Il Foglio salute
Così cambia il mondo dei farmaci
Le opportunità da sfruttare dopo la crisi pandemica. Parla Confalone (Gilead)
Gli ultimi quindici mesi hanno segnato un cambiamento paradigmatico del modo di intendere la scienza, e se da un lato la pandemia ha messo di fronte a dei limiti evidenti, dall’altro ha consentito di ragionare su una serie di opportunità che, se ben sfruttate, potranno segnare un enorme miglioramento a diversi livelli.
Questo cambiamento riguarda certamente anche le aziende dal farmaco, e di come possa essere interpretato parliamo con Valentino Confalone, vice president e general manager di Gilead Sciences.
La pandemia ha sollevato l’importanza della collaborazione tra tutte le realtà che si occupano di salute. Qual è il ruolo del privato e come entra in sinergia con il pubblico?
Quello di realizzare partnership finalizzate ad accelerare la ricerca e la produzione di farmaci è un modello che perseguiamo da sempre in azienda, e la pandemia ha dimostrato molto chiaramente quanto sia importante poter contare sulla collaborazione non solo tra privati, ma anche tra privato e pubblico creando una rete che consenta di trovare soluzioni efficaci in tempi ragionevoli. Il dialogo con istituzioni, università, aziende e associazioni è la base imprescindibile di questo ragionamento e deve essere costantemente rinnovato.
Si tratta di una visione lungimirante…
Sì, che però non ci mette al riparo dalle critiche legate principalmente ai profitti. Sono vecchi temi che richiedono un cambiamento culturale importante per essere scardinati, o almeno per essere valutati nella loro interezza ma che di certo non ci possono distrarre dagli obiettivi che abbiamo, e che riguardano la salute.
Una delle aree principali di Gilead riguarda le malattie infettive. Quali sono le azioni che è importante sostenere in quest’ambito, e quanto ha impattato la pandemia?
L’impatto è stato enorme, e settori che sembravano intoccabili come quello dell’Hiv e dell’Hcv sono diventati molto fragili. I clinici e i pazienti sono preoccupati per questa inversione di tendenza che si è tradotta, nella prima fase pandemica, nel fatto che i pazienti siano passati in molti casi dall’effettuare tre o quattro visite all’anno a essere visti una volta sola dallo specialista. Questo poteva essere spiegabile nella prima fase emergenziale, quando c’è stato un sovvertimento delle priorità, ma non ha più senso in questo momento. I pazienti Hiv o Hcv positivi non possono essere considerati di secondo livello, e vanno trattati in base alle loro necessità, soprattutto quando si è in presenza di casi di comorbilità. Sono state messe in campo, negli anni, molte azioni per incentivare ai test e informare sull’accesso alle cure, così si rischia di vanificare un lavoro importante e tutto ciò andrebbe a scapito della salute dei pazienti.
Cosa fare, dunque?
Devono entrare in campo le regioni, che in ambito di Hcv si devono attivare per svolgere gli screening come previsto dal decreto Milleproroghe. Nel nostro paese esistono differenze territoriali importanti, e di nuovo entra in campo la partnership che risulta fondamentale per esportare dei modelli, delle buone pratiche.
E per l’Hiv si devono attivare i comuni, principalmente quelli che hanno aderito alla rete internazionale Fast Track Cities – che si pone l’obiettivo “90-90-90” fissato da Unaids con la Dichiarazione di Parigi, ovvero: assicurarsi che almeno il 90 per cento di persone hiv+ conosca il proprio stato, che abbia accesso alla terapia e abbia carica virale non rilevabile - affinché si crei una rete forte che, pur rispettando le differenze locali, abbia degli obiettivi e delle azioni comuni.
Ritengo inoltre sia importante lo stimolo continuo delle associazioni e della comunità scientifica, che possono aiutare a focalizzare bisogni e urgenze. L’industria può certamente offrire un supporto finanziario, ma non solo: offrire competenza, aiutare a fare benchmarking e portare best practices dove ancora non esistono, è un valore aggiunto e porta a fare un passo avanti nella implementazione sia della visione definita nella Dichiarazione di Parigi per quanto riguarda l’HIV e l’obiettivo della eliminazione dell’epatite C entro il 2030 stabilito dalla OMS e fatto proprio anche dal governo Italiano.
Anche in questa chiave avete attivato una collaborazione importante con ANCI, cosa vi ha stimolato?
L’esperienza con ANCI rispetto ad alcuni progetti pilota è senz’altro positiva e suscita grande interesse. Si fonda ancora una volta sulla volontà di creare modelli funzionali e replicarli ove necessario. Anche in questo caso bisogna tenere conto delle differenze territoriali, ma non devono essere considerate un limite quanto invece uno stimolo proprio nell’individuazione di schemi che siano riproducibili.
Qual è il vostro più grande impegno, in questo momento?
Siamo consci del ruolo dell’innovazione trasformativa che da oltre trent’anni portiamo dal laboratorio al paziente e per questo continueremo a investire molto in ricerca scientifica, sia in termini economici che di risorse umane. Spazio dunque alla ricerca, soprattutto in quelle aree terapeutiche con bisogni insoddisfatti.