Il cielo confuso della pandemia
Covid, detti e contraddetti su contagi, vaccini e lockdown
Dal passato abbiamo tentato di imparare come curare la società, tra mascherine, distanziamenti e regole discrezionali. Niente ha ancora funzionato davvero. Ecco un catalogo
Siamo, secondo i giornali, all’inizio di una “quarta ondata” della pandemia Covid-19. Un’ondata diversa dalle precedenti, perché incontra una popolazione italiana ormai vaccinata (61 per cento con la prima dose e 55 per cento con due), ma anche molto simile, per l’ansia che attraversa il dibattito pubblico. Già la metafora dell’ondata, o della curva da appiattire, è impropria: globalmente e localmente si tratta di focolai sparsi sul territorio, non necessariamente sincronizzati. Da quando Sars-Cov-2 è entrato nelle nostre vite, giorno dopo giorno il nostro mondo è diventato più simile a quello di Alice nel Paese delle meraviglie: un mondo dove ogni cosa è anche il suo contrario. E’ un paradosso: le armi più potenti che abbiamo contro il virus ci sono state messe a disposizione dalla scienza, ma il modo nel quale parliamo del virus pare impermeabile al pensiero critico.
Questo non ci deve stupire.
Le pandemie sono fenomeni sociosanitari recenti nella storia evolutiva della nostra specie. Prima che si formassero società agricole di dimensioni sufficienti per consentire la circolazione di patogeni virulenti, in larga parte tracimati dagli animali addomesticati o favoriti dall’ecologia delle coltivazioni, le epidemie non esistevano, e prima dei processi di globalizzazione sostenuti da mezzi di trasporto più rapidi di carovane ed eserciti non esistevano le pandemie in senso moderno. Le risposte a queste novità epidemiologiche per le comunità umane erano alcune intuizioni cognitive acquisite come cacciatori-raccoglitori, come l’euristica del contagio (se tocco un malato magicamente posso ammalarmi), l’emozione del disgusto (il ribrezzo per la condizione del malato mi aiuta a starne lontano), e la ricerca del capro espiatorio, ovvero il bisogno di trovare una causa o una spiegazione psicologicamente soddisfacente della minaccia incombente sul futuro e sulle persone care. Con questi pochi strumenti, la nostra specie ha navigato per millenni nei “miasmi”, nell’idea cioè che esistessero fetori che conducevano a malattie immediatamente letali che improvvisamente colpivano un’intera comunità, fino alla scoperta circa 150 anni fa che le infezioni erano trasmesse dai microrganismi. Di fatto, quelle erano risposte individuali funzionali alle logiche di sopravvivenza e riproduzione, si trattava di processi cognitivi ed emotivi selezionati e funzionali limitatamente a demografie definite, ma che erano di ben poco aiuto in mancanza di conoscenze e mezzi di intervento.
Abbiamo dunque: l’esperienza di un fenomeno che è antica se misurata sul metro dell’individuo ma troppo recente per lasciare solchi che determinino e spieghino le nostre azioni e reazioni; euristiche e meccanismi pre-razionali di comportamento, con i quali “ci arrangiavamo” prima che la scienza moderna ci aiutasse a mettere meglio a fuoco i contorni del problema; la scienza, che è la vera novità in tutto questo scenario. Le tre condizioni, però non si incastrano facilmente: non ci siamo evoluti per essere naturalmente degli scienziati e le euristiche, cablate nel genoma/cervello, ci portano a preferire spesso le pseudoscienze. Qualcuno dice che le dissonanze o mismatch, tra il passato evolutivo e il presente culturale, sono i problemi con cui si devono arrabattare le società moderne, che giustamente ma anche troppo scontatamente definiamo “fondate sulla conoscenza”.
Non sta ancora succedendo, ma più passa il tempo e più dovremo rivedere il nostro giudizio su quanto è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi. Quando, il 9 marzo scorso, Giuseppe Conte annunciò il primo lockdown, la memoria ancestrale di quelle euristiche ha portato i più a una deduzione scontata: questa volta tocca a Hobbes. Per evitare che la vita torni nasty, brutish and short, dobbiamo affidarci a un “protettore”, un po’ sciamano e un po’ capotribù, lo Stato. In realtà, più passa il tempo e più sarà chiaro che la pandemia Covid-19 ha mostrato l’inadeguatezza dei punti di vista che assumono le dinamiche sociali come razionalmente controllabili.
