Cercansi reagenti disperatamente
Siamo entrati nella fase 2 senza la materia prima, e la richiesta del commissario Arcuri per i test per diagnosticare la positività al Covid-19 è stata lanciata solo l’11 maggio
Un altro problema del momento è la ricerca dei reagenti. Siamo entrati nella fase 2 senza la materia prima, e la richiesta del commissario Arcuri per i test per diagnosticare la positività al Covid-19 è stata lanciata solo l’11 maggio e difficilmente sarà la soluzione. Per venire incontro al fabbisogno urgente delle regioni i test “dovranno essere disponibili da subito” e “comunque entro un massimo di 15 giorni dall’accettazione dell’offerta”. Andiamo quindi ai primi di giugno, cercando di riparare in ritardo a ritardi precedenti e soprattutto sottintendendo che ci sia un’offerta che non trova domanda. I ritardi vengono da lontano: dalla scelta di non testare gli asintomatici, ribadita il 26 febbraio dal gruppo di lavoro del Consiglio superiore di sanità in un documento che, basandosi sulle indicazioni del ministero della Salute del 22 febbraio, cioè del giorno dopo la scoperta del paziente 1 di Codogno, definiva “il contributo apportato da potenziali casi asintomatici nella dinamica di diffusione epidemica” “limitato”. Quella indicazione ha provocato prima un ritardo quasi generalizzato e poi una impennata improvvisa della domanda di tamponi, a cui le aziende non riescono a rispondere. Con un risultato ricorrente delle situazioni di scarsità: il riflesso cieco delle accuse di accaparramento rivolte a chi ha invece l’interesse a produrre. “Stiamo facendo di tutto per produrre più test possibili e assicuro che li mettiamo tutti a disposizione”, dicono per esempio da Roche Diagnostics. “All’inizio i test non c’erano perché si basano sul Rna del virus e quindi c’è bisogno di conoscerne la sequenza genica”. Tuttavia il 4 marzo l’Iss aveva già una lista di 11 kit diagnostici, ora decine, e ora ha autorizzato anche i sierologici, che pure non garantiscono l’immunità. Per metterli a punto di solito servono anni, per il Sars-CoV-2 sono stati impiegati pochi mesi. I test variano però molto sia nell’offerta che nella domanda. Quando si fa un tampone, spiegano ancora da Roche Diagnostics, il prelievo viene fatto con un bastoncino che viene disciolto in un liquido dove c’è il virus. Ma a questo punto devo estrarre il suo Rna che poi può essere retrotrascritto, amplificato e rilevato. Ogni laboratorio può avere bisogno del materiale per l’estrazione o di quello per la “detection”, cioè la rilevazione dei geni. E poi non c’è coordinamento: ci sono regioni come Lombardia e Veneto che si occupano direttamente degli acquisti, altre in cui a comprare sono le aziende sanitarie. La call nazionale può essere utile a coinvolgere nuove aziende, magari i laboratori più piccoli, ma la maggioranza spiega di star già producendo alle massime potenzialità.
E poi c’è un secondo collo di bottiglia: i laboratori. Il 20 marzo erano 77 quelli autorizzati, ora tra pubblico e privato accreditato, sono saliti a qualche centinaio, dice Alberto Spanò, già direttore della microbiologia del Pertini di Roma e responsabile della dirigenza sanitaria dell’Anaao Assomed: “Ad oggi lavorano a pieno ritmo, anche se lo scenario sui test cambia in continuazione e stiamo scontando i ritardi della prima fase, ma c’è anche un problema di manodopera. Non abbiamo assunto i medici di laboratorio, servono biologi, medici di microbiologia e tecnici”. Gli adeguamenti di organico erano stati richiesti, ora scontiamo la mancata risposta. In mezzo a una crisi epidemica e senza un criterio comune sui test, i normali canali vengono rapidamente saturati. Immunologi come Antonella Viola dell’università di Padova hanno per esempio suggerito di coinvolgere altri centri di ricerca che possano convertirsi alle analisi dei tamponi. Il comune di Bergamo ha cercato di procurarsi macchinari almeno per automatizzare la diagnostica. Servono, insomma, conoscenza della situazione e soluzioni creative, bisogna pensare out of the box, per ora noi abbiamo scelto l’out of time, fuori tempo.