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IL FOGLIO SALUTE

Idee per un consumo consapevole della carne rossa

Enrico Oddone*

No agli schieramenti preconcetti, guardiamo cosa dicono gli studi sulla cancerogenicità e agiamo di conseguenza 

Da qualche anno ormai ci è sorto il dubbio che la carne rossa possa essere cancerogena, cioè in grado di portare alla formazione di tumori maligni. Di fronte a notizie di questo tipo, che riguardano talvolta anche altri elementi della nostra vita quotidiana, è facile che si creino due partiti, i colpevolisti del ‘l’avevo sempre detto’ e gli innocentisti del ‘ma figurati’. Quando però le notizie sono la sintesi di studi scientifici non è mai una buona idea lasciarsi trasportare dalle emozioni e conviene invece cercare di capire meglio su quali basi poggi la notizia. Partendo da chi l’ha diffusa.

 
Nel caso specifico della carne rossa, la fonte principale di questa classificazione è la IARC (International Agency for Research on Cancer), agenzia dell’Oms con sede a Lione che, tra i propri compiti, ha quello di pubblicare studi monografici che indichino la potenziale cancerogenicità di svariati agenti presenti nella nostra vita quotidiana e di lavoro. La IARC rende quindi disponibile una sintesi delle evidenze scientifiche, prodotte da altri soggetti e pubblicate su riviste internazionali peer reviewed, che possano sostenere il giudizio di potenziale cancerogenicità dell’agente studiato per arrivare a un proprio giudizio finale: la classificazione di cancerogenicità.

 
Gli studi che vengono utilizzati per la valutazione possono essere di tre tipi: studi condotti sull’uomo, studi sull’animale da esperimento e studi sul meccanismo biologico che potrebbe stare alla base della cancerogenicità di quell’agente. Queste tipologie vengono considerate tra loro in modo gerarchico, ossia non è possibile classificare un agente come certamente cancerogeno se non vi sono studi che lo dimostrino sull’uomo (come per esempio lo studio di una popolazione di lavoratori esposti a una certa sostanza chimica che si sospetta essere cancerogena), mentre allo stesso modo uno studio su modelli animali (biologicamente più complessi) ha un peso maggiore rispetto agli studi in vitro, magari condotti su colture cellulari. 
In sintesi, è la somma dei singoli risultati che porta alla classificazione finale di un agente come certamente cancerogeno per l’uomo (gruppo 1), probabilmente (gruppo 2A) o possibilmente cancerogeno per l’uomo (gruppo 2B), mentre al gruppo 3 sono destinati tutti quegli agenti per cui una classificazione non è possibile allo stato dei fatti, ossia non vi sono basi scientifiche per fare una qualche affermazione.

  
Tutto bene quindi? Sì, a patto di considerare che questa classificazione è, come gran parte delle nostre conoscenze scientifiche, passibile di revisione e cambiamento. Un agente per cui oggi non esistono prove sufficienti rispetto alla cancerogenicità per l’uomo può essere ancora studiato, nuove evidenze si possono aggiungere e, sulla base di queste, essere rivalutato, generalmente per il suo inserimento in un gruppo a maggiore evidenza, subendo una specie di upgrade, come successo ad esempio, per i gas di scarico dei motori diesel, giudicati probabilmente cancerogeni per l’uomo nel 1989 e promossi a cancerogeni certi quasi 25 anni dopo, nel 2013. Inoltre, un certo agente può possedere uno o più organi bersaglio, ossia può essere un cancerogeno per un solo organo o per più d’uno e, ciascuna di queste associazioni agente-organo bersaglio possiede una propria classificazione, mentre poco note sono le interazioni tra diversi cancerogeni, che potrebbero avere un effetto tra loro sinergico, facendo aumentare il rischio di contrarre un tumore maligno. La più nota (e meglio studiata) tra queste sinergie è quella tra fumo di sigaretta ed esposizione ad amianto: chi viene esposto a entrambi gli agenti aumenta il proprio rischio di ammalarsi di tumore del polmone fino a un fattore approssimativamente uguale al prodotto del rischio di chi è esposto solo all’uno o solo all’altro agente.

   
Il panorama è quindi complicato, ma non dobbiamo farci troppo scoraggiare. È abbastanza intuitivo che la maggior parte degli agenti cancerogeni esplica la propria azione sugli organi con cui più facilmente viene a contatto: il polmone guida quindi la classifica con i suoi 31 cancerogeni noti secondo IARC (tra cui il fumo di sigaretta anche passivo, l’amianto e l’inquinamento atmosferico), mentre la cistifellea ne possiede solo uno, il Torio 232. E proprio queste considerazioni dovrebbero guidare maggiormente le campagne di informazione e prevenzione, comprese quelle sul consumo di carne rossa. Se andiamo a guardare con attenzione la valutazione IARC troviamo che il consumo generale di carne rossa è giudicato solo probabilmente cancerogeno (Gruppo 2A), mentre sono le carni processate (salate, affumicate, stagionate, trattate con nitriti o nitrati, cotte a elevate temperature) a possedere il maggiore potenziale cancerogeno (Gruppo 1). Meglio allora abbandonare gli schieramenti emotivi e usare le classificazioni capendone il contenuto per farci guidare a un consumo consapevole e, magari, moderato.

 
*Enrico Oddone è ricercatore all'Università degli studi di Pavia

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