Tubinga or not Tubinga?
Ci sono dei problemi nel modello di riapertura testato nella città tedesca. Funziona a livello teorico, non funziona del tutto a livello pratico
Per giudicare l’efficacia di un modello teorico servirebbe innanzitutto che le linee guida di questo fossero rispettate, che non fossero sparigliate le carte in gioco. Per arrivare a un risultato serve tenere sotto controllo le variabili che lo determinano. È qualcosa di banale a dirsi, almeno a livello scientifico, un po’ meno a farsi quando si passa da un foglio di carta o da un laboratorio alla realtà di tutti i giorni. Soprattutto in un contesto pandemico dove ogni riapertura viene considerata da alcuni alla stregua di un tana libera tutti.
Martedì la professoressa Lisa Federle, commissario straordinario per la pandemia nel distretto di Tubinga, era un po’ imbarazzata davanti al tavolo operativo presieduto dal ministro della Salute del Baden-Württemberg, Manne Lucha. Avrebbe voluto parlare di applicazione pratica e scientifica di modelli teorici che funzionano, perché sono frutto di lavoro articolato per realizzare nella realtà pandemica ciò che è banale nella teoria: controllando le variabili di una funzione è possibile controllare il risultato di questa. E la funzione diceva essenzialmente una cosa: riaprire è possibile. Non ha fatto niente di tutto questo. Ha dovuto commentare i dati che indicano come a Tubinga i contagi sono aumentati, e di parecchio. Il 18 marzo c’erano 19,7 positivi ogni centomila abitanti in città e 25 nel distretto. Lunedì 5 aprile erano saliti a 82 e 108,9.
La professoressa Federle ha provato a spiegare che il problema non sta nel modello, che funziona, ma nell’applicazione del modello, che evidentemente non ha funzionato del tutto. Il numero di contagi è ancora inferiore a molte altre zone della Germania.
Il cosiddetto “modello Tubinga” consiste in questo: in città sono stati allestiti dei centri dove vengono eseguiti tamponi rapidi e chi risulta negativo riceve un ticket con il quale può muoversi per la città, fare shopping nei negozi, bere e mangiare in bar e ristoranti, andare al cinema o a teatro. Il tutto con mascherina e mantenendo la distanza sociale di un metro e mezzo.
Tra la teoria e la pratica però si è inserito a scompaginare tutto il “senso di responsabilità”, ha sottolineato la professoressa Federle. La mancanza di questo ha messo in crisi il successo dell’esperimento. E così il sindaco Boris Palmer e la professoressa Federle hanno deciso di inviare una lettera agli abitanti di Tubinga: “Nelle ultime tre settimane abbiamo cercato di tenere sotto controllo la pandemia testando aperture mirate per evitare il lockdown. Molti di voi vi hanno partecipato, centinaia ci hanno lavorato ogni giorno, decine di migliaia sono stati messi alla prova, quasi tutti si sono impegnati e sono stati disciplinati. Siamo stati davvero bravi, ma purtroppo non è stato abbastanza”.
E non è stato abbastanza perché una parte di chi ha partecipato all’esperimento non ha seguito le indicazioni. Soprattutto chi veniva a Tubinga per godersi qualche ora di “libertà” dalla pandemia. Distanze non rispettate, mascherine non indossate sono state fotografate e inquadrate più volte. Il “senso di responsabilità” è scemato mentre avanzava l’idea che la negatività al test fosse un lasciapassare per un ritorno alla quotidianità prepandemica.
Così il sindaco Palmer ha dovuto richiudere bar e ristoranti e negare il pass ai non residenti. Il che è un passo indietro rispetto alle intenzioni iniziali, ma non una definitiva archiviazione del progetto. Anche perché è proprio l’equipe di medici dell’ospedale universitario di Tubinga che sta seguendo il caso a chiedere di continuare nel progetto. Secondo loro parte dell’incremento dei casi è dovuto alla non totale affidabilità dei test rapidi. Quante persone infette passano il test? Diminuire al massimo il numero di falsi negativi permetterebbe un controllo migliore delle riaperture, ma per abbassare la percentuale d’errore servirebbe aumentare i test molecolari sulle persone alle quali è stato eseguito quello antigenico. E qui sta il problema. Chi sarebbe disposto per un giorno di semilibertà in città a sottoporsi a due test e rimanere in quarantena senza incontrare nessuno per almeno un giorno e mezzo?