Commissario, giù la mascherina
Il virus del populismo statalista. Lezioni economiche da (e per) Domenico Arcuri: come e perché il prezzo massimo di 50 centesimi ha reso le mascherine più scarse. I liberisti da divano rispondono al burocrate in poltrona
Domenico Arcuri è l’uomo inviato dalla Provvidenza per dimostrare che i liberisti, perfino nella loro ora più buia, hanno ragione. Amministratore delegato di Invitalia, dal 18 marzo è pure Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus. Quattro giorni dopo la nomina, alla prima uscita pubblica, ha giurato che “entro due giorni tutte le regioni avranno mascherine per gli operatori sanitari” ed “entro sette giorni contiamo di dare a tutti gli italiani i dispositivi di protezione individuale”.
Sebbene con una tempistica meno celere di quanto preventivato, il primo obiettivo si può considerare sostanzialmente raggiunto – anche troppo, come vedremo. Il secondo rappresenta, invece, lo scoglio (la struttura economica, direbbe Karl Marx) contro il quale si sono infrante speranze e promesse (la sovrastruttura o, se preferite, l’ideologia). Arcuri, se potesse osservare con distacco la sua stessa parabola, forse ci vedrebbe la prova che la necessità storica risponde con un’ironia tutta sua alle polemiche contro i “liberisti da divano con il cocktail in mano” che criticano l’idea di fissare il prezzo delle mascherine. A noi piace invece pensare, con Fra Cristoforo, che si sia trattato appunto di “un filo che la Provvidenza ci mette tra le mani”. Il nostro articolo potrebbe dunque concludersi così, col suggerimento di posare la prezzatrice e accomodarsi su un sofà per rileggere “I promessi sposi”. Ma, come l’anonimo narratore a cui Alessandro Manzoni affida il suo capolavoro, facciamo un passo indietro e raccontiamo tutta la storia.
Domenico Arcuri (foto LaPresse)
Da tante cose dipende la celebrità de’ libri!
Il 18 marzo, dicevamo, Arcuri viene nominato “Commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica Covid-19”, come recita la rubrica dell’articolo 122 del decreto Cura Italia. Tra le sue funzioni c’è quella di “attua[re] e sovrintende[re] a ogni intervento utile a fronteggiare l’emergenza sanitaria, organizzando, acquisendo e sostenendo la produzione di ogni genere di bene strumentale utile a contenere e contrastare l’emergenza stessa, o comunque necessario in relazione alle misure adottate per contrastarla, nonché programmando e organizzando ogni attività connessa, individuando e indirizzando il reperimento delle risorse umane e strumentali necessarie, individuando i fabbisogni, e procedendo all’acquisizione e alla distribuzione di farmaci, delle apparecchiature e dei dispositivi medici e di protezione individuale”. In questa veste, si è dato da fare per procurare quei materiali che a mano a mano si facevano necessari per affrontare la situazione di crisi sanitaria, specie nelle regioni del nord, e consentire la convivenza col virus.
E’ qui che s’inserisce la vicenda delle mascherine, e quella parallela dei guanti e dei tamponi. Arcuri, inizialmente, si pone l’obiettivo di massimizzare le importazioni e incoraggiare le riconversioni di aziende italiane in modo da aumentare la produzione nazionale (pressoché nulla fino a pochi mesi fa). Le mascherine sono un bene povero, che le economie occidentali importavano dai paesi in via di sviluppo, più competitivi per ragioni legate sia al basso costo del lavoro, sia alle economie di scala. Improvvisamente, il consumo esplode, passando da esigenze legate alle attività ospedaliere a decine di milioni di pezzi al giorno. Poiché il boom è quasi istantaneo e oltretutto diffuso in tutto il mondo, mentre l’adeguamento della capacità produttiva richiede tempo e macchinari, nell’immediato i prezzi arrivano alle stelle, e le mascherine – sia quelle filtranti (ffp2 e ffp3) sia quelle chirurgiche – sono, per lungo tempo, introvabili o comunque molto care.
