L'intervento
Brevetti e vaccini, i problemi che la sospensione voluta da Biden non risolve
Proprietà intellettuale, innovazione e la prossima pandemia
A sorpresa, l’amministrazione Biden si è schierata a favore della proposta di una sospensione della proprietà intellettuale sui vaccini anti-Covid presentata da India e Sud Africa. Questo aumenta le possibilità che la proposta sia approvata dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), anche se l’esito dello scontro in corso a Ginevra è tutt’altro che scontato. Costruire nuovi impianti per la produzione di vaccini però richiede tempo, per cui la svolta di Biden non avrà alcun effetto sulle campagne di vaccinazione nei prossimi mesi e sulla velocità con cui i paesi ricchi usciranno dall’emergenza sanitaria. Lo ha spiegato benissimo Luciano Capone ieri su queste colonne. Ma in futuro le conseguenze potrebbero essere profonde e potranno farsi sentire nei paesi ricchi più che in quelli poveri.
Per capire il perché, bisogna ricordare che già ora le regole del Wto prevedono la possibilità di licenze obbligatorie sui brevetti. Diversi paesi in via di sviluppo hanno fatto ricorso a questa possibilità per produrre in proprio farmaci brevettati. Ma, a parte una certa farraginosità delle procedure, le regole attuali del Wto prevedono due condizioni restrittive: un compenso per il detentore del brevetto e la distribuzione del farmaco limitata al mercato domestico. Quindi, per fare un esempio, la Malesia oggi può produrre il sofosbuvir (un farmaco per la cura dell’epatite C) in base a una licenza obbligatoria, ma deve pagare royalties a Gilead (titolare del brevetto) e non può esportare il farmaco in Italia o in Usa. Con la sospensione della proprietà intellettuale, invece, i produttori indiani di vaccini anti-Covid potrebbero esportarli in tutto il mondo senza dover compensare chicchessia.
Per AstraZeneca cambierebbe poco o nulla, visto che l’accordo tra l’Università di Oxford e la compagnia farmaceutica prevede che il vaccino debba essere venduto a prezzo di costo. Ma Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson caricano sul prezzo un certo margine che garantisce profitti considerevoli (una differenza, sia detto per inciso, che può in parte spiegare la maggiore regolarità delle loro forniture rispetto ad AstraZeneca). Se il virus continuerà a circolare e i vaccini richiederanno richiami periodici, nel lungo periodo l’impatto negativo sui profitti di queste compagnie potrebbe essere consistente.
Non a caso l’industria farmaceutica ha aspramente criticato la svolta di Biden. L’argomentazione, ben nota ma non per questo meno rilevante, è che i profitti delle compagnie farmaceutiche sono l’incentivo che le spinge ad investire nella ricerca di nuovi farmaci, ed eliminare questo incentivo mette a rischio l’innovazione futura. Di qui la domanda: se oggi sospendiamo i brevetti, chi farà il vaccino per la prossima pandemia? Rispondere che la situazione è così grave da giustificare misure straordinarie “solo per questa volta” significa non capire il senso profondo della domanda. L’efficienza delle nostre istituzioni economiche viene messa alla prova proprio quando i problemi da risolvere sono difficili. Se il modo in cui abbiamo organizzato il processo di invenzione e produzione dei nuovi farmaci è inadeguato e deve essere corretto per far fronte alla pandemia di Covid, perché dovrebbe funzionare meglio in tutti gli altri casi?
Può darsi che Biden e la sua amministrazione non abbiano alcuna intenzione di avventurarsi in una trasformazione radicale dell’industria farmaceutica. Secondo alcuni commentatori, l’obiettivo sarebbe molto più limitato: mettere pressione alle compagnie farmaceutiche per indurle a donare i vaccini ai paesi in via di sviluppo, o quantomeno a ridurre i prezzi. Ma può anche darsi che Biden abbia una visione del problema più ampia e ambiziosa.
Se così fosse, però, Biden e i suoi sostenitori dovrebbero essere conseguenti e proporre un modello di innovazione farmaceutica alternativo alla proprietà intellettuale, che chiarisca come e perché saremo in grado di fare anche il prossimo vaccino. E qui ci sono due possibilità. La prima è lasciare la ricerca nelle mani delle compagnie farmaceutiche private modificando però la struttura degli incentivi, e in particolare sostituendo i brevetti con premi in denaro. Questa proposta è molto popolare nella sinistra radicale americana ed è sostenuta da premi Nobel come Joseph Stiglitz e Michael Kremer, oltre che da politici come Bernie Sanders. Un altro premio Nobel, Jean Tirole, ha però sottolineato che il valore del nuovo farmaco è spesso incerto, per esempio perché non si sa se e quando in futuro saranno scoperti trattamenti equivalenti o superiori. In questi casi, come stabilire il premio in denaro?
La seconda possibilità è sfruttare la crescente interazione tra ricerca di base e ricerca applicata in campo farmaceutico. Come ho sostenuto in un precedente intervento, si potrebbe delegare l’invenzione di nuovi principi attivi a università o istituti di ricerca, che già adesso fanno una parte rilevante di questo lavoro, e finanziarli con denaro pubblico. I test clinici potrebbero invece essere delegati a nuove istituzioni pubbliche, simili alle attuali autorità di regolamentazione come Fda ed Ema. Queste nuove istituzioni dovrebbero però occuparsi non solo del controllo dei test ma anche della loro conduzione.
Entrambe le alternative sono tutt’altro che semplici da realizzare. Basti pensare, per fare solo un altro esempio, al problema di come suddividere tra i vari paesi l’onere del finanziamento dei premi monetari che dovrebbero sostituire i brevetti nel primo caso, o delle nuove istituzioni pubbliche nel secondo. E, come detto, è lecito dubitare che Biden voglia intraprendere riforme tanto radicali. Se però non vogliamo più i brevetti sui farmaci, delle due l’una: o si affrontano questi problemi, o bisogna sperare che la prossima pandemia non arrivi mai.
Vincenzo Denicolò, Università di Bologna