(foto LaPresse)

Padelle e pappagalli, gli strumenti di lavoro dell'infermiere

Giacomo Poretti

I ricordi di un mestiere frustrante. Il Ketalar, il notaio “sbarellato” e suor Leopolda protagonisti in quella specie di fabbrica colma di ammalati che è l’ospedale, scuola di umiltà

Chissà perché ho fatto questo lavoro qua, l’infermiere? Con tutti i bei mestieri che ci sono in giro oggi: il rapper, il tatuatore, lo stilista, l’influencer, il virologo. Da piccolo mi affascinavano l’avvocato, il calciatore, l’astronauta, poi alle medie avrei voluto diventare filosofo, medico, professore di Latino, anche fare il falegname non mi dispiaceva. Certo i piani di studi sarebbero stati completamente diversi, nell’incertezza ho deciso di andare direttamente in fabbrica.

Il problema è che io nella vita mi sono sempre sentito inadeguato, fuori posto, io non mi sono mai sentito  all’altezza… Forse perché la mia altezza, quella fisica, è sempre stata bassa. Dopo anni e anni che ti senti chiamare nanetto, bassetto, piccoletto, tappo… Poi c’erano quelli raffinati, i poeti: soldo di cacio, subito pareggiato da quelli più rozzi: “Giacomino chi? Quello alto un metro e un cazzo” e così via… Dopo tutti questi odiosi appellativi è il caso che ti convinci. Ma soprattutto la maggior parte si alza e tu rimani lì, sotto il metro e sessanta, gli altri si ingrossano aumentano di taglia, i loro genitori fingono di lamentarsi: “Ogni 2 mesi devo cambiare il guardaroba, ma quanto mi costa?”. In realtà l’orgoglio delle loro mamme cresce a dismisura proprio come i loro figli, invece la mamma di un piccoletto finge di essere soddisfatta e prontamente attacca: “Mio figlio invece è più bravo non mi fa buttar via i soldi”. Le mamme dei piccoletti sono sempre all’attacco, e anche i loro figli.

Nascere piccoletti è come stare in trincea tutto il tempo: il nemico ha un esercito sterminato, i soldati semplici sono tutti quelli sopra il metro e settanta, poi ci sono gli ufficiali quelli alti uno e settantacinque, uno e ottanta sono i colonnelli, uno e ottantacinque i generali, dall’uno e novanta in su i capi di forze d’armata, re e imperatori. Che poi, vai a capire se l’altezza è solo una questione di genetica. E se le madri e i padri avessero un potere anche sui geni, non solo nella trasmissibilità, ma anche nel loro comportamento? Tipo che se dei genitori desiderassero avere un figlio sempre “piccolo”, teneramente e perennemente infantile, da odorare, abbracciare e sbaciucchiare? Il desiderio dei genitori riuscirebbe a trattenere il naturale lavorio dei geni che, se fosse per loro e lasciati lavorare, si espanderebbero verso l’alto? Mah, chissà se mia madre mi ha sempre desiderato alto 90 centimetri? Chissà verso quale altezza il mio Dna era indirizzato? Se così fosse, chissà che battaglia tra mia madre e il Dna! Ho il sospetto che abbia vinto mia mamma.  

 

Quello era il periodo nel quale dove abitavo io c’erano più fabbriche che case, e se perdevi il posto di lavoro entro una settimana ne trovavi un altro. La parola disoccupato non esisteva e se per caso qualcuno lo diventava, era perché non aveva voglia di lavorare. Ma eccomi lì a 18 anni, dopo 5 trascorsi in fabbrica, senza lavoro, con la prospettiva, di dover fare ancora il militare, allora era obbligatorio, in quella situazione nessuno mi avrebbe assunto.

Tranne che… Contratto temporaneo di un anno come ausiliario. 
Scusi in cosa consiste? “Lei deve fare le pulizie in corsia, raccogliere le stoviglie dei degenti, portare le lenzuola sporche in lavanderia, provvedere alla pulizia dei bagni e dei supporti destinati alle deiezioni dei pazienti.
Cioè?
“Deve pulire i pappagalli e le padelle”.
 Io? Io! Io che prima o poi giocherò in Serie A, io che andrò su Marte a capo di una spedizione!
 150.000 lire al mese per 13 mensilità.
Però non male, quando si comincia?
 Domani.


