AstraZeneca e il principio di responsabilità
Una questione di dati (quello di Oxford non è un vaccino di serie B), ma anche di scelte. L’azzardo degli open day nei giorni in cui la circolazione del virus era in calo. Le raccomandazioni oscillanti al posto delle decisioni. Un’indagine
La tragica morte di una diciottenne ligure, attribuita ma ancora senza prove definitive alla vaccinazione con Oxford/AstraZeneca, si poteva evitare, così come si potevano evitare alcuni eventuali casi di malattie trombotiche della medesima natura in analoghe condizioni, particolarmente se sarà confermato che la ragazza soffriva di piastrinopenia autoimmune familiare e assumeva una doppia terapia ormonale. La sua condizione era fattore di rischio per la sindrome trombotica, ma bisogna anche sottolineare che comunque come sostenuto da Pier Mannuccio Mannucci, un’autorità mondiale dell’ematologia, il fattore di rischio principale resta l’età.
Il punto è che, al di là delle condizioni specifiche, le “raccomandazioni” vaghe e all’inseguimento di dati continuamente cangianti, perché affetti da amplissimo margine di incertezza e raccolti su campioni molto piccoli, sono un mezzo per raggiungere uno scopo politico – quello di scaricare la responsabilità in ogni evenienza – ma non per stabilire un percorso certo di anamnesi, vaccinazione e follow up.
Sarebbero bastate informative tassative da parte di Aifa e ministero della Salute, che non si limitassero a raccomandare, ma avessero la forma di indicazioni stringenti. Quanto è accaduto è invece l’ennesima vicenda dovuta a confusione e superficialità a livello dei processi decisionali, per quanto riguarda i risvolti medico-scientifici della gestione della pandemia e della campagna di vaccinazione. Il decisionismo è parso ben lubrificato sul piano delle misure sociali non farmacologiche, ma nella sfera più specificamente medico-scientifica, sia a livello comunicativo sia rispetto alle indicazioni medico-sanitarie, le catene di produzione degli indirizzi e di responsabilità non sono risultate efficaci e tra loro coordinate.
Naturalmente, in questa condizione di mancata assunzione di responsabilità, sorge una estenuante discussione pubblica e fra istituzioni differenti circa l’opportunità di ogni scelta di politica vaccinale, perché la tragedia e la discussione intorno agli open day che somministrano anche il vaccino Oxford/AstraZeneca ruotano intorno alla natura dei vaccini anti Covid, ai metodi che si dovrebbero usare per ricavare dai dati e dalle prove indicazioni sul loro uso, agli effetti che le politiche possono avere sulla percezione pubblica dei vaccini e l’adesione agli stessi, agli open day e i giovani, alla comunicazione della medicina e della scienza e… al senso civico in una democrazia.
Proviamo quindi a esaminare alcuni punti di questa discussione, uno alla volta, a cominciare dalla valutazione del vaccino di AstraZeneca.
Il vaccino Oxford/AstraZeneca è di serie B, come anche molti esperti dicono in pubblico e in privato, aggiungendo che comunque è sicuro sopra i sessant’anni ed è stato utile per dare le prime decisive mazzate alla pandemia? A noi pare un ragionamento curioso. Intanto, mettere le informazioni genetiche del coronavirus dentro a un altro virus reso innocuo e ottenere una solida risposta immunitaria non è roba da smanettoni di serie B. Inoltre, si tratta di un vaccino più stabile, più facile da fabbricare e meno costoso – per questo potrebbe avere un futuro nei paesi economicamente meno fortunati. Che non fosse facile fare dei vaccini adenovirali lo dimostra il fatto che, al contrario dei prodotti di AstraZeneca e di Johnson&Johnson, quelli cinesi e russi non raggiungono i livelli di protezione di Oxford/AstraZeneca, mentre quello di Reithera è ancora in fase di sviluppo. Senza dimenticare che la sperimentazione clinica per le prime approvazioni dei vaccini è stata condotta su numeri piccoli e fasce anagrafiche di popolazione non del tutto rappresentative della popolazione generale. Insomma, sputare su Oxford/AstraZeneca è come sputare su una tecnologia che potrebbe avere un futuro importante nella vaccinologia, senza sapere se le altre tecnologie di cui disponiamo saranno sufficienti a fronteggiare pandemie globali. Considerare poi i vaccini a mRna più fashion, non è forse il modo corretto di valutarli e li dovremo vedere alla prova nella loro capacità di immunizzare contro altri virus o batteri o contro il cancro. E’ una questione tecnico-scientifica, che merita l’uso di idee chiare e distinte, come raccomandava Cartesio; non una sorta di campanilismo sportivo, unito a una continua oscillazione di opinioni istituzionali guidata soprattutto dal principio dello scarico di responsabilità.
