Diffidenza irrazionale
Riabilitare AstraZeneca
È il vaccino più salvavita di tutti. Eppure è rimasto imbrigliato nella narrativa dei trombi e delle fasce d’età non coperte: “Questione di comunicazione”, dice l’economia comportamentale. Un vademecum per non sbagliare più
La grande sfida della campagna di vaccinazione italiana si chiama fiducia. Nuovo obiettivo: 500mila dosi al giorno, ha annunciato venerdì Mario Draghi. Ma la strada parte in salita. Perché AstraZeneca dovrebbe essere – con oltre 40 milioni di dosi, secondo l'ultimo aggiornamento del piano governativo – il vaccino più somministrato nel 2021. E tuttavia, dopo il nuovo via libera dell’Ema, da nord a sud si moltiplicano i casi di ‘boicottaggio’ dello stesso siero anglo-svedese: a Padova lo scorso weekend ci sono state 561 rinunce, in Umbria nove persone su dieci non hanno risposto alla chiamata dell’Ausl, alla stazione marittima di Napoli tre persone su cinque non si sono presentate per l’inoculazione. Episodi, questi, che appaiono come reazione avversa alla settimana di caos su AstraZeneca: dal blocco tedesco al cortocircuito dell’Aifa fino ai media, a caccia di una correlazione nevrotica fra il vaccino e i presunti effetti collaterali. D’altronde, “Il rischio zero è non alzarsi dal letto. Uno solo il modo di non farsi male: morire subito”. Amen.
Davide Dragone è professore di Economia comportamentale con applicazioni al settore sanitario presso l’Università di Bologna. Ha toccato con mano l’irrazionalità del momento. “Fresco di vaccino AstraZeneca”, inizia a raccontare al Foglio: “All’hub sono rimasto colpito dalle tante persone in coda, magari un po’ più anziane ma comunque del personale scolastico, che protestavano e volevano Pfizer. Anche la mia bambina mi aveva avvertito: papà, guarda che AstraZeneca è pericoloso”. E molti adulti non la pensano diversamente.
Logica lenta, inganni veloci
C’è un libro da premio Nobel che inquadra con grande efficacia il modus operandi della nostra mente: a uno scomparto riflessivo-calcolatore se ne contrappone uno istintivo-emotivo. I due aspetti coesistono complementari, stimolati dalle inclinazioni individuali ma soprattutto dall’ambiente esterno. E in un mondo a furor di social, ‘grrr reactions’ e breaking news, si capisce quale possa prendere il sopravvento. È per questo, in estrema sintesi, se i timori irragionevoli su AstraZeneca prevalgono sull’analisi costi-benefici: “Il punto di partenza”, spiega Dragone, “è la relazione tra il comportamento individuale e la percezione del pericolo, in questo caso di salute. E la percezione ha natura emotiva: chi si sente in forma ritiene anche di potersi esporre ad atteggiamenti più rischiosi. Fumare, bere. O tenersi abbassata la mascherina: tanto il virus è pericoloso solo per i fragili e gli anziani, pensano in molti. Mentre quei casi di trombosi hanno coinvolto i giovani e sani. Le persone tendono però a confondere il concetto di possibilità con quello di probabilità”.
È questione di contesto, informazioni a disposizione, sovrastima di certi numeri. Quelli molto piccoli e quelli molto grandi. Quelli che fanno notizia e vanno sui giornali: “Così una morte sospetta dopo una dose di AstraZeneca diventa un fattore per cambiare i propri comportamenti e non vaccinarsi più. Un incidente fatale alla guida è molto più comune eppure – giustamente – si continua ad andare in macchina. All’estremo opposto, il brio della lotteria: perché non potrei essere proprio io quell’uno su un milione che ce la fa? Frequenza e probabilità non sono meccanismi immediati. Vanno esposti e innescati con la dovuta accortezza”, sottolinea il docente.
E quindi come si sarebbe dovuto presentare il vaccino AstraZeneca? “Attraverso informazioni facilmente processabili. La percentuale assoluta è un dato scientifico: efficace al 79 per cento è un’affermazione arida. La popolazione invece ha bisogno di frasi d’impatto: è un vaccino salvavita, il più efficace contro i casi più gravi”. Tutto vero. Già a febbraio arrivavano i dati reali dalla Scozia: dopo una sola dose, il calo degli ospedalizzati era all’85 per cento con Pfizer e al 94 con AstraZeneca. Che diventa il 100 a copertura completa, secondo l’ultima sperimentazione americana in attesa di conferma definitiva. “Ogni vaccino va venduto e raccontato bene”, insiste il professore. “Questo non significa oscurare le informazioni negative a riguardo, ma contestualizzarle. Le stesse logiche di ricerca scientifica prevedono casi di successo e di insuccesso. E un vaccino consigliato solo per alcune fasce d’età non vuol dire che per le altre non valga, o sia pericoloso: semplicemente non si sa ancora. L’eccesso di prudenza è una pietra miliare della scienza e ne legittima i traguardi. Purtroppo però viene enfatizzata poco. Dall’ottica del ‘con il vaccino si può morire’ occorre passare al ‘ci riporterà la libertà’. Questa è una delle leve che governi e media dovrebbero utilizzare con determinazione. I titoloni tirano, portano clic. Ma anche paura e psicosi. Con ripercussioni reali”.
