A voi la linea
Le nostre storie di Covid
Esperienze, disavventure, testimonianze. Che cosa vuol dire ammalarsi di Covid oggi in Italia, raccontato dai lettori del Foglio
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Giovani medici, tra corsi e ricorsi
Al direttore - Ho appena letto la richiesta di lockdown tramite un post su Facebook da parte del Presidente Nazionale dell’Ordine dei Medici Filippo Anelli e il suo ricordare che ci sono in attesa 23000 medici, che hanno partecipato un concorso di specializzazione, su cui gravano molti ricorsi. Io sono uno di coloro che ha dovuto impugnare in tribunale le scelte di questo Stato illiberale, ingiusto e vorrei tanto che potesse farsi voce del mio profondo malessere. Sono un giovane medico di 26 anni con una vita da febbraio totalmente stravolta, forse anche più rispetto a quelle dei comuni cittadini: conviviamo ogni giorno con la paura del contagio, bardati, quando siamo fortunati, da tute e maschere anticontagio, quando sfortunati, soprattutto nella medicina territoriale, armati di fede e mascherine comprate a nostre spese. Le inoltro questa lettera per raccontarle la storia di un ragazzo medico qualunque che viene considerato eroe solo quando è utile alla narrazione comune, pronto a essere ostacolato con tutte le proprie forze quando non serve più.
Non tutti sono a conoscenza, spesso neanche chi dovrebbe saperlo per il ruolo che occupa, di come è strutturata la formazione post laurea di un medico: vi sono due strade che possono essere intraprese, il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, che dipende dalle Regioni e dal Ministero della Salute, e i Corsi di Specializzazione, che (purtroppo) dipendono dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Per entrambi l’accesso avviene tramite concorso, in un numero di posti e con modalità che spesso o impediscono l’accesso alla formazione oppure obbligano a accettare una seconda scelta rispetto alle proprie aspirazioni, dato che senza un titolo successivo alla laurea non vi è alcuna possibilità di stabilizzazione e solo la possibilità di lavori occasionali. Mi sono laureato nel 2018 con il massimo dei voti in cinque anni e una sessione, cosa che ha comportato notevoli sacrifici personali in presenza negli ultimi due anni di una condizione di salute non proprio ottimale, e ancora prima di ottenere l’abilitazione ho partecipato al concorso per il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, vincendolo.
Allora fui felice, essendo Medicina Generale la mia seconda scelta, nonostante la mia prima fosse (e sia tuttora) potermi specializzare nella disciplina in cui ho fatto internato e tesi durante gli ultimi anni del corso di laurea; per tale ragione mi premurai che l’iscrizione al corso permettesse la partecipazione al concorso di Specializzazione, ricevendo rassicurazioni dagli uffici della Regione e da una comunicazione del Ministero della Salute, firmata dal direttore della Direzione Generale, soprattutto riguardo l’art. 19 comma 12 legge 448/2001. Partecipo a questo concorso, che si tiene a cadenza annuale ed è unico per tutte le specializzazioni, vincendolo, ma non in posizione utile per entrare nella Scuola che desideravo, decidendo così di lasciare il posto, che avevo vinto, a colleghi maggiormente interessati, continuando il Corso di Formazione Specifico in Medicina Generale.
Durante quest’anno però non riuscivo a non pensare che il mio sogno era diverso da quello che stavo facendo, per cui ho ripreso a studiare, in previsione del concorso successivo. A febbraio scoppia il Covid e, oltre alle attività programmate, mi sono adoperato in prima linea sul territorio per il benessere della mia comunità, rinunciando a vedere i miei cari per mesi, per non rischiare di contagiarli, spesso munito di una maschera comprata a mie spese e di buona volontà. Non ho ricevuto un euro in più del mio compenso abituale, non l’ho neppure desiderato, non desideravo essere un eroe, mi sarebbe bastato avere il rispetto del mio Paese. Il mio Paese, invece, con le fattezze del Ministro Manfredi, ha deciso di voltarmi le spalle. Ha deciso, in virtù del già citato l’art. 19 comma 12 legge 448/2001, dunque a legislazione invariata rispetto agli ultimi 19 anni, di impedire la semplice iscrizione al Concorso di Specializzazione a noi iscritti al Corso di Formazione di Medicina Generale, a meno di dimetterci ancor prima di presentare la domanda al concorso e non sapendo neppure quali e quanti posti sarebbero stati
banditi nella disciplina di nostro interesse..
