Lattoferrina: come nasce la pseudocura anti Covid
Pessima scienza e cattivo giornalismo. Ecco su cosa si fonda il boom di vendite dell'ennesimo presunto ritrovato contro il coronavirus
Ormai è introvabile nelle farmacie, ma non c'è alcuna dimostrazione scientifica dell'efficacia di questo integratore. Prima l'annuncio avventato della "scoperta" da parte di una dermatologa dell'Università di Tor Vergata, poi le catene di messaggi e video sui social network, a seguire la legittimazione dei media mainstream, infine la pubblicità. Un brutto film già visto
In questi giorni nelle farmacie, e soprattutto in quelle di Roma, è diventato introvabile l’ennesimo ritrovato anti-Covid: la lattoferrina. Ed è anche anche questo l'inevitabile prodotto della pessima scienza abbinata al pessimo giornalismo che spingono i consumatori terrorizzati dal virus a fare incetta di nuove, presunte o asserite “scoperte” scientifiche. Ogni ondata ne porta una: prima era stata la volta della clorochina o del farmaco giapponese, ora è quella degli integratori come la quercetina o appunto la lattoferrina. Gli integratori, per chi vuole venderli a questi scopi, sono il massimo perché non hanno gli effetti collaterali: all’insegna del “male non fa” garantiscono il massimo profitto con il minimo di responsabilità.
Il momentum della lattoferrina ha seguìto il solito meccanismo: prima l'annuncio temerario della "scoperta" da parte di un ricercatore, poi le catene di messaggi e video sui social network, infine i media mainstream che danno legittimità alla “cura”. In questo caso è stata prevalentemente Repubblica, che nei giorni scorsi ha dedicato una lunga serie di articoli all’“intuizione” di Elena Campione, una dermatologa dell’Università di Tor Vergata: “La scoperta di Tor Vergata. La ricercatrice: ‘Mangia il ferro di cui si nutre il virus, così la lattoferrina può combattere il Covid’”. Prima di capire se sia vero è già boom di vendite.
Non risulta da nessuna parte che questo integratore possa curare il Covid, o addirittura “prevenire” l’infezione da coronavirus così come in maniera avventata afferma la dottoressa Campione. Secondo il New York Times, che monitora tutte le cure possibili contro il Covid seguendo gli studi scientifici più seri, delle 22 terapie di cui si parla solo una è approvata in America dalla Fda (il remdesivir), due sono “ampiamente usate”, altre due sono promettenti e il resto a scendere. In nessun caso c’è la lattoferrina. Com’è possibile che la comunità scientifica mondiale non si sia accorta della grande scoperta della dottoressa Campione? E com’è possibile che non se ne sia accorta neppure l’Aifa? Semplice: perché non c’è uno studio serio o evidenza minima a supporto.
La pubblicazione scientifica citata negli articoli di Repubblica che hanno dato popolarità alla dermatologa e all’integratore, come spiega Enrico Bucci, “oltre a non contenere alcun dato sperimentale originale (aspirerebbe a essere una sorta di review qualitativa) è di livello così basso da contenere una serie di marchiani errori”.
Sentenza analoga da parte del virologo del San Raffaele Roberto Burioni: “Non esiste alcuna evidenza clinica che indichi l’utilità della lattoferrina nel prevenire o curare il Covid”. La ricercatrice di Tor Vergata si è adontata per le parole di Burioni, lo ha accusato di essere “abituato a vedere più telecamere che pazienti”, e ha citato un altro suo studio – frutto di una collaborazione tra studiosi di Tor Vergata e la Sapienza – che dimostrerebbe l’attività antivirale della lattoferrina contro Sars-Cov-2. L’affermazione è abbastanza forte, anche perché questo lavoro non è stato pubblicato su nessuna rivista scientifica, quindi non ha ricevuto una peer review. E persino agli occhi di un giornalista pare abbastanza deboluccio. Lo studio è questo: prendi 32 pazienti positivi al virus, con sintomi lievi o asintomatici, gli dai la lattoferrina e dopo 15-30 giorni stanno meglio (gli asintomatici uguale a prima). Però quantomeno c’è un gruppo di controllo, per vedere cosa succede ai positivi che non hanno preso la lattoferrina, giusto? Non proprio. Il gruppo di controllo sono 32 persone in salute, non positive, a cui non viene dato nulla, neppure il placebo. Che controllo sia non si capisce, al loro posto si sarebbero potuti mettere pure 32 piccioni o 32 pali della luce e sarebbe stato uguale.
In questa vicenda di per sé poco edificante, c’è un altro aspetto tragicomico. In questo studio non pubblicato, dopo aver dichiarato l’assenza di conflitti d’interessi, l’autrice e i colleghi ringraziano un’azienda farmaceutica (la Tdc – Technology dedicated to care) per aver fornito la lattoferrina. Nei giorni successivi agli articoli di Repubblica, proprio su Rep., è comparsa una pubblicità a tutta pagina che citava lo studio di Tor Vergata pagata da un’azienda concorrente anch’essa produttrice di lattoferrina. Repubblica non sembra aver fatto un buon servizio ai propri lettori. Ne è convinto addirittura l’ad dell’azienda farmaceutica che ha fornito l’integratore per la ricerca, che su Twitter ha condannato la pagina pubblicitaria della concorrenza: “Quella pubblicità è ingannevole, non è il prodotto utilizzato nello studio”. Su queste misere speculazioni ci sarebbe da ridere se non fossimo stretti in una morsa tra una drammatica pandemia e una tremenda recessione.
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