Mentre, con una mano, Arcuri cerca meritoriamente di approvvigionarsi, con l’orecchio sente crescere l’insoddisfazione e le proteste popolari. Infatti – per citare Manzoni – “la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro”. Ma quando ciò accade, prosegue Don Lisander, “nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza”. Si diffonde l’idea che le mascherine ci siano, ma che gli speculatori le nascondano per farne crescere il prezzo, lucrando sui bisogni della povera gente. Le autorità cercano di star dietro alle esigenze ma faticano, complici la priorità di garantire adeguate dotazioni agli ospedali e la confusione dei messaggi sull’uso delle mascherine, ora consigliate da alcuni virologi, ora disincentivate dall’Organizzazione mondiale della sanità (hanno ragione i primi). E comunque, aggiungerebbe Manzoni, “la moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore”. C’è ai posti di comando, adesso, qualcuno convinto che la scarsità e il prezzo non dipendano dai fondamentali dell’economia, ma dagli abusi dei profittatori: “La speculazione è finita e i cittadini pagheranno un prezzo giusto…Nessuno avrà a rimetterci perché abbiamo stabilito un meccanismo per ristorare i singoli produttori e i singoli distributori: sulla salute non si specula e tutti guadagneranno il giusto”. Queste non sono parole di Antonio Ferrer, il cancelliere che nella Milano manzoniana fissò il prezzo del pane durante la carestia, ma del commissario Arcuri dopo aver stabilito, con l’ordinanza del 26 aprile, il prezzo per la vendita delle mascherine al pubblico in 50 centesimi di euro cadauna. “Avrei tanta voglia di parlare dei liberisti che emettono sentenze quotidiane da un divano con un cocktail in mano, ma non lo farò. Il mio dovere è lavorare”, insiste. I “liberisti” lo contestano su un punto specifico: un prezzo troppo basso acuisce, anziché risolvere, la scarsità.
Chi ha ragione? Il burocrate in poltrona o i liberisti sul divano? “Da tante cose dipende la celebrità de’ libri!”, esclama il narratore dei “Promessi sposi”. Nel caso di Arcuri, egli ha probabilmente guadagnato l’onore di una menzione, non nei libri di storia, dove forse sperava di entrare, bensì in quelli di economia, come caso studio sul fallimento delle politiche di controllo dei prezzi.
La teoria del divano
La situazione nella quale interviene Arcuri è del tutto analoga alla penuria di pane descritta da Manzoni. Uno choc esogeno (il coronavirus) fa improvvisamente crescere la domanda. L’offerta, lì per lì, oltre un certo limite non può tener dietro alla richiesta (non si possono moltiplicare macchinari, capannoni e operai specializzati): così salgono i prezzi. Si tratta del tipico problema di razionamento: la domanda supera l’offerta, quindi qualcuno resta senza. Nei sistemi di libero mercato, il problema lo risolvono i rincari: la mascherina va a chi è disposto a (e può) pagare di più. Nei sistemi socialisti, si formano le code fuori dai negozi: la mascherina va a chi arriva prima. In entrambi i casi, lo stato è un compratore privilegiato che ha più facile accesso ai quantitativi offerti e li acquista per gli utilizzi che ritiene prioritari (per esempio gli ospedali).
Mentre il razionamento sovietico ha come unica conseguenza le code, nelle quali i cittadini pagano con il loro tempo anche se non trovano i beni cercati, l’incremento dei prezzi nei sistemi capitalisti produce anche un altro effetto: a parità di altri elementi, implica maggiori profitti per chi produce, importa o vende le mascherine, cosicché produttori ad alto costo diventano competitivi e altri ancora sono spinti ad attrezzarsi per entrare nel mercato. Dopo una fase iniziale di rincari, con l’aumentare della capacità produttiva i prezzi tornano a scendere e convergono verso i livelli precedenti. Se però si fissa un prezzo massimo (come col pane nella Milano del Seicento), allora le cose cambiano. I produttori non riescono più a coprire i loro costi, e i potenziali nuovi entranti avranno meno interesse a riconvertirsi. I fornai smettono di impastare il pane e spengono i forni, i farmacisti non ordinano le mascherine e le imprese fermano le macchine. Se Arcuri non si fida del romanzo storico manzoniano, può trovare conforto nella storia: nel 301 d.C., l’imperatore Diocleziano volle contrastare l’inflazione stabilendo i prezzi delle merci con un editto. Il risultato? Come racconta un cronista dell’epoca, Lattanzio, “le persone non portavano più le loro provvigioni ai mercati, perché non riuscivano a ottenere un prezzo giusto e questo fece crescere la penuria a tal punto, che dopo che essa ebbe causato molte morti, la legge stessa fu accantonata”.