Direttore, le hanno mai chiesto di licenziarsi solo per partecipare a un concorso o un colloquio? Ma non contento il Ministero ha deciso di superarsi,decidendo anche che coloro che erano già titolari di una borsa di specializzazione, praticamente omologhi al corsisti di Medicina Generale, venivano invece ammessi alla prova senza richiedere il licenziamento, venendo però per loro non valutato il curriculum, a differenza di tutti gli altri candidati; alla stessa ingiustizia vengono condannati anche chi ha già conseguito un titolo post laurea, in virtù del nuovo art. 19, comma 5, del decreto legge 16 luglio 2020. Chiunque dotato di buon senso, se non di riconoscenza, comprenderà che le condizioni a noi richieste sono state a dir poco inique, se non con forti dubbi di costituzionalità.
Personalmente decido il giorno dopo la pubblicazione del bando di impugnarlo, ottenendo il cautelare del TAR, nel quale mi riconosce i seri dubbi interpretativi delle norme, se non addirittura profili di incostituzionalità. Partecipo al concorso e ottengo un buon risultato, che dovrebbe permettermi di essere una posizione utile per la scuola da me ambita. Peccato che il MUR decide di appellarci in appello, cercando non contento di escludermi dalla graduatoria. Il suo appello al Consiglio di Stato viene accolto, stante l’accezione letterale del testo, solo limitatamente ai fini della rapida discussione del merito al TAR, confermando le altre disposizioni precedentemente espresse nella cautelare del TAR. Ma il MUR, rifacendosi a un’altra ordinanza che gli ha dato ragione e interpretando le nostre similari a quella, intende escludere tutti noi dalla graduatoria, non aspettando il giudizio di merito del TAR.
Un’esclusione, che significa cancellare ANNI di sacrifici personali, su un’ordinanza del CdS a posteriori quantomeno di dubbia interpretazione, a voce di numerosi esperti terzi di diritto amministrativo, e senza alcuna intenzione di aspettare sentenza di merito. Vi è dunque la concreta possibilità, anche in caso di vittoria, di perdere altri anni della nostra vita, oltre al rischio di trovarsi un guscio vuoto in mano una volta giunti al termine del percorso giudiziario. Comprenderà, direttore, come io possa essere sconfortato, sfiduciato da questo Paese, che non rispetta il merito, il sacrificio e non ha neppure riconoscenza. Ho vinto un concorso (anzi, ne ho vinti tre) e l’Italia non vuole farmi crescere, migliorare, raggiungere le mie aspirazioni, ma mortificarmi in continuazione, calpestando la mia storia, i miei sacrifici, quelli della mia famiglia. Sto studiando il tedesco, prima per cultura personale, ora perché la vedo come unica speranza per ottenere il rispetto che merita la mia storia. Non si parli più di capitale umano in fuga, non si parli di pochi medici, di giovani che scappano all’estero. Io ci ho provato a restare nel mio Paese, con tutto me stesso, ma il massimo che ho ottenuto dal mio Paese è stata una mascherina FFP2 e una chirurgica, da farmi bastare per un mese di lavoro.
È facile per lo Stato chiedere ai medici di essere carne da macello durante il periodo Covid facendo leva sulla questione etica, poi quando si tratta di garantire i diritti e i principi costituzionali il Governo, nelle vesti in questo caso del ministro Manfredi, diviene il nostro più accanito carnefice. Ah direttore, un’ultima nota: pochi giorni fa è stato bandito il concorso per il corso di formazione in medicina generale, improvvisamente l’art. 19 comma 12 legge 448/2001 è tornato ad assumere l’interpretazione che ha avuto negli ultimi 19 anni, permettendo agli specializzandi in questo caso di concorrere per la Medicina Generale e dimettersi solo in caso di vittoria del concorso. Parafrasando un passo di Harry Potter, “Tenete d'occhio l’articolo 19, a questo piace cambiare (interpretazione)!”. È quasi magia, in fondo viviamo in un Paese meraviglioso. Sperando che in qualche modo lei possa essere la voce per chi come me non ne ha e chiedendole, nell’eventualità, discretamente l’anonimato, sono pronto a fornirle, se avesse bisogno, tutte le delucidazioni necessarie. Il Ministero vuole pubblicare a ore la graduatoria definitiva escludendoci: sperando in un giudice a Berlino, lei è la mia, nostra unica speranza di essere ascoltati.