Gli stessi obiettivi dei decisori sono diventati sempre meno chiari, col passar dei mesi. Dovevamo “appiattire la curva”, per evitare il sovraccarico del sistema ospedaliero. Ora la curva è piatta ma non per questo abbiamo sviluppato un approccio meno ansioso e più razionale al virus. Come il cane di Pavlov ci siamo condizionati a temere che ogni increspatura sia l’annuncio di una nuova ondata. Qualcuno ha sognato “zeroCovid”, che i paesi del Commonwealth ci insegnano essere più che altro “zero libertà di movimento (e un po’ di Covid egualmente)”. Siamo andati alla ricerca dell’immunità di gregge, adesso che è a portata di mano (il generale Figliuolo ripete che nelle prossime settimane l’80 per cento della popolazione sarà vaccinata con due dosi) sembra non bastarci più.
La confusione delle politiche è confusione delle idee. A un anno e mezzo dalla comparsa di Sars-CoV-2 nelle nostre vite presumiamo di sapere molte cose che non sappiamo, e ci siamo convinti di altre che semplicemente non hanno basi scientifiche.
Cominciamo dal concetto forse più importante. Come avviene il contagio, come si trasmette il virus? Dai leader ci si aspetta, naturalmente per così dire, un appello a vaccinarsi. Ma non è vero che “se non ti vaccini, ti ammali e muori oppure contagi e fai morire”. Le conseguenze del contagio sono diverse da individuo a individuo e il messaggio terroristico favorisce il ricorso alle euristiche pseudoscientifiche, più che l’uso del pensiero critico. Per la sua “costituzione”, come si diceva una volta, per la presenza di co-morbidità, o per gli stili di vita, l’anagrafe, etc. Ogni caso clinico e ogni contatto tra ospite e virus è una storia a sé. Se si prende il punto di vista statistico della società si descrive un fenomeno generale senza spiegare nulla. Non si infettano le società ma sempre e solo gli individui. Invece la tendenza è a pensare che tutti siamo ugualmente esposti e che ciascuno non sia che una tessera anonima che, cadendo, farà cascare tutto il domino.
Un tema molto discusso è se e quando arriveremo a convivere con Sars-CoV-2, cioè se presto o tardi diventerà uno dei coronavirus che causano il banale raffreddore. Ovvero rimarrà una minaccia constante, pronto a evolvere verso forme più virulente come Mers, per esempio. Anche se non è una legge biologica che i tratti della trasmissione e della virulenza dei parassiti siano in conflitto, per virus che passano per via aeree, accade con più probabilità che se l’ospite non muore presto o rimane quasi asintomatico nei casi più socialmente attivi, la trasmissione avviene più facilmente. Quindi in teoria potremmo aspettarci che la virulenza non sarà facilmente premiata. Ma non è scontato. Come diceva provocatoriamente il più influente biologo evoluzionista del secolo scorso, Ernst Mayr, esiste una sola legge in biologia: “Non esistono leggi in biologia”.
Queste poche considerazioni dovrebbero servire ad abbassare un po’ il volume del dibattito. Che però resta alto: un po’ perché, come abbiamo detto siamo in una situazione che capiamo poco, per la quale gli strumenti che utilizziamo di prassi per destreggiarci nel mondo sono inadeguati. Ma al problema cognitivo si somma la necessità politica. Cambiamenti importanti alle abitudini di vita come quelle dell’ultimo anno devono essere legittimati innanzi all’opinione pubblica. Di nuovo, sarebbe il tempo di Hobbes, perché “è sempre stato così”. Durante una pestilenza i diritti dei molti devono prevalere sulla libertà dei singoli.
