Lo studio
Virus buono e variante delta. Tutte le teorie sbagliate e quello che finora sappiamo
Uno studio poderoso su come si evolverà il virus, sulla contagiosità della variante delta. Le previsioni e il ruolo finora decisivo dei vaccini
SARS-CoV-2: evoluzione in corso.
Introduzione: avremo per forza un virus più benigno?
Qualcuno sostiene la teoria del “non bruciare la propria casa” applicata ai virus: vi sarebbe una tendenza di natura a produrre varianti via via meno pericolose per l’ospite, in modo da garantire che il numero di ospiti da infettare non decresca, con reciproco vantaggio del parassita e del suo ospite.
Questa teoria è semplicemente falsa nelle sue premesse, identificando come necessario un certo processo favorevole a causa della fallace convinzione di un equilibrio di natura, quando non esplicitamente di una natura benigna, e soprattutto per l’idea che l’evoluzione naturale massimizzi il bene dell'ospite per favorire la proliferazione del parassita in un numero maggiore di ospiti.
Dal punto di vista tecnico, è una teoria sbagliata perché:
a) finché vi è abbondanza di individui suscettibili da infettare, e finché la morte degli infetti avviene dopo la trasmissione a terzi, non vi è nessuna pressione selettiva a diminuire la mortalità o la patogenicità;
b) la diminuzione degli individui suscettibili da infettare, cui porta l’immunità che nella popolazione si sviluppa naturalmente, seleziona varianti in grado di superare le precedenti risposte immuni, il che non implica nessuna necessaria variazione degli effetti clinici dell’infezione;
c) dal punto di vista della selezione darwiniana, gli effetti clinici di un virus possono essere del tutto disaccoppiati dalle sue capacità infettanti e replicative;
d) per un virus come SARS-CoV-2, capace di avere più specie ospiti diverse, la scarsità degli ospiti in una certa specie può essere compensata tramite il passaggio ad un’altra, potendo teoricamente comportare anche l’estinzione della prima.
Evoluzione darwiniana dei virus: tendenze generali.
Dunque come evolvono i virus (tutti, non solo questo)?
Innanzitutto, ricordiamo che vi è una fortissima componente stocastica nelle traiettorie evolutive: le previsioni di dettaglio circa la permanenza di un ceppo (o dell’intera specie) e la variazione in una certa direzione sono semplicemente impossibili, e la storia dei virus precedenti è una storia che può illustrare quali siano le possibilità sin qui realizzate, non di certo quali saranno i panorami che vedremo.
Detto questo, è possibile identificare alcune tendenze generali.
La prima: la contagiosità delle varianti che via via emergeranno sarà uguale o superiore a quella delle varianti precedenti. Questa è una semplice conseguenza della competizione tra varianti diverse: chi si propaga di più, lascia più discendenti; chi di meno, sparisce. Una tautologia, che ripete semplicemente l’enunciazione della visione di Darwin: chi ha fitness maggiore (cioè lascia un numero maggiore di discendenti), si espanderà di più. Questa previsione è stata perfettamente verificata nel caso di SARS-CoV-2: nella figura seguente, per esempio, si fa il punto delle informazioni disponibili al momento della sua pubblicazione, e si mostra come sia attesa l’emergenza di nuove varianti con R0 via via più elevato – evento puntualmente verificatosi con la variante delta.
Naturalmente, la crescita della contagiosità può raggiungere un massimo, la cui posizione noi non possiamo prevedere; fino a quel momento, finché il virus circola in popolazioni di ospiti sufficientemente connesse da evitare particolari condizioni di “effetto isola” in cui casualmente varianti meno contagiose possano trovarsi temporaneamente senza competitori, non si osserveranno diminuzioni della contagiosità, ma solo aumenti fino al limite massimo imposto dalla struttura del virus e da comportamenti e struttura di popolazione delle specie ospiti.
La seconda tendenza può enunciarsi così: nel tempo, quando l’immunità di popolazione si diffonde e se permane sufficientemente a lungo da esercitare pressione selettiva, emergono varianti in grado di aggirarla, scatenando nuove pandemie. Come e quando questa immunità sia raggiunta – attraverso i vaccini o attraverso l’infezione naturale – comporta differenze rilevanti per la popolazione degli ospiti, che sarà più salvaguardata nel caso dei vaccini (perché questi consentono di raggiungere l’immunità senza passare attraverso l’infezione, evitando quindi il grosso delle morti e delle malattie). Per inciso, val la pena di ricordare che l’immunità di gregge, come ho più volte sottolineato, è un’astrazione matematica che piace molto ai politici perché è un obiettivo o un traguardo rivendicabile, ma che vale solo per una popolazione chiusa, omogeneamente immunizzata e nei confronti di un virus che, dal punto di vista immunogenico, non muti; tutte queste tre condizioni, nel concreto, sono impossibili o molto difficili da realizzare.