Mario Graziano
Il sapore della Nutella
Ho fatto il tampone: negativo. Ho fatto il test sierologico: positivo. Ho avuto anch'io il coronavirus. È stato sicuramente tra febbraio e marzo: contatto ripetuto e inconsapevole con due persone contagiate (entrambe ricoverate e oggi pienamente ristabilite), nessun sintomo di tosse o febbre, soltanto l'improvvisa e totale perdita del gusto e dell'olfatto per venti giorni, senza raffreddore. Al tempo non si sapeva ancora nulla, e chiesi lumi all'otorino. "Tranquillo, in genere è una forma influenzale. In rari casi, un tumore al cervello". Come se uno chiedesse a me: "Avvocato, cosa rischio se calpesto un'aiuola?". "Tranquillo, una multa da dieci euro. In rari casi, la fucilazione alla schiena".
In preda a una specie di istinto di etero-conservazione, mi sono quarantenato per un sacco di tempo, perché il sintomo non passava: intorno a me tutti bene, figlio compreso. Sono stato bene anch'io, a parte un persistente sentore di sabbia di ogni cibo ingurgitato, e odore di niente ad ogni odore inalato.
Le prime cose che ho sentito di nuovo sono state il sapore della Nutella, e il profumo del bagnoschiuma. La prima appartiene ormai al patrimonio dell'umanità, come il Partenone e le sconfitte della Juventus. Il secondo mi evocava la pubblicità di capelli al vento e cavalli galoppanti. Da quando anche i capelli sono galoppati, mi accontento del vento.
La bellissima dottoressa a cui mi sono rivolto mi dice che sono stato "oligosintomatico": termine che mi evoca qualcosa di diuretico, o un apparecchio della saturazione che fa plin plin.
Il riacutizzarsi dell'epidemia nazionale mi induce un interrogativo. Che ne sarà di me? La seconda ondata sarà come la seconda stagione di certe serie americane, una trama stracca e inconcepibile in cui il medico seduttore del pronto soccorso si scopre gay e la maestra d'asilo salva il pianeta dalla catastrofe nucleare diventando agente della CIA? Chissà. La mia fantasia immagina più modestamente un mondo in rovina, e io che faccio l'amore con la dottoressa sul Partenone cospargendola di Nutella, mentre il vento mi rimpatria i capelli come i capitali svizzeri di Trump.
La dottoressa mi tranquillizza di nuovo: "Hai gli anticorpi, quindi sei totalmente immune. Dovresti essere in parte immune. Forse sei immune, o forse no. Potrebbe tornare, ma in forma lieve. O al limite, in forma più forte". ("Mi raccomando, per pagare la multa porta dieci euro. O al limite, te li fai prestare da uno del plotone di esecuzione").
Michele Castellari, avvocato, Bologna
Sono positiva al Covid, e adesso?
Al direttore - ho 25 anni, vivo a Milano e ieri ho scoperto di essere positiva al Covid-19. Non ero la prima del mio circondario: pochi giorni prima la stessa notizia – sabato 17 per l’esattezza – era stata data al mio ragazzo, Diego, 28 anni, residente a Brescia. Diego aveva avuto qualche linea di febbre fra mercoledì e giovedì. Rivoltosi alla dottoressa di famiglia, quest’ultima gli aveva suggerito di isolarsi dal resto della famiglia – che avrebbe continuato la propria normale routine – e di non fare il tampone. Il suo consiglio era di prendere un antibiotico e, soltanto se dopo 3 o 4 giorni la febbre non fosse ancora passata, di recarsi in ospedale per fare il tampone. Visto l’aumentare di casi, Diego ha fortunatamente deciso di non aspettare: due giorni dopo la febbre gli sarebbe passata e, se avesse seguito il consiglio, sarebbe tornato – ancora positivo – alla sua vita normale.
