Il Foglio Salute
Non lasciamo soli i nostri ragazzi costretti a casa
Come stanno psicologicamente i bambini in Dad? Una situazione sempre più drammatica
Ora tocca a noi. In questi giorni stiamo ricordando un anno di pandemia e i suoi centomila morti: centomila storie di persone che non sono riuscite a vincere la battaglia contro questo maledetto virus, centomila persone che sappiamo con certezza essere morte a causa del Covid-19. Insieme a loro non possiamo non ricordare tutte le vittime indirette di cui oggi non abbiamo conto, ma ce l’avremo, che non sono sopravvissute alla pandemia a causa delle chiusure degli ospedali e delle prestazioni non erogate, giusto per fare un paio di esempi. È certo che sconteremo un numero di vittime molto elevato a causa del coronavirus, inteso nella sua totalità, e questo numero ci spaventerà. Eppure, in questa conta ci sono tutte le vittime che in questo momento non sono intercettate dai radar della sanità pubblica, vittime delle quali si parla, almeno fino a oggi, principalmente come soggetti che stanno complicando la vita degli adulti: sono i bambini e gli adolescenti.
Certo, con le scuole chiuse e la didattica a distanza, i nostri più giovani gravano sui genitori che, dovendo lavorare, si trovano immersi nelle ulteriori difficoltà della gestione familiare. Ciononostante, mi indigna fortemente pensare che questi bambini siano esclusivamente oggetto di dibattito in relazione alla chiusura delle scuole. Non voglio essere ipocrita e sostenere che la presenza dei figli in casa non gravi pesantemente sull’equilibrio familiare: la società attuale è basata sul movimento, la dinamicità e il lavoro fuori casa, ed è certamente molto diversa da quella di qualche anno fa quando si poteva contare su una rete d’appoggio principalmente basata sui nonni che facevano da scudo alle esigenze quotidiane (senza contare che anche laddove presenti, sono proprio i nonni che in questo momento vanno maggiormente tutelati e protetti dai contagi e quindi andrebbero sollevati da questo compito). Questo non può però essere un alibi che giustifica il nostro perdere di vista lo stato delle cose. Come stanno i nostri bambini da un punto di vista psicologico? In quali ambienti familiari stanno vivendo il loro lockdown? Chi monitora che abbiano tutti le stesse opportunità di accesso alla didattica? La cosa che mi preoccupa, e che ci dovrebbe preoccupare tutti di più, riguarda i bambini che vivono in contesti ambientali/familiari di fragilità, magari insieme a genitori che fanno uso di sostanze o che hanno problemi con l’alcol o verso i quali esistono pregresse segnalazioni di violenza. Questi bambini che vanno dagli zero a sedici anni sono monitorati da qualcuno? E a chi spetta il monitoraggio? Ai comuni? Chi ha il dovere di ridurre il danno a questi giovani cittadini che non possono scegliere se rimanere nelle loro famiglie o andare via? Queste ragazze e questi ragazzi sono davvero il nostro futuro, saranno la società adulta di domani e meritano la nostra massima attenzione. Al di là di queste situazioni complesse e drammatiche che fortunatamente non rappresentano la maggioranza nelle dinamiche familiari, cosa ce ne facciamo della consapevolezza del fatto che tutta questa fascia di popolazione, al netto del coinvolgimento clinico nella pandemia, sia di fatto abbandonata a sé stessa? Gli effetti di questo trauma, come mi spiega la presidente dell’Ordine degli Psicologi lombardi, saranno evidenti solo alla fine dell’incubo Covid-19. Il ministero della Salute si sta occupando anche di loro? Se sì per favore ce ne desse notizia, perché ricevo messaggi di genitori che sono depressi e dispiaciuti di fronte all’impossibilità di dare prospettive ai loro bimbi che svegliandosi di notte piangono perché vogliono tornare a giocare. La frustrazione diventa enorme, quasi ingestibile, qualcuno ha il dovere di aiutare. Ma a chi tocca?
Rosaria Iardino
Presidente Fondazione The Bridge
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