Nel caso delle mascherine, c’è un ulteriore elemento: la concorrenza internazionale si farà più agguerrita e, soprattutto, quando (speriamo) il contagio sarà debellato la domanda tornerà attorno ai livelli precedenti. Dunque, chi entra oggi sul mercato sa che dovrà ammortizzare gli investimenti in fretta (con prezzi attorno ai 50 centesimi si stima ci vogliano almeno 18 mesi): ciò implica che dietro ai rincari non ci sono solo maggiori utili, ma anche costi più alti. Tema, questo, particolarmente serio alla luce dei volumi che il Commissario si aspetta dai produttori nazionali: secondo quanto dichiarato al Corriere della Sera di giovedì, dall’attuale 15 per cento di produzione domestica si vorrebbe arrivare all’autosufficienza entro ottobre, a fronte di un consumo di decine di milioni di mascherine al giorno.
Quando il coronavirus uscirà dalla nostra vita, che ce ne faremo di tutti quei macchinari? Chi risarcirà le imprese che finora hanno “fatto a fidarse” degli impegni governativi? Un prezzo inferiore ai costi – o comunque insufficiente – non può che ridurre le quantità offerte, col risultato, se va bene, di far aumentare le importazioni a scapito della produzione nazionale e, se va male, di far scarseggiare il bene. Insomma, per rubare il titolo di un video satirico caricato su YouTube: il prezzo forse è giusto, la quantità non saprei. Ma perfino questo sarebbe ottimistico. L’Italia non è l’unico paese ad aver messo un tetto: solo che altri, come Francia e Spagna, hanno messo l’asticella attorno a un euro (il doppio). Nelle bozze del decreto “Rilancio”, aveva fatto capolino la proposta del ministero dello Sviluppo economico di arrivare addirittura a 1,5 euro (il triplo!): è evidente che, più alto è il limite, meno rilevanti saranno le conseguenti distorsioni. Ma, anzitutto, queste cifre lasciano intendere che Arcuri aveva tutti gli elementi per evitare il disastro. Insomma, persino indossando i panni del pianificatore, non era difficile capire che il suo prezzo “giusto” era sbagliato.
Ciò non significa che si debba assistere inermi alle forze del mercato e non vi sia spazio per l’intervento pubblico. Persino mettere un tetto ai prezzi, sotto circostanze particolari, può essere un’opzione: è il caso dei cosiddetti monopoli naturali (come le reti infrastrutturali) nei quali occorre impedire al monopolista di estrarre una rendita. Ma non è certamente il caso nostro: il mercato delle mascherine è competitivo, in tutti i segmenti. A livello di produzione, i costi d’ingresso sono relativamente bassi e gli ostacoli sembrano più di natura burocratica che finanziaria. A livello retail, ci sono diversi canali distributivi, tutti più o meno concorrenziali al loro interno e tutti in competizione gli uni con gli altri: farmacie, parafarmacie, supermercati, e-commerce e, ora, tabaccai. Ci sono almeno due cose che lo stato può fare (e che in parte sta facendo): in primo luogo, comprare e distribuire mascherine (o rivenderle a prezzo calmierato). Secondariamente, si possono sussidiare, detassare o rimborsare le spese per l’acquisto di mascherine o altri dispositivi di protezione individuale, con un meccanismo simile a quello in uso per i medicinali e altri dispositivi sanitari: i cittadini vanno in farmacia con una prescrizione (o con la tessera sanitaria) e prendono le mascherine pagando un ticket di 50 centesimi, o in totale esenzione per le categorie più a rischio o meno abbienti. Si olia il mercato incentivando la produzione e sussidiando la domanda, ma non lo si fa inceppare bloccando i prezzi.
Curiosamente, Arcuri sta facendo questa seconda cosa. La struttura commissariale ha siglato un accordo con cinque imprese per la produzione di 660 milioni di mascherine al costo di 38-39 centesimi al pezzo. Sfortunatamente, diverse di queste cinque società, spesso impegnate in settori totalmente diversi, settimane dopo l’annuncio dell’accordo ancora non avevano iniziato a produrre. E così Arcuri è andato alla ricerca di aziende che producono a costi ben superiori: da 46 a oltre 70 centesimi. A questi bisogna aggiungere i costi della logistica e della distribuzione e un piccolo margine per il venditore al dettaglio. Ancora una volta: se aveva tutti gli elementi per immaginare in anticipo le conseguenze del suo editto, perché il commissario non si è fermato? C’è qualcosa che sfugge alla nostra teoria, e che solo un consumato uomo della pratica può vedere?
