Il vaccino no-profit ucciso dalla retorica anti-profit
Nonostante abbia deciso di vendere a prezzo di costo per aiutare i paesi poveri, AstraZeneca è accusata per le sue inadempienze contrattuali di speculare e vendere a chi paga di più. Rinunciare ai profitti non serve a evitare le reazioni pavloviane a un fallimento industriale: il caso AZ mostra a Big Pharma quanto è rischioso decidere di non guadagnare.
Sembra un paradosso, ma la retorica anti-profitto sta uccidendo nella culla l’unico vaccino no-profit. E ovviamente questo avrà conseguenze anche su tutti quelli che potrebbero venire in futuro e, forse, non verranno più. E’ la potenza della narrazione, che si è imposta sulla realtà e sui dati di fatto. Parliamo ovviamente del caso AstraZeneca, il vaccino al centro delle polemiche negli ultimi mesi per problemi sulla sicurezza (gli ormai rarissimi casi trombotici) e per il mancato rispetto delle consegne, in particolar modo verso l’Unione europea con cui ormai l’azienda è ai ferri corti e a un passo dalla battaglia legale.
La percezione sulla sicurezza del prodotto dell’azienda anglo-svedese, considerato ormai una specie di vaccino di serie B, è molto distante dalla realtà soprattutto se confrontati i rarissimi rischi con gli evidenti benefici dell’efficacia (in Regno Unito, dove ne è stato fatto un largo uso, la letalità del Covid si è quasi azzerata). Su questo punto sono tutti d’accordo, inclusi i governi che per eccessiva e ingiustificata cautela hanno temporaneamente sospeso il vaccino. Ma sulla parte economica la narrazione è ancora più distante dalla realtà. E’ ormai diffusa la convinzione, anche da parte delle istituzioni, che AstraZeneca non abbia intenzionalmente rispettato i termini contrattuali da un lato perché avrebbe favorito il suo paese (il Regno Unito), ma soprattutto perché avrebbe speculato: l’azienda avrebbe “venduto i vaccini anche due, tre volte”, come ha detto recentemente il premier Mario Draghi. Oppure avrebbe dirottato le dosi destinate all’Europa verso altri paesi del mondo disposti a pagare di più (così hanno esplicitamente insinuato cancellerie europee e giornali). Insomma, le inadempienze contrattuali di AstraZeneca dipendono dalla auri sacra fames, dalla sete di profitto di Big Pharma che prevale sul diritto alla salute. Addirittura, si è detto, la multinazionale avrebbe “nascosto” 29 milioni di dosi pronte a essere esportate di nascosto al miglior offerente.
La cosa paradossale, dicevamo, è che la realtà è molto diversa rispetto a questo racconto. Perché il vaccino di AstraZeneca nasce su presupposti opposti, cioè come “il più grande progetto di responsabilità sociale d’impresa nella storia”. Quando il ceo Pascal Soriot stringe l’accordo con l’Università di Oxford, detentrice del brevetto, soffiando il posto all’americana Merck, lo fa sulla base di un progetto: produrre un vaccino low-cost e no-profit per immunizzare tutto il mondo, anche i paesi più poveri. E stringe accordi con diversi produttori, a partire dal Serum Institute in India, per produrre 3 miliardi di dosi che in gran parte andranno ai paesi a basso reddito attraverso il programma internazionale Covax. Il ritorno di questo sforzo “umanitario” per AstraZeneca sarebbe dovuto essere prevalentemente d’immagine.
Le cose, purtroppo, sono andate diversamente. E per un motivo banale, sottovalutato dalla stessa azienda. AstraZeneca, che è leader nel settore oncologico, non è specializzata nella produzione di vaccini. E non è una cosa affatto semplice, come ha imparato l’azienda quando ha scoperto di avere grossi problemi produttivi per la resa dei bioreattori in alcuni stabilimenti europei che si è rivelata un quinto del previsto. Questo ha portato a ritardi e tagli, soprattutto nell’Ue, che ha ricevuto nel primo trimestre appena 30 milioni di dosi al posto dei 100 milioni previsti e riceverà, se si riesce ad aumentare la produzione, 100 milioni nel primo semestre al posto dei 300 milioni scritti nel contratto.
Non vuol dire che AstraZeneca ha venduto due-tre volte le dosi prodotte, ma che produce la metà o un terzo del previsto. Probabilmente ha favorito in parte il Regno Unito (e se lo ha fatto violando i termini del contratto è giusto che paghi), ma quelle dosi compenserebbero solo in minima parte i tagli all’Ue. E non lo ha fatto per profitto, visto che è di gran lunga il vaccino più economico e con margini pressoché nulli. Inoltre è il vaccino che più è stato distribuito nei paesi poveri. Eppure la narrazione, come un tic, racconta di una multinazionale che non vaccina le persone perché assetata di denaro. E’ la spiegazione preferita a quella più semplice ed evidente di un fallimento industriale. All’opposto non ci sono critiche per Pfizer e Moderna, ad esempio, che hanno fatto legittimi e meritati profitti privilegiando i paesi più ricchi che pagavano di più. E questo perché hanno rispettato i contratti, che è ciò che realmente interessa.
Il caso AstraZeneca è un precedente che segnala alle case farmaceutiche che fare vaccini a prezzo di costo comporta comunque grandi rischi di ricadute negative sull’immagine (e quindi sul valore) dell’azienda e che rinunciare al guadagno non evita le critiche pavloviane sui profitti di Big Pharma. In questo contesto, chi produrrà più vaccini no-profit? Se il prezzo è questo, conviene farsi pagare.