Fatto il tampone da privato, Diego mi ha confermato la sua positività: l’Ats di Milano, contattata da quella bresciana, mi avrebbe chiamata a giorni per prenotare il mio tampone (effettuato solitamente 10 giorni dopo l’ultimo contatto con il positivo in questione). Quando sento dei 10 giorni, ragiono sul fatto che i miei genitori – con cui al momento convivo – hanno contatti stretti e necessari con quattro parenti anziani. Non possiamo aspettare così a lungo: devo fare un tampone al più presto. Passo la domenica a spulciare siti di ospedali, a chiedere ad amici e conoscenti. Attraverso un mezzo magheggio riesco a ottenere il mio risultato: un tampone a pagamento presso l’Ospedale San Raffaele prenotato per lunedì mattina alle 11. Oltre a me, il tampone lo farà anche mia sorella Elisa – 16 anni, conviviamo – la cui migliore amica ha appena scoperto di essere positiva.
Lunedì 19 ci rechiamo a fare il tampone. La gentile signora dell’accettazione mi dice che, in caso di esito positivo, dovremo contattare il medico di base per l’inserimento nel sistema. Martedì 20 alle 9:30 vediamo l’esito dal portale online. Niente da dire, sono stati super efficienti. Dopo un primo momento di sconforto, mi tiro su le maniche e comincio il mio giro di telefonate.Inizio dal medico di base ma, purtroppo, scopro che il suo studio non apre prima delle 15.30. Nell’attesa, comincio il mesto giro di avvisi a parenti, colleghi, palestra et similia. Ancora nessun contatto dall’Ats, né quella bresciana, né quella milanese. Finalmente, alle 15:45, riesco a parlare col medico: mi chiede i dati necessari per inserirmi nel sistema e mi comunica che può prenotare direttamente lui il tampone che dovrà confermare la mia guarigione. “Lo prenotiamo per il 26 ottobre, va bene? 14 giorni dopo il suo ultimo contatto con chi l’ha infettata.” - rimango perplessa, sapevo che il tampone andasse fatto 10 giorni dopo l’esito di positività. Non dico nulla, lo saprà lui meglio di me, e chiedo informazioni sull’app Immuni: “Come funziona il procedimento per inserire in app la mia positività?” – “Purtroppo non ho idea di cosa stia parlando, provi a chiedere agli operatori Ats.”
Passano 10 minuti, suona il telefono: l’Ats di Milano. Mi stanno chiamando per prenotare il tampone che dovrò effettuare nei giorni successivi per confermare la mia guarigione. Comunico che lo ha già prenotato il medico di base. L’operatrice verifica, si lamenta dei sistemi e conferma la data. Mi dice che per fornire i nominativi delle persone con cui sono entrata in contatto mi chiamerà un generico “altro ufficio” dell’Ats. Già che ci sono, chiedo anche a lei di Immuni. Mi risponde di non saperne nulla: “Scusa, non ho capito, devo dartelo io il codice? No, lo hai tu? Non ne so nulla, aspetta, chiedo alla mia responsabile.” Si consultano e, dopo qualche minuto, mi viene suggerito di cercare su Google. Vado online, apro il sito di Immuni, trovo un numero verde e chiamo. Riporto la problematica all’operatore che mi risponde sconsolato: “Purtroppo non sei la prima a sollevare questo problema. Io però gestisco solo l’aspetto informatico, non so cosa dirti esattamente. Tutto quello che so è che devi parlare con qualcuno dell’Asl ma non ho idea di un numero di telefono o una mail di riferimento.” Ribatto che – essendo questa l’unica vera funzione di Immuni – così perde di senso tutto il servizio. È sinceramente dispiaciuto e mi risponde solo: “Le giuro che qualcuno però ci riesce. Prima mi ha chiamato un signore da Genova che stava facendo il processo con l’operatore sanitario ma aveva dei problemi. Almeno siamo certi che non sia impossibile!”
