Lunga vita al Cts, che ha colmato il vuoto lasciato dalla politica
Fra prevenzione ed emergenza. Il Comitato tecnico scientifico non ha esaurito la sua missione con la guerra al Covid-19
Nelle ultime settimane ho letto più volte articoli sull’imminente chiusura del Cts, con posizioni che muovevano dall’auspicio della rapida conclusione di quella esperienza eliminando per sempre il comitato, verso altre forme più equilibrate di analisi del lavoro svolto. Non vorrei ora cimentarmi su una valutazione del lavoro del Cts, molti altri lo faranno anche se penso che questo esercizio dovrebbe richiedere un’analisi seria, ponderata, avulsa da “influenze politiche” che hanno invece influenzato le opinioni sul lavoro del comitato, soprattutto negli ultimi mesi. Vorrei fare una considerazione sul ruolo del Comitato tecnico scientifico che, sin dai primi giorni della sua costituzione, ha dovuto colmare una vistosa carenza istituzionale.
Il Cts è stato istituito il 5 febbraio 2020, a seguito della dichiarazione di stato di emergenza per l’epidemia in corso e per dare continuità alle attività del gruppo di lavoro del ministero della Salute che, sin dai primi giorni di gennaio, si riuniva quotidianamente per analizzare le informazioni provenienti dalla Cina sull’evoluzione dell’emergenza da Sars Cov 2. Il Gruppo di lavoro della Salute, venne così sostituito dal Cts, che avrebbe operato non più alle dirette dipendenze del ministro della Salute ma nel quadro delle attività previste dalla legge che regola la gestione delle operazioni di emergenza quando, a seguito di una dichiarazione di stato di emergenza nazionale, viene attivato il Dipartimento della protezione civile (Dpc). Di fatto ci siamo trovati di fronte al lavoro di un gruppo di scienziati, selezionati su base di specifiche competenze, coordinato da un dirigente della protezione civile, che operava all’interno del Dpc e poi riferiva al ministro della Salute e al presidente del Consiglio.
Il lavoro svolto da questo gruppo di persone, in condizioni particolarmente disagiate soprattutto nei mesi “caldi” della pandemia, cedeva l’analisi delle urgenti necessità delle strutture sanitarie del paese: quali tipologie di Dpi, respiratori, forniture di vario genere da acquistare sul mercato internazionale che in quei momenti soffriva della crisi di una domanda che veniva da tutto il pianeta a fronte di una offerta estremamente ridotta di prodotti disponibili.
Il Cts si è poi cimentato in temi relativi alle distanze tra i banchi degli studenti a scuola, agli avventori di pubblici esercizi, al numero di spettatori ammessi a spettacoli teatrali o cinematografici, sino alla distanza tra gli ombrelloni sulle spiagge piuttosto che l’organizzazione delle corse ippiche, le distanze tra i tavoli di un ristorante o tra gli avventori di una sala da ballo. Argomenti questi tipici di particolari situazioni di crisi sanitarie che, nel migliore dei mondi possibili, dovrebbero essere parte del patrimonio culturale e organizzativo delle strutture ministeriali competenti, temi che dovrebbero essere governati senza particolari problemi da quelle stesse strutture.
Io stesso, nominato coordinatore del Cts il 5 febbraio del 2020, mi chiedevo, stupito, la ragione dell’assenza di un ufficio di gestione delle emergenze sanitarie all’interno del ministero della Salute; ufficio che nella mia formazione di protettore civile ritenevo essere indispensabile in un dicastero che in fondo vive di quotidiane emergenze sanitarie. Con mia grande sorpresa ho scoperto che il ministero non disponeva di questo servizio e che le emergenze sanitarie, di qualsivoglia natura, sono seguite nel nostro paese dalle strutture regionali e dalle aziende sanitarie locali.
Ciò significa che storicamente i ministeri della salute che negli anni si sono succeduti non hanno mai ipotizzato un disastro sanitario nazionale dove fosse indispensabile una gestione centralizzata e coordinata della risposta; e questa è forse una risposta a quella sorta di anarchia politica che abbiamo visto circa le decisioni prese a livello locale in materia sanitaria. Eppure di situazioni di emergenza a valenza nazionale, che imponevano una risposta concertata e coordinata ne abbiamo avute molte negli ultimi anni: la Sars, la mucca pazza, Ebola, solo per citarne alcuni.