Di fronte a tali domande, Arcuri ha accusato gli operatori del mercato di essere speculatori e i suoi critici loro sodali. A dire il vero, non solo i liberisti da divano, ma la gran parte degli economisti ha ricordato l’abc (si veda per esempio Fausto Panunzi, probabilmente il primo ad affrontare il tema addirittura con due mesi di anticipo, sul Foglio del 25 febbraio, oppure più recentemente Federico Boffa sul quotidiano Alto Adige). A nostra conoscenza, solo due economisti hanno difeso il provvedimento del Commissario. Uno è Gustavo Piga, il quale ha curiosamente argomentato che “la mia farmacia sotto casa è il mio monopolista”. L’altro è l’ex ministro grillino Lorenzo Fioramonti, che si è spinto oltre, chiedendo al governo di riportare indietro le lancette dell’orologio a prima della pandemia: bisogna “congelare tutti i prezzi ai livelli del 31 dicembre 2019”.
Le notizie dal fronte
In una conferenza stampa in cui ha spiegato che ora le cose vanno molto meglio, Arcuri ha citato Francesco De Gregori per dire che gli italiani “sanno benissimo cosa fare / quelli che hanno letto un milione di libri / e quelli che non sanno nemmeno parlare”.
In generale è così. Ma nel caso specifico, gli italiani dove trovare le mascherine non lo sanno proprio benissimo. Perché, come scriveva Manzoni a proposito di Ferrer, “i provvedimenti per quanto siano gagliardi non hanno la virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuori stagione”. E difatti le derrate di mascherine sono sparite rapidamente: quelle esistenti esaurite, quelle in arrivo dirottate verso altri mercati.
Secondo un’indagine di Altroconsumo, che ha coinvolto 200 farmacie e 60 supermercati in 10 città italiane, le mascherine a prezzo calmierato (50 centesimi più Iva) si trovano solo in una farmacia su quattro (26 per cento) mentre prima dell’ordinanza erano presenti in due farmacie su tre (66 per cento). Anche nei supermercati, che secondo quanto riferito da Arcuri a differenza delle farmacie ne sono riforniti, le mascherine chirurgiche sono presenti in meno di un punto vendita su tre (27 per cento). Cittadinanzattiva ha organizzato un instant check in quindici supermercati di cinque città diverse e ne ha trovati sprovvisti dodici (l’80 per cento), riscontrando pure una crescente penuria di guanti monouso. E’ evidente che qualcosa è andato storto. Le mascherine, che dovevano diventare più accessibili, si sono fatte introvabili: chi prima poteva acquistarle a prezzi più alti, ora non riesce più a comprarle (sebbene a un prezzo più conveniente). E’ una conseguenza non intenzionale dell’ordinanza di Arcuri, che era motivata con un obiettivo opposto (più mascherine per tutti). Ma il fatto che l’esito sia inintenzionale non significa affatto che fosse imprevedibile. Anzi.
Un’altra conseguenza non voluta, ma del tutto prevedibile, è stata la parziale sostituzione del bene reso più scarso con uno più scadente. A un certo punto, quando ci si è accorti che le mascherine chirurgiche – che sono dispositivi medici (Dm) e dispositivi di protezione individuale (Dpi) – sono diventate difficili da reperire, le istituzioni hanno dato il via libera a quelle fai-da-te e alle “mascherine di comunità”, cioè prive di certificazione e prodotte in deroga alle normative e che però possono essere vendute a prezzo libero. In pratica, per effetto dell’ordinanza che ha stabilito solo il prezzo delle mascherine chirurgiche, per i produttori è diventato conveniente farne di peggiori. Anche in questo caso, non serviva leggere un romanzo o studiare un manuale di economia, bastava aver guardato i Simpson. Nella puntata “Homer contro il 18º emendamento”, un’ondata di moralismo e un nuovo inflessibile sceriffo portano il proibizionismo a Springfield. Le scorte di birra Duff si esauriscono rapidamente e Homer, dietro l’identità di “Barone Birra”, si mette a produrre clandestinamente pessimi superalcolici nella vasca da bagno in garage, facendo un pacco di soldi. Le circostanze sono diverse – il proibizionismo è un divieto totale di vendita, mentre il tetto al prezzo lo è oltre un certo limite – ma le conseguenze sono per certi versi simili. Gli italiani “sanno benissimo cosa fare”, sempre per citare il De Gregori di Arcuri, in questo caso sembra voler dire: fatevi le mascherine in casa.