In questa pandemia, e anche nella politica vaccinale, elementi di incertezza e oscillazione delle decisioni da parte degli organi deputati a fare l’indirizzo scientifico, ovvero il Cts, si sono prodotti, a causa del fatto che non hanno avuto esito chiaro in una decisione ferma (non in una oscillante raccomandazione!) i ragionamenti su numeri più significativi per calcolare il rischio di fenomeni trombotici a seconda della fascia di età e in rapporto al rischio di contrarre Covid-19, come per esempio quelli raccolti in Gran Bretagna. I numeri raccolti già nei primi giorni di aprile, poi aggiornati al 7 maggio e quindi al 2 giugno, parlano da soli. Il profilo di rischio di finire in una unità di terapia intensiva decresce al decrescere dell’età, mentre il rischio di eventi trombotici dovuti alla vaccinazione con Oxford/AstraZenexa – solo questo vaccino – cresce al decrescere dell’età. I numeri assoluti, alla data del 2 giugno in UK, rilevati dal sistema Yellow Card sono: 40 milioni di vaccinati con la prima dose (25 milioni con Oxford/AstraZeneca) 200 mila eventi avversi segnalati per Oxford/AstraZeneca (meno di 70 mila per Pfizer/BioNTech). Al vaccino Oxford/AstraZeneca risultano associati 372 tromboembolitici gravi con 66 decessi (CFR 18 per cento). L’incidenza complessiva è stata di 14,2 per milione di dosi.
Ora, questi numeri, che sono costanti, vanno paragonati a un secondo rischio, che è invece variabile: la conseguenza dell’infezione del virus, man mano che la sua circolazione decresce. Finché il virus circola in maniera sostenuta, in ogni fascia di età vi è un vantaggio ad assumere qualunque vaccino, incluso AstraZeneca; ma a basse circolazioni virali, nella fascia fra i 20 e i 29 anni, specialmente per le donne, il rapporto rischio beneficio pende verso l’utilizzo di un diverso tipo di vaccino – nonostante gli ampi intervalli di confidenza osservati, infatti, in presenza di altri prodotti non vi è ragione di rischiare. Così come è evidente che il vaccino Oxford/AstraZeneca mantiene sempre la sua vantaggiosità sopra i 55/60 anni. L’ultimo report dell’agenzia governativa britannica (MHR) dice che “i dati mostrano che c’è un tasso superiore di incidenza nei gruppi di età adulta più giovani a seguito della prima dose rispetto ai gruppi più anziani”. I tassi di incidenza riportati sono superiori nelle donne rispetto agli uomini. Questi dati erano disponibili da tempo, per cui il calcolo del rischio, aggiornato al variare della quantità di virus circolante (pressione epidemica) è sempre stato possibile. Non ci sarebbe molto altro da dire, se non che quando a qualcuno sono venuti in mente gli open day per i giovani, chi è stato chiamato o è pagato per documentarsi, pensare e dettare gli indirizzi scientifici degli interventi sanitari contro la pandemia, doveva dire: ok, ma nelle condizioni attuali siete diffidati dall’usare il vaccino Oxford/AstraZeneca. Fortunatamente sono a disposizione due vaccini testati, di cui uno approvato anche per gli adolescenti, Pfizer, e un altro quasi approvato, Moderna, per cui se si pensa che sia strategico promuovere campagne presso i giovani, lo si faccia con lo scopo di vaccinarli in sicurezza e non di usare anche scorte che di Oxford/AstraZeneca divenute inutili. Discorso diverso merita la valutazione dell’opportunità di usare Astra/Zeneca per i richiami; questo perché, per le seconde dosi, gli eventi tromboembolici riportati sono ancora più rari dei già rari casi dopo la prima dose, per cui è da vedersi se vi sia vantaggio a cambiare vaccino. Non sono i numeri a fare da guida, in questo caso; semplicemente, si può fare euristicamente un discorso di opportunità, qualora le scorte degli altri vaccini lo consentano.
Ora, a chi voglia tagliare i problemi con l’accetta e alle persone che non hanno familiarità con le dinamiche stocastiche del mondo reale, può parer strano che le circostanze cambiano il significato degli stessi numeri (quando vari la pressione epidemica), che i margini di incertezza su eventi molto rari possano far prendere decisioni basate su euristiche di opportunità, e non su calcoli, e infine che possano verificarsi addirittura le condizioni in cui, non disponendo di numeri con accuratezza sufficiente (e nemmeno di procedure di calcolo robuste a sufficienza), si decida al variare della disponibilità di prodotti alternativi.