La terza tendenza inevitabile si manifesta nel caso in cui si utilizzino farmaci antivirali. Per ora, ne sono stati trovati pochi e relativamente poco utili: ma sia nel caso dell’utilizzo del Remdesivir, sia nel caso dell’utilizzo degli anticorpi monoclonali, è stato dimostrato in vitro e in vivo, e nel caso dei monoclonali anche nei pazienti, la veloce selezione di varianti che annullano l’effetto del farmaco somministrato. Questa è una delle ragioni per cui, probabilmente, i farmaci più utili e di lungo uso, se ne troveremo, agiranno sull’ospite, invece che sul virus: curare la malattia agendo su componenti umane, infatti, elimina il problema che i bersagli dei farmaci possano mutare e rendere inefficace la terapia.
Queste prime tre tendenze – quella ad aumentare la contagiosità, l’immunoevasività e la resistenza ad eventuali farmaci – sono inevitabili.
Vi sono però altre possibilità, che non necessariamente si manifesteranno in futuro come nel caso delle tre tendenze precedenti.
Mere possibilità, quindi, ma che sono interessanti per illustrare alcune delle proprietà dell'evoluzione biologica dei virus.
Virus più stabili nell’ambiente.
Può per esempio verificarsi il caso di mutazioni strutturali del virus che consentano una maggiore stabilità ambientale; in questo caso, la contagiosità aumenterà perché l’ambiente contaminato sarà più a lungo infettivo, senza che si osservi una differenza necessariamente nel numero di contagiati per unità di tempo, quanto piuttosto solo nel numero di contagiati totali a partire da una sola persona. R0 aumenterà quindi solo perché la finestra temporale in cui un ambiente contaminato può infettare è più lunga.
Diventerà un raffreddore?
Può anche verificarsi il caso in cui il tropismo del virus muti, cioè il virus cambi localizzazione preferita all’interno del corpo dell’ospite. Vi sono in particolare alcune localizzazioni che rendono più difficile la risposta immune: è il caso del sistema nervoso, in cui si rifugiano i virus erpetici, o di certe componenti del sistema immune, come nel caso di HIV. Inoltre, per un virus a diffusione aerea, come SARS-CoV-2, può essere particolarmente vantaggiosa la colonizzazione ad alta intensità delle mucose nasali: qui infatti è possibile indurre sintomi che aumentano la diffusività attraverso i più potenti e veloci getti d’aria che siamo in grado di emettere, ovvero gli starnuti. Inoltre, svolgere l’intero ciclo infettivo in un luogo relativamente superficiale del corpo, come appunto le mucose nasali, rende anche il tutto più rapido: la comunicazione del virus da “naso a naso” è ovviamente più agevole rispetto a localizzazioni più profonde nell’apparato respiratorio. Ma perché un virus dovrebbe mutare, per esprimere un tropismo preferenziale nei confronti del naso, rispetto, per esempio, ad un virus in grado di colonizzare bene i polmoni? Il punto è che l’interno del naso è un ambiente abbastanza particolare rispetto al resto del corpo. Per esempio, il sistema immune a livello di mucose nasali è diverso e speciale; questo perché l’immunità nasale è parte di un antico sistema di difesa delle mucose, emerso presto nei vertebrati. È a questo locale sistema di difesa che bisogna adattarsi, per colonizzare efficacemente il naso; e questo può richiedere un certo grado di differenziazione e specializzazione, rispetto a progenitori virali meno selettivi. I vantaggi in termini di contagiosità per virus che raggiungano un’alta carica nelle mucose nasali, così, possono richiedere l’emergere di mutazioni adattative per essere sfruttati efficientemente; se il bilancio in termini di contagiosità è favorevole, queste mutazioni tenderanno a diffondersi nella popolazione virale, differenziando dei ceppi virali “specialisti” per il naso. Vi è pure da dire che i vaccini attualmente in uso potrebbero essi stessi selezionare varianti virali in grado di replicarsi ad alta efficienza nel naso; con Astra Zeneca, per esempio, in animale è risultato che si raggiungeva immunità sterilizzante nei polmoni, ma non nel naso; e così potrebbe essere anche per tutti gli altri vaccini, vista la loro farmacodinamica, modalità di somministrazione e capacità differenziale di proteggere dalla malattia più che dall’infezione. Vaccini che generano immunità per una durata di almeno qualche mese nell’organismo, ma non nel naso, ovviamente spingeranno verso la selezione di varianti in grado di selezionare meglio questo ultimo ambiente.
Significa quindi che, alla lunga, SARS-CoV-2 evolverà necessariamente in direzione di un raffreddore, come taluni si affannano a ripetere?
