ecco i primi test sull'uomo
Da dove viene e come funziona l'anticorpo monoclonale di Siena
La Fondazione Toscana Life Sciences ha messo a punto il principio attivo, Menarini ha curato la produzione, ora la parola allo Spallanzani e al centro Ricerche Cliniche di Verona
Dal team del microbiologo Rino Rappuoli alla sperimentazione finale. L'integrazione con il vaccino e le possibili applicazioni come "copertura-ponte" su positivi e soggetti a rischio
Il vaccino e la cura. Servono entrambi, nella lotta al Covid-19. E oggi, a proposito della cura a base di anticorpi monoclonali, ci si domanda quali siano le prospettive e quale sia il modo per abbassarne in futuro i costi, ora elevati, e permetterne una diffusione su larga scala. La buona notizia, intanto, è che l’anticorpo monoclonale studiato a Siena dal team del microbiologo Rino Rappuoli (il principio attivo è messo a punto dalla Fondazione Toscana Life Sciences) è arrivato alla fase dei primi test sull’uomo, con sperimentazione presso l’Istituto nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e presso il Centro Ricerche Cliniche di Verona. Lo aveva detto in settembre, a questo giornale, Rappuoli: a inizio 2021 inizieremo la sperimentazione clinica. Così è stato. Ma come ci si è arrivati? Rappuoli, medaglia al merito per la Sanità pubblica nel 2005, è coordinatore del Mad (Monoclonal Antibody Discovery) Lab presso Toscana Life Sciences e chief scientist e head external R&D di GlaxoSmithKline Vaccines a Siena. Studia da molti anni i vaccini e l’applicazione delle biotecnologie al campo vaccinale, negli Stati Uniti e in Italia. Nel corso del 2020 è stato affiancato, a Siena, da una squadra di quindici persone, tra cui studenti, laureandi e ragazzi appena laureati.
Prima di giungere alla fase della produzione, Rappuoli sottolineava già l’importanza di procedere contemporaneamente con lo studio per i vaccini e con quello per le cure, visto il poco tempo a disposizione. Anche perché gli anticorpi monoclonali funzionano come “prodotto naturale” dell’uomo: sono molecole prodotte partendo dal sangue di persone che hanno contratto il Coronavirus e sono guarite perché il loro sistema immunitario, attraverso le cosiddette “cellule B”, ha prodotto anticorpi capaci di neutralizzare il virus. Bisognava trovare gli anticorpi più potenti e, dopo mesi di lavoro su un milione di cellule, ne sono state trovate 450 capaci di rendere innocuo il virus. E si è cominciato a produrre su larga scala anticorpi per così dire potentissimi (con l’azienda Menarini, partner industriale del progetto). L’applicazione è bifronte. Da un lato, infatti, la cura potrà in prospettiva essere applicata anche sui positivi al tampone, ché l’anticorpo monoclonale può controllare e bloccare l’avanzamento della malattia prima che si sviluppi. Ma si intravede anche la sua possibile integrazione con il vaccino, visto che lo stesso non può essere inoculato a un paziente già positivo (sarebbe troppo tardi). E se la protezione anticorpale dura sei mesi, la cura potrebbe essere fornita, in azione preventiva, e in attesa del vaccino, alle categorie di persone a rischio, come copertura-ponte.
A inizio marzo Toscana Life Sciences ha annunciato l’avvio della sperimentazione clinica: i test della prima fase coinvolgeranno trenta volontari sani, per verificare sicurezza e assenza di effetti collaterali, mentre nelle fasi successive l’indagine si allargherà ed entrerà nel contesto clinico, coinvolgendo centinaia di pazienti adulti con infezione da Covid19, per testare, attraverso la somministrazione di quantità diverse, l’efficacia e la potenza del farmaco sulla base del dosaggio. Ma la notizia più rassicurante e promettente, in un momento di panico da varianti, viene dal lavoro scientifico pubblicato su Cell: l’anticorpo monoclonale in esame è capace di neutralizzare anche la variante inglese e i virus che contengono le mutazioni delle varianti sudafricana e brasiliana. C’è poi l’aspetto logistico: l’anticorpo oggetto della sperimentazione ha dimostrato finora, in vitro e in vivo, una grande potenza di neutralizzazione: è sufficiente cioè un dosaggio più basso rispetto a trattamenti analoghi. Potrà essere quindi somministrato attraverso una iniezione intramuscolare: modalità meno invasiva per il paziente, più agile per il medico e con un impatto ridotto su ospedali e servizio sanitario nazionale.