Comincio a sentirmi avvilita: su Immuni non ho ottenuto niente e ancora nessuno mi ha contattato per farmi fornire i nominativi dei miei contatti. Chiedo a mia mamma se a Elisa è andata meglio visto che abbiamo due medici di base diversi. Mi risponde che, secondo la dottoressa, avendo Elisa fatto il tampone da privata, lei non può inserirlo sul database, men che meno prenotare il secondo tampone. “Sapresti dirmi il tuo medico di base come ha fatto? Così lo diciamo anche a questa dottoressa visto che l’Ats non ha chiamato.” Fra le telefonate concitate dei miei contatti che mi chiedono come prenotare il tampone – domanda a cui non so ovviamente rispondere - arriviamo a oggi, mercoledì 21. Ricevo una telefonata dall’Ats di Brescia che mi informa della positività di Diego. Comunico che ho già fatto il tampone, sono positiva e ho anche prenotato il secondo tampone per il 26 attraverso il medico di base. “Ma come il 26? Che pasticci fanno questi dottori, il suo tampone deve essere fatto non prima di 10 giorni dalla sua conferma di positività. Richiami la sua Ats e, se possibile, faccia spostare il tampone".
Non demordo, richiamo l’Ats. Mi risponde l’operatrice del giorno precedente che, una volta controllata la data, mi conferma che non va bene: “Il 26 è troppo presto per una persona risultata positiva il 19, ieri abbiamo sbagliato. Dobbiamo spostare il tampone ma, purtroppo, io oggi posso effettuare prenotazioni soltanto fino al 28. Può ridarmi il suo numero? La ricontatto io domani. No, ancora non so dirle per i suoi contatti, come le dicevo si tratta di un altro ufficio.”
Come ultima speranza, chiedo anche delle sorti di mia sorella Elisa. Purtroppo non sanno perché i medici di base diano risposte così diverse, quelli fanno sempre confusione. “Sai cosa facciamo? Io mi segno qui il tuo nome e tu, se ti richiama l’Ats, dì che hai parlato con me. Mi metto anche qua di fianco un bel +1 per tua sorella così domani prenotiamo il tampone sia per te che per lei".
La morale di questa storia? Che questo sistema, evidentemente, non funziona. Non si tratta di polemica, non si tratta di Immuni, qui il problema è l’assoluta mancanza di pensiero sistemico. Come può funzionare un meccanismo fatto di minuscoli ingranaggi che si muovono in modo autonomo, senza avere alcuna visibilità di cosa succede nell’ufficio accanto? Come può funzionare un sistema che parla di Covid attraverso ogni media senza fornire alcuna informazione realmente utile in caso di presunta o effettiva positività? Quante persone può infettare ognuno di noi mentre l’enorme macchina burocratica compie il suo percorso, fra indecisioni e piccoli (o grandi) errori? Tante, troppe. Sicuramente abbastanza da costringerci a provare, anche in vista dei prossimi mesi, a costruire un sistema sanitario e dei mass media migliori.
Lucia Ferretti
Se la burocrazia frena i test
Al direttore - Lo scorso giovedì 15 ottobre, mio figlio di 5 anni è stato mandato a casa dalla scuola materna perché la Asl aveva segnalato un contatto diretto con un positivo: il martedì precedente aveva incontrato la sua istruttrice di nuoto, risultata infetta. Siamo stati contattati subito dalla scuola, che ci ha informato della situazione e della necessità di mettere mio figlio in quarantena per 10 giorni (con tampone eseguito il decimo giorno dopo il contatto) e di 14 giorni senza tampone - prima di poter tornare a scuola, come da protocollo vigente. La scuola stessa ha informato la Asl, come da protocollo, dicendo che la Asl ci avrebbe poi contattato. Per inciso, ad oggi nessuno dalla Asl ci ha chiamato per seguire la situazione di mio figlio, tranne con una email di riposta, gentile e cordiale, a una email che avevo io stesso mandato venerdi sera con un escamotage, cioè sovrapponendomi a comunicazioni tra la scuola e noi genitori in cui era in copia la Asl stessa (Roma1).
La situazione paradossale è però la seguente. Essendo io un dipendente Fao internazionale, non sono coperto dal sistema sanitario nazionale. Sono Italiano, ma avendo sempre vissuto all estero, prima di venire a Roma per la Fao, non mi sono (ahimé) mai preoccupato di rientrarci. Questo è risultato essere una falla nel sistema di prevenzione e tracciamento Covid.