Il procedere nel modo indicato ha scoperchiato un problema che nasce dal fatto che ormai, se si è fedeli alla scienza, i vaccini e le vaccinazioni possono solo essere approvati a prescindere, altrimenti si passa per no-vax, palesemente nella discussione sull’uso di Oxford/AstraZeneca negli open day. Ci sono dei temi tecnico-scientifici, e i vaccini sono tra questi, che polarizzano e la comunicazione su questi temi è difficile, ovvero chi la fa dal versante tecnico-scientifico dovrebbe fare il possibile per non cadere vittima di strumentalizzazioni. Cosa non facile. E, comunque, di fronte a evidenti errori e atteggiamenti pilateschi o cerchiobottisti che creano rischi anche minimi, evitabili, è praticabile in democrazia un dovere di fornire un punto di vista documentato per raffinare e migliorare le politiche. Detto più esplicitamente, se la navigazione è rischiosa e ci sono le indicazioni per farlo si può accendere l’allarme per allertare i passeggeri, anche se i decibel assordanti saranno criticati da qualcuno o il suo uso sarà messo in discussione da chi valuta personalmente con criteri diversi i rischi.
Passiamo quindi a esaminare un secondo, e connesso, punto della discussione pubblica: quello che riguarda gli open day vaccinali per i ragazzi, che naturalmente sono stati messi in dubbio una volta che si è registrata una morte, tanto più se dovesse risultare che era evitabile.
Gli open day si dovevano fare e i giovani si devono vaccinare già adesso? Intanto cerchiamo di capire cosa sono gli open day, perché ognuno li intende a modo suo. Gli open day sono stati pensati sul modello delle svendite nei centri commerciali, e sono effettivamente partiti con l’idea che così si potessero usare scorte di vaccini inutilizzati, cioè che non erano più somministrati per le vaccinazioni controllate a livello centrale, e via via che la frazione di popolazione per cui erano indicati si assottigliava si accumulavano nei magazzini. Via via che gli open day proliferavano sono stati poi comunicati come una strategia per vaccinare i giovani e quindi ottenere prima una copertura vaccinale più ampia della popolazione. E’ risaputo che alcune regioni non hanno praticato gli open day o li hanno fatti evitando di usare vaccini non raccomandati da Aifa per fasce di età inferiori a 55 anni.
Gli open day non sono stati forse un colpo di genio – anzi – così come sono stati pensati, ma si è visto che la risposta dei giovani è stata quasi entusiastica. In qualche modo poteva essere per loro una esperienza per riflettere sulla propaganda contro i vaccini, e arrivare in autonomia a capire e decidere. I giovani si sono lanciati non solo per altruismo puro, che è raramente un motivo che muove la cooperazione sociale umana, ma in cerca di una liberatoria per andare in vacanza, frequentare discoteche e concerti, non indossare fastidiose mascherine o tenere inumane distanze fisiche, etc.
In diverse parti del mondo sono stati usati incentivi per affrettare la partecipazione pubblica alle campagne di vaccinazioni. L’esitanza vaccinale è diffusa e l’idea generale è che si debbano raggiungere delle soglie definite di popolazione protetta per mettere sotto controllo in modo definitivo la pandemia. Quindi ci si è sbizzarriti intanto nella comunicazione, che in alcuni paesi è fatta usando precise strategie di nudging, cioè invitando le persone all’appuntamento vaccinale con formule linguistiche che aumentano fino al 10 per cento e oltre l’adesione rispetto all’uso della comunicazione tradizionale. E poi gli incentivi. Lo stato di New York (ma anche quello dell’Ohio) offre borse di studio per iscriversi alle università ai ragazzi di 12-17 anni che si vaccinano con Biontech/Pfizer – l’unico approvato finora per adolescenti. Incentivati a essere creativi dall’Amministrazione Biden, alcuni stati regalano biglietti della lotteria, mentre lo stato di Washington, dove la cannabis è legale, offre agli adulti che vanno a farsi vaccinare uno spinello già preparato. Si è anche visto l’effetto che ha avuto in Israele consentire l’accesso privilegiato ai pub per vaccinati. Naturalmente si tratta di vaccinazioni con Pfizer o Moderna. Se gli open day italiani fossero fatti utilizzando gli stessi vaccini, non vi sarebbe stato alcun problema, ma si è voluto procedere prima di fare una valutazione accurata per AstraZeneca, nelle attuali condizioni epidemiologiche.