Analoga considerazione, sull’assenza di un ufficio di gestione delle emergenze la feci qualche tempo dopo per il ministero dell’Istruzione dove, analogamente alla Sanità, manca un vero ufficio di gestione delle emergenze didattiche, anche se in questo caso è doveroso dire che quel dicastero stava, ben prima del disastro Covid, lavorando per creare una struttura che svolgesse questa funzione. Erano stati infatti organizzati corsi di formazione per dirigenti scolastici in servizio nelle regioni e ci si stava orientando a introdurre l’insegnamento di materie attinenti alla protezione civile nel curriculum studi di tutti i livelli formativi.
In altri termini, il Covid-19 ha messo in evidenza, oltre alle decennali carenze strutturali dei sistemi sanitari e scolastici, il fatto che nessuno di questi due dicasteri si è mai preoccupato di organizzare un servizio strutturato con staff e risorse umane e materiali specificamente dedicato a questo scopo. Il Cts ha svolto pertanto, fra le altre incombenze, una funzione di supplenza inventandosi un metodo e procedure di analisi in settori che non erano abitualmente parte delle competenze specifiche dei suoi membri. Il dipartimento della Protezione civile ha al suo interno una struttura di consulenza scientifica chiamata Commissione grandi rischi dove sono riunite le migliori competenze del paese in settori tipici delle emergenze di protezione civile (idrogeologico, sismico, vulcanico etc). La Commissione grandi rischi si riunisce periodicamente e in caso di emergenza è convocata, in forma permanente, qualora la crisi in quello specifico settore sia in atto e si rendano necessarie indicazioni operative sulle decisioni da prendere per mettere in sicurezza la popolazione e le risorse del paese.
La “Grandi rischi” non ha una branca dedicata alle emergenze sanitarie. Questa è la ragione per la quale ritengo che il Cts debba continuare a esistere, cambiando magari veste, componenti e mandato, rivedendo eventualmente la sua collocazione e le relazioni istituzionali; ma ritengo che un gruppo di esperti sanitari che periodicamente si riuniscano per valutare le opportune azioni da mettere in atto per prepararci a possibili, benché improbabili, emergenze sanitarie analoghe a quella da cui a fatica stiamo uscendo, sia un’opzione assolutamente urgente e indispensabile per il nostro paese. Se quel gruppo fosse esistito, ben prima del Covid-19, forse oggi la procura della Repubblica non si interrogherebbe così insistentemente sull’esistenza o meno di un piano pandemico. Le persone che avrebbero dovuto comporre quel gruppo si sarebbero preoccupate, in tempo di pace, di tradurre l’esistente piano pandemico (perché un piano pandemico esisteva al ministero della Salute) in azioni pratiche condivise dalla politica centrale, dalle regioni, dalle aziende sanitarie finanche all’ultimo anello della catena come i medici del territorio.
L’esperienza di protezione civile ci insegna che i piani di emergenza restano inutili opuscoli cartacei, o informatici, se non vengono condivisi, compresi, analizzati da tutte le componenti del sistema cui sono indirizzati. Il piano pandemico del ministero della Salute era probabilmente come tanti altri, un bel fascicolo cartaceo e informatico dimenticato in una polverosa biblioteca di Lungotevere Ripa e presente in una altrettanto “polverosa” casella del sito www. dello stesso ministero. Vorrei essere in errore su questa percezione ma credo, caro direttore, di non sbagliarmi se dico che forse meno del 10 per cento dei direttori sanitari del territorio conosceva quel piano, e ancor meno di quel 10 per cento aveva messo in atto le misure previste dallo stesso piano, come l’acquisto e lo stoccaggio di Dpi, le predisposizioni di settori e percorsi dedicati all’interno delle strutture sanitarie, la disponibilità di strutture e attrezzature di emergenza, la formazione dello staff sulle modalità di trattamento di persone a rischio di contagio etc. etc.
Questa è la ragione per la quale ritengo che la procura della Repubblica difficilmente troverà un colpevole in quel defatigante esercizio di ricerca delle responsabilità di chi non avrebbe curato la predisposizione, nonché l’aggiornamento, dell’ormai famoso piano pandemico. La responsabilità di quell’assenza è collettiva, non è di una persona o di un funzionario; è di una cultura imperante nell’intero sistema paese che vede nelle attività di prevenzione e preparazione alle emergenze una componente ancillare e secondaria del nostro lavoro quotidiano. In Protezione civile usiamo dire che con le attività di prevenzione non si vincono le elezioni! Per questa ragione mi sento di suggerire, quando sento dire che il Cts ha completato il suo mandato, “lunga vita al Cts!”.
Agostino Miozzo
Ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico (Cts)