’animale che ammazza più persone? non fate come me, trattenete le prime risposte: lo squalo, i serpenti, i leoni ecc. No. Nelle prime posizioni ci sono ancora le zanzare, la malaria è ancora causa di morte nei paesi poveri: 500 milioni di persone all’anno contraggono la malaria e mezzo milione di persone soccombe all’infezione.
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