Ciò che dal punto di vista del rischio poteva avere senso in un momento in cui si avevano migliaia di morti al giorno, non lo ha nella situazione attuale; e in quei paesi dove la scienza scorre potente nei vasi che alimentano il funzionamento delle istituzioni, non si fanno chiacchiere ma si procede avendo chiari gli obiettivi e usando le prove. Tra questi paesi l’Italia non c’è.
Il problema, dunque, non sta nell’idea di utilizzare gli open day, come in altri paesi, ma in ciò che si somministra, a chi, e in che condizioni epidemiologiche.
Qualcuno, contrario agli open day, l’ha messa sul piano moralistico. Insomma, i giovani si vaccinano negli open day per accedere ad altri rischi come consumare alcool, sballarsi, stare in giro la notte, etc. Il problema è ancora una volta di fare, per quanto possibile, un bilancio. Se i giovani si vaccinano volontariamente senza rischi, quindi usando vaccini per loro sicuri, si ottengono due risultati. Aumenta più rapidamente la percentuale di popolazione protetta e si riducono i rischi che l’infezione venga trasmessa alle fasce più a rischio di ammalarsi – di fatto in una comunità i giovani sono quelli che si muovono di più e non sono quasi mai sintomatici, per cui gli anziani possono contrarre il coronavirus più facilmente da loro che da coetanei che si spostano molto meno. Inoltre, riparte e decolla prima una fetta importante dell’economia estiva, legata all’intrattenimento e che vede i giovani protagonisti. Pensare di frenarli nella loro ansia di divertimento e consumismo evitando di vaccinarli non è solo paternalistico, ma anche ingenuo e somiglia quasi ai ragionamenti dei teologi contrari alle prima immunizzazioni contro il vaiolo, di cui condannavano l’interferenza con la provvidenza divina.
Infine, vorremmo richiamare un terzo punto importante.
La discussione scatenata da open day e dalla tragedia della diciottenne ligure ha amplificato, se così si può dire, le manifestazioni dissonanti della comunicazione relativa alla pandemia in corso. Lo abbiamo già detto a proposito del rischio di passare per no-vax se si critica l’uso non indicato di un vaccino, ma in generale è diventato un luogo comune dire che la comunicazione dei temi della pandemia è stata disastrosa, che potrebbe avere effetti di ulteriore allontanamento dalla scienza e che scienziati ed esperti non hanno dato il meglio di sé – anzi. Alcuni scienziati ed esperti si adontano di fronte a queste critiche e forse per continuare a godere della luce e del calore dei riflettori, dicono che nessuno sa come si fa la comunicazione e che loro svolgono compiti essenziali e che producono del bene, mentre altri non si capisce cosa facciano. Una forma di stucchevole elitismo.
Proprio la vicenda di cui discutiamo esemplifica un paio di cose. In un paese avanzato, i governi devono sapere usare la migliore scienza, parlare in modo univoco e non lasciare che le informazioni circolino solo nelle forme dei contraddittori da talk-show. Negli altri paesi comparabili al nostro avveniva così. C’erano i talk-show, ma intanto gli scienziati che vi partecipavano erano più onesti, parlavano di quello che sapevano e ammettevano quel che non si sapeva. Inoltre, la comunicazione istituzionale spiccava, rispetto alle altre. Il caso esemplare è gli Stati Uniti, dove parlava quasi solo Fauci, e malgrado le lotte intestine nell’Amministrazione Trump, la comunità scientifico-medica ha lavorato per proteggere la buona comunicazione dalla disinformazione. In Italia, quasi tutta la comunicazione è stata quella fatta spontaneisticamente, ovvero spettacolarizzata, in contenitori mediatici che somigliavano ad arene.
La tesi che nessuno sa come si comunica, difesa da qualcuno, è frutto di ignoranza. Dato che i bravi comunicatori, che non sono scienziati, si possono documentare sulla scienza e la medicina del coronavirus e lo fanno spesso, scienziati ed esperti si potrebbero documentare su quel che dicono gli studi di comunicazione della scienza. Professori universitari e ricercatori finanziati con fondi pubblici e privati studiano e insegnano da anni i problemi della comunicazione della scienza, come altri esperti studiano i problemi medici, e in alcune università gli studenti STEM devono obbligatoriamente seguire almeno un corso di comunicazione scientifica. Lo snobismo e l’autorefenzialità narcisistica di scienziati ed esperti italiani rischia sempre più spesso di fare male alla percezione sociale di quella scienza che loro dicono difendere. Una percezione che partiva già male, in un paese come il nostro. Certo, bisognerebbe anche interrogarsi sulle reali competenze di molti che si presentano come comunicatori, confondendosi tra chi fa quel mestiere di professione; ma, ancora una volta, basterebbero poche semplici regole e molta chiarezza, per dare risalto a chi possieda i titoli, l’attitudine e la professionalità giusta, ove si volesse davvero comunicare, e non fare spettacolo (quello sì un mestiere in cui abbiamo dimostrato di eccellere durante la pandemia).