Comunicazione interrotta
Un anno fa l’opinione pubblica italiana scopriva un nuovo eroe: il medico in trincea, da solo contro il nemico invisibile. Sono bastati sei mesi – e la seconda ondata – per trasformare il mito in bersaglio. Tra minacce, aggressioni e accuse di dittatura sanitaria. È l’amaro prezzo della credibilità perduta. Per colpa di pochi, nei salotti televisivi: “I virologi hanno fornito un’enorme mole di informazioni confuse”, continua Dragone. “Sono pur sempre accademici, non allenati a comunicare in modo efficace: oltre ai tossici casi di narcisismo, si può fare male anche in buona fede. Per questo l’esposizione mediatica, per determinate categorie, è un rischio da centellinare al massimo. La scienza non deve rientrare nei criteri di par condicio”.
La politica invece sì. “Draghi finora non ha comunicato molto. Il che da un lato è bene, perché previene il solito cicaleccio dei social attorno a decisioni fondamentali. Ma dall’altro no: in questa fase storica è importante avere una solida figura di riferimento, che spieghi quello che succede in modo esaustivo e continuo. Nella conferenza stampa di venerdì ha dimostrato una certa ratio: AstraZeneca è stato sospeso per la specifica avversione al rischio del governo e non per aumentati rischi reali. Per generare fiducia c’è bisogno di insistere sulla chiarezza”. E tra l’altro l’Italia paga uno storica diffidenza nei confronti delle istituzioni – nell’Ue solo quattro paesi fanno peggio di noi, fonte Eurostat. “Conoscere le logiche dietro le azioni è rassicurante. Soprattutto per una popolazione esausta, a cui manca ormai un orientamento temporale da troppo tempo: perché le chiese sono aperte e le scuole ancora no? A troppi interrogativi Draghi non ha dato risposta. Le prossime fasi andranno scaglionate passo dopo passo. Dire fidatevi di me, in democrazia funziona poco. Il cittadino va trattato da adulto, aiutato a capire in anticipo: come fa un bravo dentista”.
E così il paziente diventa collaborativo. “L’esempio clou è il corretto utilizzo della mascherina. Protegge anche gli altri: implica un gesto altruistico, un meccanismo di esternalità sociale. Ma in un contesto rabbioso, offuscato da informazioni poco chiare e pressioni socioeconomiche, è facile scivolare nell’egoismo: fino a che punto si è alterato il senso della comunità?” Oltre centomila morti in Italia non sono bastati. “I numeri del bollettino non trasmettono più lo sgomento di un anno fa. Ormai purtroppo siamo assuefatti al grande shock: è un meccanismo umano comune ma superficiale”. Raffreddarsi per andare avanti. “Dire che nel 2020 abbiamo avuto una mensilità di decessi in più rispetto agli altri anni sarebbe già più efficace. Ma soprattutto va attivata la sfera delle emozioni opposta alla paura: quella dei cari da proteggere, delle libertà da ritrovare. Se e solo se faremo questo, riusciremo a contenere la pandemia e a ripartire. Finora media e istituzioni l’hanno fatto poco. C’è una relazione biunivoca con la platea da coltivare nel tempo”.
Indirizzare la vaccinazione
Fiducia chiama fiducia. Ma qualche strumento extra, a disposizione delle autorità, c’è: l’economia comportamentale li chiama nudges, pungoli. Piccoli sostegni pubblici per incentivare un’azione. “Aiutano l’individuo a superare lo status quo e quindi un ‘bias di indolenza’. Premesso che i nudge non sono una panacea, è stato dimostrato che nel campo di applicazione della salute funzionano bene. Per esempio prenotando automaticamente gli screening per il tumore al seno”, il commento dall’Università di Bologna. “Quindi in fatto di vaccinazioni: perché chiedere alla popolazione lo sforzo di iscriversi anziché iscriverla direttamente? Questo permetterebbe di avere uno schema di adesioni e defezioni preciso, con la struttura logistica che potrebbe adattarsi di conseguenza. Anche l’uso di reminder, messaggi di comparizione, è molto efficace. Così come quello dei testimonial: la gente ama la salienza, la capacità con cui un’immagine riesce a richiamare un certo concetto”. Alcune occasioni le abbiamo gettate al vento. “Immuni: pubblicizzata male e trattata peggio, il dibattito ridotto al solo tema della privacy. In quel caso irrilevante. Sarebbe stato importante spingere di più a utilizzarla. Anche deliberatamente: i bonus, le lotterie, agli italiani piacciono”.
Come non ripetere l’errore con AstraZeneca? “Con una comunicazione di qualità, livellata su diversi step di profondità in base alle esigenze individuali”, Dragone traccia la linea. “Dallo slogan del salvavita a una documentazione chiara e dettagliata dei pro e contro, fino alla diffusione più ampia possibile di informazioni di rilievo. Il tutto all’interno di un unico schema logico, coerente e rassicurante. Ma agevolando la fruibilità e l’accesso ai dati: dare informazioni alle persone vuol dire influenzare i comportamenti. È fondamentale farlo bene. E saperlo comunicare”.
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