Prima i vari ospedali pubblici a cui ho telefonato per far fare un tampone a mio figlio, tra giovedì e venerdì scorso, mi hanno informato che ci voleva una aspettativa del medico di base. Quindi niente iscrizione al sistema sanitario nazionale, niente tampone. Le cliniche private mi hanno dato tutte appuntamento per oltre la fine della quarantena di mio figlio. Allora, siccome siamo in Italia e ancora mi ricordo di come funzionano le cose da noi (lo dico con grande affetto e dopotutto molto positivamente), ho pensato di potere comunque provare a fare la fila in un drive-in pubblico e in qualche modo far testare mio figlio. Ho trovato nella lista dei posti della zona un drive-in pediatrico all'Ospedale S. Andrea, e ci siamo recati lì con grandi speranze, venerdi mattina 16 ottobre verso le 10.00.
La prima parte dell'avventura è stata molto incoraggiante: anche senza una prenotazione (ci voleva mi hanno detto all'arrivo; ma non era scritto nella lista online della regione Lazio), e anche se avevo informato il personale ricevente che non eravamo inseriti nel sistema nazionale, in qualche modo (e devo dire con grandissima disponibilità nonché creatività del personale addetto - non sto a dare i dettagli della soluzione trovata) siamo riusciti a farci mettere in lista e addirittura a far sì che mio figlio venisse testato. A quel punto la mia considerazione del sistema Italia, già riquotata da otto anni di ritorno al mio paese, si era ulteriormente rafforzata. "Figurati se in Germania ci avrebbero preso – dicevo a mia moglie - laggiù le regole sono regole, mica come qui dove la gente è gentile e trova sempre una soluzione".
Le ultime parole famose. Arrivati all'ultimo passaggio prima di andarcene, l'impiegata preposta all'inserimento dati ci chiede il codice fiscale di mio figlio. Con nome, luogo e data di nascita lo ricavo dal web ma risulta non attivo. Niente codice, niente inserimento nel sistema; niente inserimento, niente analisi - non si riusciva ad andare avanti! Ma siccome abbiamo imparato a navigare a scapito di sistemi a volte sadici e perversi, di nuovo il personale, medico e non, ha avuto una trovata geniale: farci passare dal pronto soccorso, portando noi la fialetta e facendola analizzare lì, bypassando la mancanza di codice fiscale visto che per il pronto soccorso non serve. "Fatta! ", mi sono detto, e via di nuovo con l'esaltazione dell'acume e creatività italica. Eravamo vicini alla meta.
E invece, dopo circa un'ora di attesa del responso e nonostante il supporto pratico e morale del personale infermieristico, alla fine ci scontriamo con il medico di turno del pronto soccorso, che snocciolando necessità e regolamenti, rifiuta di accettare la fialetta a meno di ricoverare mio figlio fino a risultato dell'analisi, dodici ore dopo - cosa fuori discussione e espressamente sconsigliata dal medico stesso.
Conclusione: spossati dalle ore di trafila e dall'ottovolante emotivo che ci aveva portato sull' orlo di un successo insperato, abbiamo accettato il responso senza argomentare oltre e ce ne siamo andati, con la fialetta in questione disposta dall'ospedale stesso nei rifiuti medici.
Lascio a lei e ai lettori il giudizio. Al di là di tutto, qui siamo di fronte a una struttura pubblica preposta al tracciamento Covid al fine di ridurre il rischio infezione che, pur avendo tra e mani un tampone fatto a un contatto diretto, lo ha buttato via piuttosto che risolvere problemi di pura natura amministrativa. In seconda battuta ma non di minore importanza, la mia esperienza segnala altresì che a Roma ci sono centinaia di persone presenti come personale internazionale che - poiché non inserite nel sistema pubblico sanitario - non sono apparentemente coperte dai piani per il testing rapido Covid in termini di drive-in e soluzioni simili offerte dalla regione.
Avendo poi recentemente contattato il nostro sistema medico Fao, posso anche riportare che la mia organizzazione ha riconosciuto il problema e si sta già muovendo per trovare una soluzione. Allo stesso tempo sono stato informato che tutti i bambini in Italia, indipendentemente dal loro status di residenza, e perfino se illegali, hanno diritto alla copertura medica. Allora mi chiedo: ma qui a Roma e nel sistema regionale, perché si rifiutano di farci il test anche in condizioni di necessità? Continuo a fare chiamate e nel frattempo aspettiamo i nostri 14 giorni di quarantena, sperando che mio figlio non sia infetto asintomatico.
Francesco Tubiello