Non esistono bacchette magiche brevettate per i vaccini
Sospendere i brevetti non è la soluzione, tutte le case farmaceutiche firmano accordi con chi è in grado di produrre su licenza: la produzione globale di vaccini è più che triplicata in un anno. D’altronde, dato l’eccesso di domanda globale, a nessuna azienda conviene restringere l’offerta. I problemi sono altri, molto più concreti
Sarebbe utile cambiare le regole sulla proprietà intellettuale per aumentare la produzione di vaccini? “No”. E’ stata, qualche giorno fa, la risposta data da Bill Gates in un’intervista a Sky prima della decisione dell’Amministrazione Biden di appoggiare la sospensione dei brevetti sui vaccini richiesta in sede Wto da numerosi paesi in via di sviluppo capeggiati da India e Sudafrica. Gates, che attraverso la sua fondazione da decenni e anche in questa pandemia ha investito più di molti governi per garantire l’accesso ai vaccini nei paesi poveri, sostiene che “ci sono solo poche fabbriche nel mondo” in grado di produrre vaccini e che bisogna garantire che tutto sia prodotto in sicurezza da chi ne ha le competenze: trasferire la produzione in un paese povero è molto complicato, soprattutto per vaccini nuovi, e la qualità potrebbe non essere buona.
Chi fa affidamento sulla sospensione dei brevetti per far aumentare la produzione globale di vaccini rimarrà probabilmente deluso. “Non è come se ci fosse una fabbrica di vaccini inattiva, con tutte le certificazioni, che magicamente produce vaccini sicuri”, dice Gates, appena viene sospesa la proprietà intellettuale. Non ne esistono al mondo. E per un semplice motivo: tutte le aziende capaci di farlo già hanno stretto accordi di licenza con le case farmaceutiche, in ogni angolo del mondo. AstraZeneca, ad esempio, ha accordi con 25 produttori in 15 paesi, e il più importante è proprio in India (il Serum Institute che produrrà su licenza circa 1 miliardo di dosi). Anche in Sudafrica, dove c’è un’azienda in grado di fare l’infialamento, la Aspen Pharmacare, si è già concluso un accordo con Johnson & Johnson. Ciò vuol dire che non resta molta capacità produttiva globale inutilizzata, e quella che c’è non è di qualità sufficiente a un’operazione industriale complessa che necessita di know-how tecnologico e capitale umano qualificato. Abbiamo visto che questo processo non è semplice neppure per le aziende titolari del brevetto, basti considerare i problemi produttivi di AstraZeneca e anche di Johnson & Johnson, che ha dovuto buttare 15 milioni di dosi per gli errori di un’azienda che produce su licenza negli Usa.
D’altronde, dato l’eccesso di domanda globale, a nessuna azienda farmaceutica conviene restringere l’offerta. Tutte hanno l’interesse di trovare partner per produrre su licenza. AstraZeneca sarebbe stata ben lieta di farlo per risolvere la cattiva performance dei suoi stabilimenti che le stanno costando un contenzioso legale con l’Ue. Ma pure nella sviluppatissima Europa è difficile produrre vaccini anti Covid da un giorno all’altro. Figurarsi partire da zero, in un paese povero, senza assistenza e trasferimento di competenze dell’azienda titolare (Moderna ha già sospeso i suoi diritti intellettuali, ma nessuno si è messo a produrre il suo vaccino).
I brevetti, insomma, non sono l’ostacolo alla produzione dei vaccini. E se lo sono, sono l’ultimo. Più importante è avere stabilimenti Gmp (Good manufacturing practice) e l’accesso alle materie prime e alle centinaia di componenti essenziali per il processo produttivo (lipidi, enzimi, filtri, vetro, etc.), spesso ostacolato da nazionalismo e blocchi all’export. Sembra quasi che le case farmaceutiche abbiano interesse a tenere bassa la produzione. Ma non è così. Nel mondo si producevano in totale circa 5 miliardi di dosi di tutti i tipi di vaccino. Quest’anno, secondo le proiezioni della World Bank e della Duke University, si produrranno in più 10-12 miliardi di dosi del solo vaccino anti-Covid, che possono coprire già entro marzo 2022 il 60-70% della popolazione globale. Si può fare di meglio, ma servono risorse reali e non bacchette magiche brevettate.
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