Difficile dirlo. Se l’infezione da parte di queste varianti più benigne e più contagiose fosse in grado di indurre immunità crociata rispetto alle altre varianti, la risposta potrebbe essere di sì, esattamente per le stesse ragioni per cui utilizziamo i vaccini, visto che queste varianti raggiungerebbero la maggior parte della popolazione umana più rapidamente delle altre a causa del loro tropismo per le mucose nasali. Se invece l’infezione da parte di queste non pregiudicasse la co-infezione con i ceppi predecessori, proprio la specializzazione per sfruttare nicchie diverse potrebbe semplicemente portare alla coesistenza dei due virus: uno più patogeno, uno meno – come osservato per altri virus. Noi non possiamo sapere oggi quale delle ipotesi potrebbe verificarsi; ancora una volta, la natura non si piega ai nostri desiderata, né i virus evolvono verso direzioni che siano necessariamente a noi più favorevoli.
Virus più persistenti nell’ospite.
Potrebbe poi verificarsi il caso in cui la finestra di tempo in cui un individuo è infettivo si allunghi. A ciò possono concorrere mutazioni di effetto diverso: può allungarsi il tempo di residenza all’interno dell’ospite, per esempio attraverso mutazioni immunoevasive sulle proteine superficiali del virus come la Spike o altre, o attraverso l’emersione di mutazioni in altre proteine che consentono al virus di modulare la risposta immune dell’ospite; può aumentare la carica virale nell’ospite, prolungando il tempo in cui essa è sufficiente a contagiare gli altri, per esempio attraverso mutazioni della polimerasi virale, che può divenire più efficiente, o di quelle proteine che controllano l’assemblaggio dei nuovi virus; possono diminuire i sintomi più invalidanti, così che mediamente gli ospiti si muovano di più ed abbiano maggiori contatti sociali prima di mostrare sintomi seri, magari senza consapevolezza di essere infetti, per esempio attraverso mutazioni di quelle proteine virali che attivano maggiormente la risposta mediata dalle interleuchine; e così via. Anche nel caso di un tipo di adattamento che allunghi la finestra di infettività, quindi, non possiamo sapere se le mutazioni dei ceppi virali saranno a noi benigne o meno: potrebbero emergere mutazioni che diminuiscono i sintomi, come abbiamo appena visto, ma anche mutazioni che aumentano la carica virale, rendendo per esempio più citopatico il virus. Quale meccanismo di adattamento prevarrà, dipende dal caso e dal bilancio finale in termini di vantaggio per la contagiosità; è un azzardo puntare su ciò che a noi converrebbe.
Il caso della variante delta.
La variante delta è innanzitutto molto più contagiosa delle precedenti. Questo è un dato per cui vi è certezza, ed è in linea con le previsioni generali che derivano dal meccanismo darwiniano. Ciò si è realizzato anche attraverso il contributo di una combinazione di mutazioni della proteina Spike, che aumentano probabilmente la capacità di legare ACE2, il suo recettore di ingresso nelle cellule, e quindi rende più facile la colonizzazione delle cellule bersaglio. Oltre a queste mutazioni nella proteina Spike, deve esserci altro a contribuire alla maggiore contagiosità della delta; ne parleremo fra poco.
Vi sono poi prove abbastanza solide che la variante delta sia in grado, attraverso alcune ulteriori mutazioni della proteina Spike, di evadere almeno in parte l’immunità naturale indotta da infezioni con altri ceppi e quella indotta dai vaccini su quei ceppi disegnati. Una immunoevasione parziale, si badi bene, che non pare sufficiente a superare la barriera vaccinale per quel che riguarda le conseguenze cliniche. Le mutazioni immunoevasive in questione non sono state selezionate dai vaccini, ma sono emerse prima che qualunque vaccino esistesse e si sono diffuse “a traino” delle mutazioni che aumentavano la contagiosità. Le stesse mutazioni, peraltro, prima della disponibilità dei vaccini sono emerse più volte indipendentemente in pazienti con risposta immune subottimale, infetti a lungo; così come in pazienti trattati con anticorpi monoclonali e perfino in saggi di laboratorio, dopo trattamento con gli stessi monoclonali. Sono le famose “omoplasie” di cui si parlava così tanto un anno fa, abusandone il significato perché se ne sottintendeva l’indubbia benignità: mutazioni che emergono ripetutamente e indipendentemente in molti ceppi ed in molti luoghi, perché di accesso relativamente facile al virus e perché selezionate positivamente (qui dal nostro sistema immune), le quali nel caso di specie sono a noi sfavorevoli.