L’ospedale è quella strana fabbrica dove manca sempre il personale e dove la materia prima, gli ammalati, invece non mancano mai. Quelli che mancavano di più erano gli infermieri diplomati, ma qualcuno doveva pur fare quel lavoro.
Il mio primo reparto è stato la chirurgia plastica e mi stato molto utile perché ho potuto apprendere almeno  una cosa molto importante: la scoperta del concetto di inconscio  pur senza aver mai dovuto aprire un manuale di psicanalisi.
Era un mattino di novembre, la caposala mi disse di andare a prendere un paziente in sala operatoria e di portarlo nella sua stanza. Il signore in questione, un notaio sessantenne,  ricoverato nel reparto solventi, un paziente squisito che nei tre giorni di pre ricovero dove era stato sottoposto a esami del sangue e vari accertamenti si faceva portare dal giornalaio una sfilza infinita di quotidiani tra cui il Monde; quando gli portavo il pranzo mi ringraziava in francese: “Merci beaucoup, mon cher”. A cena invece mi congedava in latino: “Merci multos gratiarum, actione mi”. Quando il primario passava a visitarlo, erano evidentemente amici o forse compagni di liceo, scherzavano in greco. Insomma una persona, colta e amabile e soprattutto gentile, anche con gli ausiliari come me.
Quel mattino il notaio era stato operato alla mano perché soffriva di una strana malattia, il Morbo di Dupuytren, a causa del quale non riusciva a estendere le dita della mano destra, con grande nocumento poiché il morbo gli impediva di firmare rogiti e testamenti da lui redatti; l’intervento durava circa 45 minuti ed era eseguito in anestesia generale. Data la brevità dell’operazione l’anestesista aveva usato il Ketalar, un farmaco che induce “anestesia dissociativa” (questa è l’espressione dell’anestesista, noi infermieri dicevamo che uno quando gli facevano quel tipo di anestesia “sbarellava”). Al risveglio poteva succedere che il paziente avesse per qualche minuto delle allucinazioni, sbarellava appunto.
Beh insomma, arrivo in sala operatoria, il notaio era già sul lettino e io dovevo solo riportarlo in reparto, l’anestesista dopo aver controllato per l’ultima volta la pressione del paziente, staccandosi il fonendoscopio dall’orecchio disse sorridendo beffardo: “Ketalar”.
Io, pensando che il medico  fosse straniero e che mi avesse salutato nella sua lingua ho risposto gentilmente: “Buenas dias”.
Per tutto il tragitto, fortunatamente breve, il notaio mi ha ricoperto di insulti quali ladro e figlio di puttana, perché mi riteneva responsabile del furto dei suoi cavalli, poi è passato a delle avances sessuali scambiandomi per sua moglie; ma il peggio doveva ancora arrivare.
Appena sono entrato nella sua camera la moglie lo attendeva ansiosa e preoccupata per l’esito della operazione e appena lei si è avvicinata per domandagli come stava, lui tutto felice le ha risposto che aveva voglia di darsi da fare con la sua pornostar preferita. La moglie è arrossita di vergogna, lui ha rincarato la dose accusandola di essere la zoccolona del reggimento, la consorte del notaio è svenuta sul letto del vicino, il notaio voleva uccidere il vicino e la zoccolona e all’acme della dissociazione è apparsa la caposala, suor Leopolda, che si è diretta autoritaria verso il notaio intimandogli di vergognarsi e di portare rispetto alla moglie. Per tutta risposta il notaio ha dichiarato che lui non prendeva ordini da “una lurida puttana”.
Suor Leopolda è sbiancata , ha fatto il segno della croce e poi mi ha guardato. Io ho sussurrato: “ Ketalar?”.
E lei. 
“Sì ma cazzo ditelo prima!”. 