Siamo animali sociali, quindi la spiegazione parrebbe sensata. Ma è davvero così? Nel corso della storia umana, le epidemie e pandemie si spegnevano da sole, quando il serbatoio dei suscettibili si esauriva, ovvero perché le persone scappavano o una qualche forma di immunità collettiva si era prodotta naturalmente. Le società non hanno mai svolto alcun ruolo di protezione degli individui e da questo punto di vista modulavano i fenomeni per via statistica La quarantena cui i veneziani sottoponevano merci e persone provenienti da località “sospette” avevano la funzione di tenere gli infetti lontano dalla città (con relativo successo) ma ciò avveniva quando la peste aveva un esito letale oppure si curava da sé. Non c’erano ospedali da salvaguardare e neppure l’ambizione di fare altro che lasciare i malati al loro destino – la terapia intensiva esiste solo dagli anni Cinquanta. La società non “difendeva sé stessa”, a meno di non considerare la società come composta soltanto dai sani.
Oggi gli antivaccinisti rifiutano la scienza moderna perché capitalista. Al contrario i vaccinisti usano gli stessi argomenti degli sciamani africani
Del resto, le misure di distanziamento o di riduzione della possibilità di contagio duravano poco: non c’erano mezzi materiali per proseguire a lungo, a un certo punto le merci dovevano sbarcare e i traffici riprendere. Fino a fine Ottocento i medici e sanitari si dividevano tra contagionisti e anticontagionisti: i primi erano contro la libera circolazione di uomini e merci quali supposti vettori di epidemie, i secondi criticavano le quarantene negando il meccanismo del contagio e denunciavano gli effetti economici devastanti delle misure restrittive. Le scoperte scientifiche hanno dato ragione ai primi (anche se fino a Pasteur l’idea di contagio e la sua associazione a specifiche malattie contagiose rimasero vaghe), che però spesso coincidevano con i settori più retrivi e conservatori della società: la malattia veniva loro utile soprattutto per opporsi al libero movimento delle persone, insomma.
Oggi sappiamo che le infezioni più letali nella storia umana sono state quelle che causavano forme respiratorie e/o si trasmettevano per via aerea, come vaiolo, influenza, tubercolosi o peste (non era la forma bubbonica trasmessa dalle pulci quella più diffusa ai tempi di Giustiniano o nel Trecento, ma la peste polmonare). Contro di esse, le quarantene (distanziamento fisico e mascherine, nel mondo di oggi) potevano funzionare, mentre non servivano a nulla contro colera, febbre gialla, malaria, tifo esantematico, Aids, etc. Per questo motivo, fino a quando non sono state scoperte le cause biologiche delle epidemie, il dibattito tra contagionisti e anticontagionisti era mera polemica: ognuno poteva trovare esempi che gli davano ragione scegliendo le malattie opportune.
Le misure politico-sociali e la loro efficacia nel passato sono di poco conto per capire cosa è accaduto e sta accadendo oggi.
Il guaio è che invece abbiamo pensato di trarne ispirazione per mettere insieme pacchetti di disposizioni anti-pandemiche. Chiamarle regole è forse eccessivo, perché le regole tendono a essere stabili, invece abbiamo assistito a conclamati esercizi di discrezionalità. Mascherine, test diagnostici, algoritmi di tracciamento, presunti trattamenti, durate del lockdown, distanze fisiche da tenere, intervalli tra dosi vaccinali, etc. sono stati consigliati o sconsigliati più a occhio (non proprio clinico), che affidandosi a quelle prove di evidenza che erano diventate il leitmotiv della medicina.
Viviamo in società più popolose che mai nella storia umana e una delle parole più gettonate di questi anni è “complessità”. Complessità, in ambito sociale e anche quando si usano modelli fisico-matematici, significa comprendere il ruolo delle aspettative e dei comportamenti individuali, nel comporre un puzzle collettivo che raffigura qualcosa, tuttavia, di assolutamente ignoto ai singoli così come agli osservatori finché non è stato composto.
E’ una delle grandi contraddizioni di questi mesi. I governi sono affiancati, quando non guidati, da economisti, cioè da scienziati sociali abituati a ragionare sul ruolo delle aspettative, su quello degli incentivi e sul fatto che i comportamenti delle persone non sempre si conformano alle regole. Quando un essere umano trova un ostacolo, prova a saltarlo o aggirarlo per raggiungere i suoi obiettivi. Invece, abbiamo usato obblighi e norme come se gli individui fossero razionali nelle loro scelte e perfettamente convinti della coincidenza fra benessere individuale e correttivo. La statistica con cui sono catturate le fenomenologie sociali è sempre descrittiva. Se non si fanno confronti e non si usa il “se” condizionale (se vieto questo, cosa succederà a quello?), o l’immaginazione controfattuale non si fa della scienza, ma si va solo alla ricerca di regolarità per fare delle stime. E’ quel che si è fatto di norma per mappare l’epidemia e dando le cause per scontate o assumendo quelle più intuitive, invece di controllarle.
