Il bene nella pandemia
Non è che con le nostre analisi, pur corrette, aumentiamo il clima di disperazione in cui siamo immersi?
Direttore, sono di nuovo io, l’infettivologo del “Sacco” di Milano che le scrisse in piena prima ondata del Covid. Torno a scriverle perché è un’evidenza indiscutibile che questa seconda ondata ci ha colto stanchi arrabbiati, delusi, divisi, depressi, arrabbiati, insofferenti. Quanto la prima ci aveva uniti in un impeto di solidarietà e senso di popolo, ci diciamo, tanto questa seconda sta cedendo a un senso di inutilità, di vuoto che ci fa paura. Quanto nella prima si diceva “Andrà tutto bene”, tanto adesso siamo pervasi dal timore che la fine sia lontana e che ci possa essere anche una terza ondata, e per dirci che andrà tutto bene dobbiamo aggrapparci ai proclami delle aziende farmaceutiche sapendo che, se i dati saranno confermati, un vaccino per tutto il mondo non si riuscirà certo a produrre in pochi mesi.
Il vicino che offriva una canzone anni Sessanta dal balcone per risollevare l’animo di tutti ora non si sente più. E così il riflesso di molti è di tornare con il ricordo a quei giorni di sofferenza, eppure di novità come qualcosa che ha toccato il vero fondo della nostra vita ma che non si può ripetere, Glory Days, come cantava Bruce Springsteen. Questo è umano e ha caratterizzato anche la mia adolescenza prima che una ventata di novità investisse la mia vita. Nonostante la giovane età vivevo rivolto al passato nella nostalgia dei tempi gloriosi e nella domanda lacerante di potervi tornare o di poter incontrare qualcosa che permettesse il permanere dello stupore e del gusto che non riuscivo a ritrovare. Ma è proprio vero?
Intanto non si può generalizzare. I nostri Glory Days sono stati per molti un inferno e in quei giorni il tasso di suicidi in Italia è salito come pure il livello di povertà. Le famiglie con persone handicappate o psichiatriche hanno sofferto e molte persone sole o depresse hanno vissuto un incubo. L’educazione scolastica ne ha risentito pesantemente. E oggi, dove è sparito tutto questo? Qualche giorno fa un gruppo di amici medici di Torino mi ha chiesto: di fronte a questa situazione di stanchezza, di sfiducia nei medici, degradati dal ruolo epico di “eroi” a quello di “falsificatori”, di perdita dell’unità nei reparti, come stai tu? Come hai visto cambiare i rapporti con pazienti, parenti e colleghi in questi mesi?
Nel mio ospedale la seconda ondata ha portato una novità: molti tra medici e infermieri ci siamo ammalati, qualcuno con conseguenze gravi. Io sono stato ricoverato una settimana con una polmonite di media gravità. Noi che per formazione, dotazioni e strutture come centro di riferimento infettivologico ci sentivamo protetti ora venivamo contagiati comunque. Qual è la novità? La scoperta che il collega con cui magari per anni c’erano stati motivi di ruggine ora, ammalato, suscitava un’affezione rivelatrice. Abbiamo intuito quanto siamo importanti gli uni per gli altri e quanto ci perdiamo a trascurare l’umanità di ognuno. Così in modo diverso e forse più radicato rispetto alla prima ondata si è ricostituita l’unità.
Durante il ricovero e la quarantena sono stato ricoperto di attenzioni da tutto il personale, al mattino mi arrivavano così tante brioches che chiedevo agli infermieri di offrirle agli altri ricoverati. Rientrato al lavoro ho trovato tutti premurosi verso di me, mi invitavano a una prudenza e a una gradualità che nei fatti ho visto impossibile, offrendomi il loro appoggio, e io sapevo che in mia assenza si erano sobbarcati il mio lavoro. Il terzo giorno ho ripreso a fare le guardie, che aumentate in termini di impegno, fatica e drammaticità. Ieri una collega è scoppiata a piangere per la stanchezza. Domando: non è che con le nostre analisi, pur corrette, noi aumentiamo il clima di disperazione in cui siamo immersi?
Occorrono occhi per vedere il bene che nasce, coltivarlo, desiderare che ci contagi. Come i pazienti che riusciamo a mandare a casa in quarantena grazie a realtà (parrocchie, gruppi di studenti) che si sobbarcano l’impegno di fare la spesa per loro. In preparazione della nuova modalità della Colletta alimentare sono andato a visitare due supermercati, in uno già ad aprile erano stati scoperti piccoli furti da parte di poveri e anziani, che non erano stati denunziati, anzi aiutati. A un anziano colto in flagrante il direttore ha detto: “Se hai fame non rubare, vieni da me” e gli ha pagato di tasca sua la spesa. La notizia è finita sui social ed è nata l’iniziativa “Corvetto solidale”, un conto aperto in quel supermercato a cui ognuno può contribuire a favore dei poveri della zona.
Quando la realtà stringe rende evidente che, più ancora della salute, ci è necessario trovare una ragione che resista alle avversità, perché la vita è seria e ci è data una volta sola, una ragione che ci faccia vivere con gusto ogni istante. E solo ciò che è reale resiste, non una teoria ma una presenza, qualcuno da guardare, non perché particolarmente generoso ma perché vive con un’intensità invidiabile, operosa e capace di amare e valorizzare tutto. Qualcuno da cui ci sentiamo amati.
Contribuire con la nostra generosità e fantasia è un modo per uscire dal lamento e tornare a guardare i poveri intorno a noi, il nostro vicino, gli anziani e le famiglie in difficoltà, i ragazzi che crescono e imparano e spendono il fiore della loro vita in questa condizione. Impegnandoci con la realtà di oggi ci è offerta la possibilità di ritrovare quel bene e quello stupore che il nostro cuore desidera, come un dono che ci viene dato ogni giorno, sempre nuovo. È l’esperienza della mia vita ormai da oltre trent’anni. E’ il mio augurio per tutti.
*Amedeo Capetti è infettivologo all'ospedale “Sacco” di Milano
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