La variante delta, in aggiunta, risulta da dati abbastanza solidi raggiungere cariche virali superiori rispetto a quelle che la hanno preceduta. Questo è un dato che può ulteriormente contribuire a spiegarne la contagiosità; ma siccome la correlazione fra la carica virale in singoli sottogruppi di pazienti e la trasmissibilità ad altri del virus è ancora incerta, dovremo aspettare per essere sicuri su questo punto. Sta di fatto, tuttavia, che cariche virali più alte implicano mutazioni che conferiscano capacità di replicarsi con maggiore efficienza; come abbiamo visto, questo è uno dei modi attraverso cui un virus può allungare la finestra di infettività quando all’interno di un paziente, ed infatti i primi dati resi noti sembrano confermare un allungamento del periodo di diffusione del virus da parte dei soggetti infetti. Se questi dati, ancora deboli, saranno confermati, qui si è realizzata una delle possibilità negative illustrate in generale più sopra. Gli stessi dati sulla carica virale, da prendere quindi con la stessa cautela, potrebbero anche spiegare l’apparente maggiore patogenicità del virus nei soggetti non vaccinati, che da almeno tre studi diversi è stata documentata: carica virale più alta può causare una citopaticità (cioè un danno cellulare) maggiore, come si può facilmente immaginare. Un’altra possibilità negativa che potrebbe essersi realizzata, dunque.
La variante delta, in sostanza, mostra l’evoluzione del virus in direzione di maggiore contagiosità, maggiore patogenicità (nei non vaccinati) e maggiore immunoevasività (maggiore dei ceppi precedenti, non totale).
È quindi un buon esempio della fallacia delle credenze richiamate in apertura; speriamo che sia anche un esempio sufficiente ad insegnare qualcosa.
Conclusioni.
Viviamo una fase storica in cui una certa quasispecie virale si è espansa fortissimamente, fino a determinare una pandemia globale (senza contare i contagi animali, di cui sappiamo poco).
In queste condizioni di alta circolazione virale globale, possiamo fare alcune previsioni.
L’emersione di varianti più contagiose, anche in assenza di azioni umane che possano esercitare selezione, è inevitabile; in tempi più o meno rapidi, è anche inevitabile l’emersione di varianti maggiormente evasive dell’immunità generata da virus precedenti o da vaccini. Allo stesso modo, in presenza di farmaci antivirali, anche migliori degli attuali, emergeranno varianti resistenti. Le mutazioni di resistenza e immunoevasività, ancora inevitabilmente, si accumuleranno per ricombinazione in singoli virus che porteranno anche le mutazioni che aumentano la contagiosità (come in parte già osserviamo per la variante delta).
Sebbene esistano delle traiettorie mutazionali possibili che portano a virus più contagiosi, ma meno pericolosi da un punto di vista clinico, queste traiettorie sono solo alcune fra tante, e non vi è possibilità di sapere in anticipo se una certa popolazione virale imboccherà una strada o un’altra.
Pertanto, fino a che non si avrà una diminuzione drastica della quantità di virus circolante – per eventi stocastici o a causa del raggiungimento di una immunità particolarmente efficace e duratura, teoricamente possibile se si riesca ad immunizzare contro porzioni del virus che non possono mutare senza causare danno al virus - vaccini e farmaci non sono da intendersi come rimedi definitivi, ma come strumenti di mitigazione del danno.
In questo, i vaccini attuali si sono mostrati formidabili; senza di essi, il rischio clinico sarebbe stato molto più elevato nei paesi che hanno immunizzato su grande cala i propri cittadini, senza contare che varianti ancora più contagiose emergerebbero ancora più rapidamente (a causa del maggior numero di cicli replicativi in un maggior numero di persone per unità di tempo, che si avrebbe senza la protezione comunque offerta anche dall’infezione soprattutto da parte delle varianti pregresse alla delta, ma anche da questa ultima).
Per i motivi elencati, la ricerca di nuovi farmaci e vaccini non può fermarsi, così come la pianificazione di nuove campagne di sanità pubblica. Potremmo infatti anche essere fortunati, e potrebbe realizzarsi un evento benigno che porti all’estinzione del pericolo (non necessariamente del virus); ma questa probabilità è nell’immediato remota, vista la diffusione del virus, ed in generale anche in futuro una mera possibilità.
La libera circolazione del virus, d’altra parte, condurrebbe solo a danni maggiori, sotto forma sia di malati e di morti che di varianti peggiori; mentre, al contrario, poter contare su vaccini adattati senza soluzione di continuità e farmaci di nuova generazione consentirà di recuperare la serenità e la salute di cui abbiamo bisogno come comunità.
La questione è molto semplice, alla fine: a meno di colpi di fortuna, per fronteggiare l’evoluzione di un virus, dobbiamo evolvere i nostri rimedi.
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