I vaccini e le vaccinazioni sono un altro esempio interessante, dove si può studiare come e perché aspettative e scelte individuali producono effetti sociosanitari d’insieme. Ma non c’è proprio modo di capire i comportamenti individuali rispetto al vaccino partendo da una presunta logica che riguarda la società tutta. Come abbiamo detto la logica sociale con le epidemie/pandemie era quella banalmente statistica della cosiddetta legge dell’azione di massa: ogni patogeno trasmissibile richiede una soglia minima di popolazione suscettibile per circolare e provocare una epidemia. Un fatto, questo, scoperto addirittura nel 1846 dal fisiologo danese Peter Panun, studiando un’epidemia di morbillo nella Isole Faroe.
Poco dopo l’anno mille le comunità della Cina, e in seguito quelle dell’India, dell’Asia minore o dell’Africa subsahariana, immunizzavano i giovani contro il vaiolo usando una variante meno letale del vaiolo umano stesso. Non risulta che vi fossero obiezioni sociali. Era un intervento relativamente protettivo (circa 2/3 su cento, contro circa 30 su cento che si ammalavano e morivano) contro le deturpazioni e la morte da vaiolo, praticato come un rituale.
Se dunque nelle società tradizionali le vaccinazioni empiriche e rischiose, come la variolazione erano da tutte accettate, è quando arrivano nell’Occidente illuminista che diventano controverse: sono innaturali e consistono nell’auto-somministrarsi qualcosa di pericoloso. I precursori dei NoVax sono Kant e Rousseau.
Anche oggi gli anti-vaccinisti rifiutano la scienza moderna con idee intrise di roussovianesimo: i vaccini sono considerati riprovevoli in quanto prodotti del connubio scienza/capitalismo, sarebbero “sperimentali” (non ci si può fidare dei protocolli di una società complessa e basata sulla proprietà privata!), eccetera.
Nello stesso tempo, i vaccinisti difendono il vaccino con argomenti non dissimili da quelli degli sciamani africani. Il vaccino è diventato una promessa di salvezza, doveva togliere i peccati del mondo quindi eradicare la malattia. Anziché spiegare i vantaggi individuali ed “egoistici” della vaccinazione, si è investito sulla credenza che tutti gli individui debbano annullarsi in una inesistente monade sociale, “chi non si vaccina è nemico del popolo”, rischia di complicare o vanificare il buono fin qui ottenuto.
Se le dinamiche sociali dipendono da interazioni individuali tra ospite e parassita, da un lato, e tra le persone, dall’altro, il compito dei governanti dovrebbe essere quello di fornire prima di tutto delle indicazioni perché le scelte prese liberamente siano davvero quelle nell’interesse delle singole persone. Fanno parte delle nostre disposizioni psicologiche, selezionate evolutivamente, attitudini che da una lato ci rendono avversi al rischio (i vaccini sono l’unico medicinale con un minimo di rischio che si somministra a una persona non per curarla e di norma sana), e dall’altro cementano le comunità dei primati e anche le società umane da sempre, attraverso la fiducia.
La comunicazione è un complesso gioco di aspettative basate sulla teoria della mente, reputazione, pertinenza dei messaggi, etc. che serve a creare cooperazione e reciprocità, e a ridurre gli effetti del sospetto che serve a prevenire verso possibili scambi personalmente svantaggiosi, come vediamo bene nei comportamenti economici. La comunicazione, almeno in Italia, è stata pessima, da subito e lasciata nelle mani di spazi mediatici conflittuali, quando sarebbe stato strategico non alimentare la naturale sospettosità umana. La surreale discussione sui rischi dovuti al vaccino Oxford/AstraZeneca, con la temporanea sospensione e quindi una rassicurazione quasi opaca, e poi il pasticcio degli open days, che ha trasformato un’idea che poteva funzionare per vaccinare moltissimi ragazzi in uno spavento per tanti genitori.
