L'intervento
Sulle vaccinazioni, il governo si imponga di più contro i vizi delle regioni
Alcuni territori mantengono fermo il principio della tutela delle categorie a rischio, altri organizzano open day e invitano i turisti: possiamo permetterci questa sorta di anarchia di indirizzo terapeutico?
Al direttore - Come molti italiani sto seguendo con attenzione le notizie riportate dalla stampa sull’evoluzione della campagna vaccinale nel nostro paese; un’evoluzione da cui dipenderà come noto il ritorno, più o meno veloce, ad una relativa normalità.
I media ci riportano cifre e percentuali decisamente incoraggianti rispetto al recente passato nel quale vivevamo l’ansia da prestazione quotidiana delle strutture sanitarie regionali vincolata al tradimento nelle forniture promesse di questa o quell’altra compagnia farmaceutica. Oggi leggiamo di decine di milioni di dosi in arrivo che verranno distribuite nelle prossime settimane, di percentuali di copertura che per alcune categorie salgono velocemente e nel contempo fanno diminuire altre percentuali assai più drammatiche come il numero dei morti e dei ricoveri in terapia intensiva.
Risultati quindi nel complesso positivi che nella comunicazione dovrebbero però mantenere una finestra di “attenzione” sui potenziali rischi rappresentati dalle coincidenti auspicate riaperture e quindi il ritorno alla normalità, in una situazione che non vede ancora tutta la popolazione a rischio in condizioni di sicurezza. In questo periodo ricco di entusiasmi e di buoni auspici permane il vizio di fondo di organizzazioni territoriali (regionali) poco inclini a indirizzi nazionali anche sulle strategie vaccinali, per cui si legge oggi di regioni che mantengono fermo il principio della tutela delle categorie a rischio, altre che organizzano gli open day e quelle che invitano i turisti a venire in vacanza e farsi eventualmente la seconda dose in vacanza. Ognuna di queste indicazioni ha la sua dignità e risponde a logiche e interessi di quel territorio; mi chiedo però se ancora oggi il paese si possa permettere questa sorta di anarchia di indirizzo terapeutico.
Nelle valutazioni degli errori commessi nel nostro paese, nel corso della gestione del primo anno della pandemia, sento oggi molti analisti elaborare teorie che contestano duramente la modifica del titolo V in tema di governo di grandi crisi e di emergenze di interesse nazionale. Io sono sempre stato, sin dall’inizio della crisi e in virtù della mia esperienza di protettore civile, un grande fautore del ricorso all’articolo 120 della Costituzione che prevede il potere di sostituzione delle autonomie politiche locali qualora non siano in grado di assicurare ai cittadini quei servizi costituzionalmente previsti come la salute e la scuola. Un auspicio che ha avuto molti convinti sostenitori ma nel contempo una fortissima resistenza politica del territorio, e per questo sono stato sommerso di critiche, ingiurie e minacce. Personalmente avevo auspicato l’entrata in campo della struttura militare (e della Protezione civile nazionale) nella gestione del piano vaccinale, in virtù delle capacità del sistema militare di garantire una logistica efficiente ed efficace; ma in cuor mio speravo che con questa evoluzione di sistema avremmo potuto assicurare al paese una più omogenea gestione strategica.
La nomina del generale Figliuolo ha dato risposte valide e impeccabili alla capacità dell’apparato militare di essere una vera “macchina da guerra”, ma constato che anche lui continua ad avere difficoltà nell’imporre una strategia uniforme che superi le divisioni localistiche di cui sopra accennato. Auspico quindi su questo tema un forte richiamo della politica del governo e una decisa posizione del presidente Draghi al rispetto di una strategia vaccinale omogenea in tutto il paese.
Oggi ci preoccupano molto le defezioni di intere fasce della popolazione, soprattutto quelle dei giovani, degli adolescenti, dei venti/trentenni che nella percezione della invulnerabilità tipica dell’età (che ha coinciso con una minore vulnerabilità al Coronavirus) vedono solo l’interesse al ritorno alla normalità della loro vita senza preoccuparsi dei rischi potenziali di mantenere una quota di popolazione non immune, e quindi potenziali focolai di ripresa del fenomeno pandemico e delle sue possibili varianti. La mia generazione ha passato la vita viaggiando con un tesserino inserito nel passaporto, era di colore giallo e conteneva la certificazione di tutte le vaccinazioni previste per entrare in un paese: febbre gialla, tifo, colera e altre che di volta in volta venivano richieste. Era assolutamente normale avere quel tesserino con te quando viaggiavi, come normale era farsi le vaccinazioni richieste; se volevi andare da qualche parte o lo facevi o semplicemente non partivi e non ricordo di aver mai sentito nessuno incatenarsi davanti a un’ambasciata del paese che prevedeva l’obbligo dei vaccini per l’ingresso sul territorio.
Oggi nel nostro paese ci sono interi settori dell’economia in grave stato di sofferenza che potrebbero auspicare il ritorno ad una relativa normalità magari solo esibendo all’ingresso di uno stadio, di un centro termale, di una discoteca quel famoso tesserino giallo che certifichi la vaccinazione fatta nelle due dosi previste o, quantomeno, in una dose da almeno tre settimane. Vi immaginate la spinta alla vaccinazione di tutte le fasce d’età, nessuna esclusa, se solo fosse adottato il passaporto per entrare allo stadio o in discoteca? A mio parere rappresenterebbe automaticamente e senza troppi problemi il superamento di ogni possibile teoria No vax, e quel nuovo tesserino giallo con la certificazione della vaccinazione fatta diventerebbe contenuto ordinario del nostro portafogli.
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