Di fronte a questi argomenti, per giustificare la cacofonia comunicativa in tema di pandemia e la spettacolarizzazione delle discussioni operata dai media, ove spesso opinioni di nessuna importanza sono riportate per provocare l’accendersi del dibattito, qualcuno invoca il diritto alle opinioni e alla loro espressione e la democrazia.
Tuttavia, uno dei massimi teorici della democrazia nel secolo scorso, Robert Dahl, scriveva che “quando una parola significa qualsiasi cosa, allora non significa niente. Ed è diventato così per la parola ‘democrazia’”. La democrazia, per definizione sin da quella ateniese, si nutre di discussioni. Ma al tempo degli ateniesi la scienza non esisteva e la medicina non ha potuto niente contro la cosiddetta “peste” del 430 a.C., raccontata da Tucidide. Via via che la scienza diventava una componente fisiologica delle società moderne, alimentando i gangli nevralgici delle democrazie, il problema è diventato sempre di più come fare in modo che fosse usata per qualificare al meglio, nell’interesse generale, le discussioni pubbliche, proteggendola dalle modalità strumentale e dalle dinamiche politiche che governano le discussioni pubbliche su questioni di gusti/opinioni. La scienza per diversi illuministi e per alcune generazioni di scienziati anche nel Novecento era un mezzo per dare sostanza all’idea politica, tutto sommato vaga, di libertà. Se si difende la libertà della scienza non è per un sentimento egualitario verso chi intraprende la carriera di scienziato, perché non sia discriminato come fosse parte di una minoranza, ma perché senza un efficiente funzionamento della scienza ci aspettano ancora miseria e totalitarismo.
Proprio per i motivi anzidetti, diversi studiosi della comunicazione scientifica indagano come evitare che temi maledettamente seri, tra cui quelli che riguardano la salute delle persone, vengano trascinati in risse da bar dello sport, a cui gli stessi scienziati ed esperti partecipano come avventori.
Forse è anche un problema di senso civico. Si è detto che il senso civico dei cittadini, la loro disponibilità a seguire le regole dettate dagli organi sanitari di un paese, è stato dirimente nella capacità dei paesi democratici di far fronte alla pandemia. Qualcuno ha voluto contrapporre la migliore efficienza di alcuni stati totalitari o collettivisti, ma se si compulsano i data base che comparano le politiche governative anti Covid non si trovano prove di una simile regola, mentre all’interno delle democrazie liberali apparentemente quelle che spiccano per senso civico ed efficienza delle istituzioni hanno gestito meglio la pandemia prima dei vaccini. Nondimeno la pandemia non si sconfigge con le misure non farmacologiche. Servono interventi istruiti dalla scienza, dalla buona pratica clinica e da misure adattative sul piano della sanità pubblica.
Misure adattative, ripetiamo: questo perché ogni decisione dipendente dalla statistica, come insegnava in maniera magistrale Bruno De Finetti per il quale nelle decisioni che hanno impatto nel mondo umano si deve usare la giusta statistica ovvero quella bayesiana, non può che adeguarsi man mano che l’informazione aumenta o cambia, e soprattutto, nel caso specifico, man mano che l’epidemia evolve, mutando il significato degli stessi numeri in contesti diversi. Certamente, questo cambiamento va ancora una volta analizzato in via rigorosa, quantitativamente se possibile, euristicamente in caso contrario; ma è bene che i cittadini siano informati sempre nel modo più preciso possibile circa il cambio di politica che si rende e si renderà necessario al variare dell’epidemia, ed è importantissimo che tale cambio sia dettato in maniera non ambigua, non oscillante, senza pensare solo a dire e non dire per fare in modo da allontanare in ogni caso la responsabilità di possibili errori.
Vale per la politica, e vale per gli scienziati: forse il senso civico è mancato proprio sul fronte di quel contributo determinante che deve venire dalla scienza, che per scorrere potente nei vasi culturali di un paese ha bisogno di scienziati più consapevoli del loro ruolo, quindi anche più responsabili, e meno di personaggi in camice che, qualunque cosa dicano in un talk-show, possono comunque contare sul fatto che la loro parte in commedia sarà preservata, e non pagheranno mai gli errori di contenuto o di comunicazione.
Enrico Bucci, professore aggiunto alla Temple University; Gilberto Corbellini, professore ordinario alla Sapienza; Michele De Luca, presidente Associazione Luca Coscioni