A valle di tutto questo, c’è un’affermazione più volte ribadita dallo stesso Commissario che lascia intendere quanto egli abbia frainteso il modo in cui il sistema dei prezzi coordina domanda e offerta. Nella conferenza stampa di martedì scorso, ha affermato di aver “distribuito 208 milioni di mascherine da inizio emergenza. Le Regioni ne hanno 55 milioni nei loro magazzini”. Nel pronunciare queste parole, che forse intendeva quale atto d’accusa, non si è reso conto che erano in verità una confessione. Infatti, confermano non solo che la struttura commissariale ha acquistato troppe mascherine, lasciando a secco il resto del mercato, ma ha sostanzialmente contribuito a gonfiare i prezzi.
Altro che farmacisti e distributori, al momento il più grande accaparratore è stato proprio Arcuri! Se un privato si fosse comportato allo stesso modo, il Commissario avrebbe spedito i gendarmi a requisire il contenuto dei suoi depositi. Magari qualche pubblico ministero un po’ troppo solerte avrebbe perfino aperto un fascicolo per la potenziale violazione dell’articolo 501 bis del codice penale, relativo alle manovre speculative su merci. Ovviamente non è questo il caso di Arcuri, ma gli effetti della sua condotta sono i medesimi. E a farne le spese rischiano di essere le altre aziende, che per adempiere ai protocolli di sicurezza sul luogo di lavoro devono fornire le mascherine ai dipendenti non essendo però “protette” dal tetto di 50 centesimi. C’è quindi il rischio che produttori e importatori cerchino di rifarsi su di loro per le perdite maturate con le vendite retail. E’ vero che il Commissario ha previsto un ristoro. Ma, anche in questo caso, ha mostrato di non avere contezza dei prezzi e delle quantità, insomma del mercato in cui opera.
Con il bando “Impresa sicura” di Invitalia, l’agenzia statale di cui è amministratore delegato da 13 anni, Arcuri si è impegnato a rimborsare le imprese delle spese per i Dpi (mascherine di ogni tipo, guanti in lattice, tute, camici, calzari, termoscanner, detergenti e disinfettanti). Il bando, che copre i costi sostenuti negli ultimi due mesi, è destinato a tutte le imprese italiane (4,4 milioni, per circa 17 milioni di addetti). Risorse disponibili: 50 milioni di euro. Da assegnare con l’incivile lotteria del click day: chi prima arriva, prima alloggia. Un po’ come per le mascherine retail, è la coda (in questo caso virtuale) a determinare l’allocazione delle risorse scarse. In pratica i fondi messi a disposizione sono 11 euro a impresa (che salgono a ben 29 euro se escludiamo dal computo le ditte individuali), meno di 3 euro a dipendente, per coprire due mesi di spese per Dpi (pochi centesimi al giorno). L’apertura delle richieste è partita l’11 maggio alle 9.00: dopo un minuto ne erano state presentate 59.025 per un importo di circa 500 milioni (498 per la precisione). Alle 9.42 le richieste erano arrivate a 110 mila per oltre 1 miliardo di euro di corrispettivi. Venti volte più del budget messo a disposizione. Facendo una media, il fondo si è esaurito dopo 6 secondi e molte aziende dovranno aspettare il fotofinish per sapere se hanno diritto al ristoro oppure se sono state battute sul millesimo di secondo. Il clima d’incertezza sulla copertura finanziaria a garanzia, in una fase di per sé molto critica, di certo non aiuta le imprese già a corto di liquidità a esporsi negli acquisti dei Dpi. Insomma, se Arcuri non sbaglia il prezzo sbaglia il budget.