Nel paese che in Europa ha i più bassi livelli di fiducia verso le istituzioni, ci si poteva aspettare il peggio. E invece siamo fortunati: secondo gli ultimi sondaggi i NoVax sarebbero solo il 7 per cento della popolazione (erano stimati al 5 per cento o meno l’anno scorso) e gli indecisi il 10 per cento.
Dove non arriva la confusione delle parole arriva quella delle politiche.
Si è cominciato a invocare l’obbligo vaccinale, facendo confusione tra obbligo e requisito: nel primo caso tutti devono farlo senza se e senza ma, con sanzioni automatiche in caso di defezione, mentre nel secondo non si accede a certi servizi (inclusa l’istruzione) senza essere stati vaccinati. Gli obblighi vaccinali hanno funzionato solo in circostanze molto limitate: per malattie infantili molto gravi e con somministrazione limitata a plessi sanitari o scolastici. Come attuazione di un dovere morale e civico non ci sono prove che l’obbligo sia una strategia valida, e infatti a livello generalizzato ci ragionano solo i regimi totalitari. Inoltre, la storia di una famosa sentenza della Coste Suprema USA, del 1905, che affidava allo stato una discrezionalità che in quel momento aveva senso perché in troppi si opponevano alla vaccinazione antivaiolosa dei bambini che erano obbligati anche ad andare a scuola, ci dice che in anni successivi fornì copertura giuridica alle sentenze di sterilizzazione coatta dei ritardati secondo le leggi eugenetiche in diversi stati federali. Nel 2020 quella stessa sentenza è stata citata per negare allo stato di New York il diritto costituzionale di vietare gli assembramenti, contro Covid, nei luoghi religiosi.
Il Green Pass rientra nella logica del requisito, più che in quella dell’obbligo. Esso è celebrato dai suoi sostenitori con una logica “punitiva”: “costringe” gli esitanti a vaccinarsi, pena non accedere a certe attività. ll paradosso del Green Pass è che, con questi tassi di vaccinazione, si tratta di una regolamentazione il cui impatto, grande o piccolo, sarà sostenuto quasi integralmente dai vaccinati. E’ probabile che coloro che vanno ai concerti e che amano uscire a cena appartengano ai settori della popolazione a reddito più elevato e meglio informati. Sono loro che dovranno esibire il nuovo certificato o sostenere indirettamente l’aggravio di costo che gli esercenti, comprensibilmente, “ribalteranno” sul consumatore.
I non vaccinati vivono sostanzialmente in aree rurali, hanno redditi più bassi, non seguono costantemente i flussi d’informazione di media e social, o se usano questi mezzi frequentano solo le loro “camere dell’eco”. L’impressione è che non si sia pensato a calibrare un incentivo, ma a esigere una sorta di pubblica penitenza.
Intanto i NoVax reagiscono al vaccino con una campagna di libertà il cui esito logico sarebbe la richiesta di nuovi lockdown. Come dimostra un report dei CDC di Atlanta, è l’effetto boomerang di una comunicazione che, su vaccini e variante Delta, ha confuso benefici per la società e benefici per gli individuo. Si sapeva da subito che i vaccini sono più efficaci contro l’ospedalizzazione, un po’ meno contro la malattia e un po’ meno ancora contro la trasmissione. Ma, dando alle persone informazioni contraddittorie, si è consentito che qualcuno pensasse “a cosa serve se mi vaccino dato che rischio di contrarre il virus lo stesso”. Bisogna comunicare le differenze mediche tra le persone, i casi individuali, gli stili di vita, età, ricordandoci che non siamo tutti uguali. Invece ci si nasconde dietro alla magia dei grandi numeri in cui poi le persone non si riconoscono.
Ovviamente il vaccino perfetto non esiste, ma quelli che abbiamo limitano drasticamente gli esiti peggiori della malattia.
Che sarebbe già sufficiente, se l’obiettivo di una immunità collettiva statisticamente utile a cancellare l’emergenza – certo non il virus e qualche caso clinico – è così vicino come sostiene il generale Figliuolo. Si tratterà poi di capire se sia necessario e come mantenerla. Ma a quel punto forse saremo entrati nella medicina ordinaria. Sempre che l’abitudine all’emergenza non renda impossibile anche solo pensarlo, il ritorno alla normalità.