Insomma l’ausiliario è come il mozzo su di una nave, lo spazzino, l’omino che getta i sacchi dell’immondizia  nel camion della raccolta dei rifiuti, il garzone del barbiere, quello che raccoglie per terra con la scopa i capelli tagliati perché il prossimo cliente deve trovare la poltrona pulita: così in ogni reparto di ospedale.
Mi faceva ribrezzo pulire i bagni, io che in casa mia non avevo mai alzato un dito neanche per lavare un piatto o la tazza della colazione: eccomi lì con indosso dei guanti di plastica e una spugna in mano a lavare l’asse dei wc ingialliti e maleodoranti.
Fu la prima frustrazione a cui fui sottoposto in ospedale. Altre ne dovevano arrivare nel giro di pochi mesi.

L’ospedale è una scuola di umiltà, non solo per i malati ma anche per gli infermieri e i medici.
La comprensione dell’umiltà per l’infermiere passa attraverso l’atto del pulire. In ospedale tutto si sporca più che altrove, e la pulizia non è rimandabile, non è procrastinabile. In ospedale virus, batteri e germi albergano più che altrove. La loro limitazione, eliminazione, in alcuni casi sterilizzazione è, oltre che necessaria, vitale.
Una persona ricoverata in ospedale rischia la propria pelle allo stesso modo di chi vive in un quartiere governato da narcotrafficanti e malavitosi. E’ per quello che in ospedale c’è l’ossessione della pulizia. 

 

 


Se sei un ausiliario devi tenere  puliti i bagni, devi lavare i pavimenti, le stanze, disinfettare le maniglie, lavare i piatti in cui hanno mangiato i pazienti, pulire i comodini dei pazienti, i pappagalli, le padelle, le comode – sono delle sedie con la possibilità di alzare il sedile, far adagiare un paziente che non può andare in bagno, e in quella posizione poter fare i suoi bisogni. Poi il secchio va svuotato pulito e lavato; ovviamente va pulito anche il paziente prima di rimetterlo a letto (in quel caso l’umiliazione la si vive in coppia), vanno puliti gli aspiratori per il drenaggio gastrointestinale, i bidoni per la raccolta delle urine dopo 24 ore; vanno svuotati i sacchi dove si gettano sondini, guanti, cateteri, garze insanguinate o purulente. Tutti i giorni, e anche più di una volta al giorno.
Ci sono due cose che non bisogna mai chiedere nella vita: quanti anni ha una signora e che lavoro è quello dell’ausiliario.


L’umiltà dell’infermiere generico, il facenti funzioni o il professionale, si insinua attraverso la pulizia dei corpi e i suoi avanzi, nel rifacimento del letto, nel cambio della federa sporca e sgualcita, nell’aspirazione del catarro, nell’endovena sbagliata, nella medicazione di una piaga da decubito e nello scoprire che è più maleodorante di un bagno sporco, nell’imboccare con un cucchiaio una persona che ha problemi a deglutire.  L’umiltà per il medico passa attraverso il fatto che non sa guarire tutti i malati che ha in cura. Per quanto abbia studiato coscienziosamente fino ad aggiudicarsi alla laurea un 110 e lode con bacio accademico, nonostante la scuola di specialità conseguita a pieni voti al Bethesda Hospital di New York, e le esperienze lavorative a Stoccolma, a Città del Capo, fino agli articoli pubblicati sula rivista più prestigiosa in ambito scientifico, Lancet, nonostante tutto ciò, ci sono giorni che il medico dovrà comunicare a una   moglie che suo marito non reagisce alle cure, e un altro giorno, nonostante la laurea appesa alla parete dello studio e i vari attestati, il camice bianco inamidato, la rasatura perfetta, la cravatta in tinta con la camicia a botton down, nonostante il gergo “neoplasia duttale pancreatica”, dopo una pausa, dovrà guardare negli occhi una persona affetta da un carcinoma al pancreas e dirgli che avrà tre mesi di vita. Forse in quell’istante il medico si sente umiliato come l’ausiliario che sta svuotando una padella.

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