Tralasciando le coperture, la modalità di rimborso fa emergere un altro interrogativo: perché in questo caso non è stato messo il tetto? Perché, cioè, Arcuri alle imprese rimborsa le mascherine a prezzo pieno? Perché qui il prezzo è libero e altrove è calmierato? E come fa a essere in entrambi i casi “giusto”, come ama dire Arcuri, se è diverso? Ci sono due spiegazioni possibili, una è politologica e l’altra economica. Nel primo caso la decisione di fissare il prezzo solo nella vendita al dettaglio ha una motivazione tutta politica. E’ una decisione tipicamente populista presa per rispondere alle lamentele della gente, ben rappresentata dalle sparate contro “i liberisti da divano con il cocktail in mano” contrapposti alle esigenze del popolo: “Ora finalmente un papà potrà comprare con un euro due mascherine ai suoi figli” (sempre se le trova). Atteggiamento populista confermato peraltro dalla reazione dello stesso Arcuri quando, dopo che le mascherine hanno iniziato a scarseggiare, se l’è presa con gli “gli speculatori e altre categorie a essi simili”. Insomma, una narrazione win-win: se si trovano le mascherine a 50 centesimi è merito suo, se non si trovano è colpa degli “speculatori”. Nei paesi sviluppati (e in tempi normali) certe uscite portano alla rovina di un civil servant, ma in Sudamerica c’è chi ci ha costruito una fortuna politica.
L’altra spiegazione, di tipo economico, può essere questa: se il prezzo libero a cui le imprese comprano mascherine per i propri dipendenti è “giusto” mentre non lo è quando il “papà” le compra al “figlio” al dettaglio, allora vuol dire che la speculazione si annida nell’ultimo miglio. Gli speculatori non sono i produttori nazionali, quelli esteri e neppure i broker internazionali, ma esercenti, farmacisti e supermercati (il giudizio sui tabaccai è, per ora, sospeso). Il libero mercato internazionale è concorrenziale ed efficiente, ma poi si inceppa in Italia al dettaglio, a causa dell’enorme potere di mercato di centinaia di migliaia di punti vendita. Questa visione, che Arcuri ha accarezzato soprattutto in riferimento ai farmacisti, entra però in contrasto con gli accordi che lui stesso sta siglando a raffica rincorrendo col blocchetto degli assegni tutte le categorie di esercenti per rimborsarli delle vendite in perdita. Anche sul ruolo che avrebbe avuto nella distribuzione, il commissario ha diffuso confusione e incertezza. Il 27 aprile ha dichiarato che ai farmacisti che avevano acquistato mascherine a un prezzo superiore a 50 centesimi avrebbe “garantito un ristoro e assicurato forniture aggiuntive”. Dopo che gli italiani non hanno più trovato le mascherine in farmacia, il 12 maggio, nella conferenza stampa in cui ha citato De Gregori, ha affermato che “non è pensabile sostenere che il canale dei distributori delle farmacie deve essere il Commissario”. Infine, il giorno successivo, una nuova giravolta: Arcuri ha firmato l’ennesimo accordo con la categoria (il secondo o il terzo) in cui “si è impegnato a continuare a integrare gli approvvigionamenti delle farmacie con 10 milioni di mascherine nel mese di maggio, a partire da domani”. Gli italiani sanno benissimo cosa fare, il Commissario molto meno.
Anche sul ruolo dei farmacisti – oltre che sul suo – Arcuri è stato contraddittorio. L’11 maggio, a proposito della scarsità delle mascherine, ha scritto in una nota che “la colpa non è mia ma di distributori e farmacisti”, aggiungendo che “il prezzo massimo è stato fissato nell’esclusivo interesse dei cittadini. Anche perché chi oggi afferma di non avere mascherine e di aver bisogno delle forniture del Commissario, fino a qualche settimana fa le aveva e le faceva pagare ben di più ai cittadini”. Il giorno successivo, il 12 maggio, in conferenza stampa, ha invece assolto gli accusati del giorno precedente: “Non è colpa dei farmacisti, non c’entrano nulla”. Ribadendo però un concetto fondamentale: “Faccio fatica a prendermi colpe che non ho, se nelle farmacie gli italiani non trovano le mascherine”. Non è colpa del Commissario, non è (più) colpa dei farmacisti, sarà colpa dei soliti “speculatori”. Ma se Arcuri sussidia i produttori, acquista mascherine a qualsiasi prezzo, rimborsa a prezzi di mercato le imprese e risarcisce i farmacisti che vendono in perdita, dov’è di preciso la speculazione? In quale segmento della filiera, se sono tutti sussidiati? Non sarà forse il suo muoversi come un elefante in una cristalleria che, aumentando la scarsità e lo stato di necessità, incentiva e alimenta le condotte speculative?
