Debolmente positivi
Sorpresa: i pazienti ospedalizzati hanno una carica virale più bassa di quelli meno gravi. Uno studio
Gran parlare si è fatto in Italia nell’ultimo periodo del fatto che molti pazienti oggi, a giudicare dalla carica virale rilevata sui tamponi diagnostici, debbano essere considerati come “debolmente positivi”, e quindi a causa della minor quantità di virus trasportato, siano sostanzialmente diversi sia per quanto riguarda il loro proprio decorso clinico, che per quanto riguarda la capacità di infettare altri.
Come ebbe a scrivere Thomas Huxley, tuttavia, “la grande tragedia della scienza: [è] il massacro di una bella ipotesi da parte di un brutto dato di fatto”.
In questo caso, i fatti che rimescolano le carte in tavola arrivano da uno studio realizzato a New York su 205 pazienti infetti, pubblicato ieri sulla rivista “The American Journal of Pathology”, in cui si trova un dato in esatta controtendenza con quanto atteso sulla base della teoria dei debolmente positivi a basso rischio: i pazienti ospedalizzati, cioè, avevano una carica virale statisticamente più bassa di quelli meno gravi, non ospedalizzati, una volta che fossero stati tenuti in conto la massa corporea, il sesso, l’etnicità, l’età e le comorbidità (tutti fattori confondenti). Inoltre, una carica virale più alta, tanto negli ospedalizzati che nei non ospedalizzati, era associata con una minore durata dei sintomi e una minore permanenza in ospedale nei pazienti già ospedalizzati.
Questa prima serie di risultati potrebbe essere tuttavia frutto di differente stadio di evoluzione della malattia nei gruppi confrontati: per esempio, è possibile che i pazienti a carica virale più alta siano stati selezionati fra quelli ammalati da più tempo, e conseguentemente la durata residua di malattia per essi sia risultata inferiore.
Tuttavia – e questo è invece un dato apparentemente robusto – non è stata trovata associazione tra carica virale nel tampone e ammissione in terapia intensiva, durata della ventilazione assistita o probabilità di sopravvivenza. In altre parole, secondo i dati discussi in questo lavoro, la carica virale al momento in cui si effettua un tampone non è predittiva di quanto succederà dopo, e di conseguenza non predice né l’evoluzione della malattia né l’eventuale infettività maggiore o minore del paziente in questione.
Come mi è già capitato di scrivere, questo può innanzitutto dipendere dall’eterogeneità dovuta alle modalità di prelievo del tampone, che da sole possono procurare una notevole variabilità di carica virale anche a partire dallo stesso paziente; ma, più ancora, è la biologia molecolare di base che ci dice che, poiché il virus si moltiplica esponenzialmente una volta che ha infettato una persona, il suo eventuale stato attuale di “debole positività” non è predittivo di cosa accadrà successivamente. Perché è vero, come disse Paracelso, che è la dose che fa il veleno; ma non quando il veleno ha la capacità di replicarsi esponenzialmente.
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