C’è un altro anello in questa catena, quello dei broker internazionali, cioè intermediari specializzati che comprano dove si produce e rivendono dove c’è bisogno (e profitto). Anche in questo caso il governo, con i suoi interventi, ha allontanato le mascherine dall’Italia. Prima con un provvedimento che ha portato alla requisizione delle mascherine importate, rimborsandole ai prezzi del 31 dicembre 2019 (cioè prima della pandemia, proprio come avrebbe fatto un Fioramonti!) e successivamente imponendo il prezzo imposto a 50 centesimi. Molti operatori, soprattutto quelli più seri, hanno dirottato i loro interessi verso paesi dove ci sono più certezze e profitti maggiori, mentre sono rimasti attivi quelli più spregiudicati o improvvisati che, un po’ come Homer Simpson, si sono messi a fare il “Barone Mascherina”. In questo modo oltre che dei prodotti, anche la qualità degli operatori tende ad abbassarsi.
Di guanti, tamponi e altre sciocchezze
Durante l’ultima conferenza stampa, Arcuri ha fatto un riferimento curioso anche ad altri prodotti: “Quanto all’alcol e ai guanti, noi riforniamo di dispositivi di protezione individuale i nostri target: ospedali, forze dell’ordine e servizi pubblici essenziali, il trasporto pubblico locale e le Rsa. I negozi hanno i loro fornitori e se i fornitori dei negozi non hanno l’alcol faccio fatica a sentirmi colpevole. Non mi risulta di aver letto che gli ospedali si siano lamentati della carenza di alcol”. Ci sono due aspetti da evidenziare. Il primo ha dell’incredibile, e riguarda i tamponi. Solo l’11 maggio il Commissario ha bandito una gara per procurarsi i reagenti, dopo aver precedentemente insistito sul fatto che aveva già distribuito alle regioni milioni e milioni di tamponi. Come un immaginario don Chisciotte lanciato contro i mulini a vento della speculazione, Arcuri si è accorto di avere sotto braccio solo un inutile (di per sé) cotton fioc a guisa di lancia. Senza i reagenti, i bastoncini non servono a nulla. Eppure il virologo Andrea Crisanti – colui che ha indicato la strategia che sta salvando il Veneto – ha per esempio dichiarato che il Veneto ha cominciato ad approvvigionarsi di reagenti già il 20 gennaio, appena avute notizie dell’epidemia in Cina, e ora ne ha una capacità per 2 milioni e mezzo di test. A livello nazionale, il bando per i reagenti arriva a metà maggio (quattro mesi dopo il Veneto e due mesi dopo l’inizio del lockdown) e il materiale non sarà disponibile prima di giugno (settimane un mese dopo l’inizio della “fase 2”). In pratica l’Italia ha sprecato quel vantaggio temporale che, essendo purtroppo stato il primo focolaio europeo e occidentale, aveva per approvvigionarsi di reagenti che ora sono ricercati da tutto il mondo.
Il secondo punto è altrettanto importante: se il Commissario è convinto che la sua strategia sulle mascherine – procurement aggressivo e prezzo controllato – sia efficace, perché non la estende a guanti e disinfettanti? Può sembrare un pessimo suggerimento da parte nostra, ma lo azzardiamo solo perché finora Arcuri si è dimostrato impermeabile a qualsiasi consiglio: “Sono di Reggio Calabria e a Reggio non cambiamo idea facilmente!”, ha detto al Corriere della Sera. Se quindi non estende il prezzo calmierato a tutti i Dpi e agli altri prodotti scarsi, costosi e necessari è forse perché si rende conto da solo che sulle mascherine la sua politica ha contribuito ad acuire i problemi anziché risolverli.
Data la sua proverbiale testardaggine reggina, sappiamo che non riusciremo a convincerlo a fare marcia indietro con le nostre parole. Pertanto prendiamo a prestito i versi del suo (e nostro) amato Francesco De Gregori, quelli che il cantautore mette in bocca al comandante del Titanic, quando un marinaio lo avvisa che all’orizzonte si vede una strana figura bianca: “E il capitano disse al mozzo di bordo / Giovanotto, io non vedo niente, / c’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. / Andiamo avanti tranquillamente”.