Post pandemia e alimentazione: perché è necessario un nuovo linguaggio

Massimo Fiorio

Occorre ripensare le nostre idee di corpo e persona  fuori da retoriche tossiche

La diffusione del Covid nel mondo a partire dall’inizio del 2020 ha rappresentato per un verso una deflagrante novità che ha visto situazioni inedite da affrontare, dall’altra parte la pandemia si è inserita in una serie di fenomeni sociali già esistenti incrementandone o modificandone la fenomenologia. È il caso del rapporto con il proprio corpo ed in particolare con quel fenomeno chiamato “body shaming”.

  
Accanto alle questioni e alle domande circa la propagazione del virus, il trattamento, le strategie di prevenzione e delle possibilità di vaccino, i ricercatori hanno rivolto la loro attenzione ai soggetti più a rischio.

  
L’aumento dii studi che collegano il peso con l’aumento del rischio  di una sintomatologia severa da Covid e la diffusione di tali studi hanno inevitabilmente generato una ulteriore causa di stress in molti soggetti provocando forme di umiliazione e di allontanamento dalle cure mediche.  Da quello che emerge in una serie di studi condotti negli Usa, la trattazione non adeguata e superficiale del rapporto rischio Covid/peso corporeo ha dato vita ad una retorica dannosa in qualche modo colpevolizzante nei confronti di persone sovrappeso. In un momento in cui ognuno ha affrontato fenomeni di stress aggiunto, la discriminazione del peso si è aggravata per coloro i cui corpi sono considerati al di fuori della norma in una società che ha fatto della forma fisica il modello a cui aspirare. Le società consumistiche occidentali premiano la magrezza e tendono ad esercitare una sorta di discriminazione verso i corpi appesantiti, a ciò si aggiunge un mercato ed un’industria della dieta che punta ai suoi potenziali clienti attraverso una campagna mediatica tutt’altro che riflessiva. Da una parte l’aumento di stress e disagio fisico sembra aver impattato maggiormente sugli individui in sovrappeso. I ricercatori esaminando il rapporto tra l’indice di massa corporea (Bmi) e stress hanno riferito di una maggiore sofferenza in soggetti sovrappeso. È ciò che riporta la rivista Obesity illustrando i dati raccolti nei mesi della pandemia. Il fenomeno di body shaming non sembra dunque aver attenuato le sue conseguenze; la diffusione di un linguaggio colpevolizzante da parte dei media sembra aver accentuato il fenomeno. Haley Neidich, Lcsw, psicoterapeuta e direttore clinico di Yourtherapist.com dice: “Vergogna di qualsiasi tipo crea stress nel corpo, e sappiamo che lo stress è fortemente correlato con una miriade di condizioni di salute, mentale in primo luogo”. La seconda conseguenza altrettanto problematica che appare dalle rilevazioni degli studi americani è la tendenza da parte di soggetti afflitti da fenomeni di body shaming ad allontanarsi dalle cure mediche. Haley Neidich aggiunge: ”Gli individui che evitano il medico a causa della paura di discriminazione di peso possono perdere l’opportunità di ricevere cure mediche adeguate e di screening in un momento di crisi in cui il comportamento vigile di tutti è fondamentale.” 

  
Va detto che quest’ultimo aspetto appare prevalente nella esperienza americana; dai dati che cominciano a provenire dalla situazione italiana si intravvede un aumento importante di visite mediche per obesità. I numeri crescenti di richieste di visite confermano la penetrazione del messaggio riguardante la correlazione tra obesità e peggiore decorso dell’infezione da coronavirus. Un’evidenza che nel nostro paese ha invitato coloro che oltrepassavano il proprio peso forma ad una maggiore cautela e a prendere le necessarie misure per correggere la loro condizione. Si tratta di dati incoraggianti, ma che se letti in controluce con l’esperienza americana e con l’omologazione crescente da parte delle giovani generazioni nel consumo alimentare e nelle forme in generale di consumo deve indurre a qualche riflessione. Da questo punto di vista il crescente dibattito anche nel nostro paese intorno al movimento d’opinione No-Diet deve essere collocato nella giusta luce. 

  
Giusta la battaglia verso quell’atteggiamento dettato da media e mercato che fa dello slim fit un segno di superiorità morale oltre che fisica, facendo cortocircuitare etica e dietetica, coscienza e bilancia, passioni e ossessioni, totem e tabù, tuttavia il dibattito va riportato in un quadro adeguato che i dati provenienti dalla drammatica esperienza Covid hanno evidenziato. Vale la pena ed è necessario mettere in luce le forme di nuova discriminazione, il fatto che esiste uno stereotipo sulla forma fisica dei corpi per cui le taglie forti hanno più difficoltà a trovare lavoro e a parità di curriculum guadagnano circa il 15% in meno dei pesi piuma. Evidentemente lo stereotipo della leggerezza vincente pesa come un macigno sul destino di molti. La risposta non può essere la cultura della dieta selvaggia che spesso ci ha rovinato. I disturbi alimentari non di rado arrivano proprio dalle diete drastiche che vengono somministrate fin dalla tenera età, diete spesso fai da te, trovate sui giornali. Una tendenza che sacrifica l’attenzione al nostro corpo, a uno stile di vita sano, al benessere e all’equilibrio. 

    
Il dibattito intorno al body positivity è l’occasione di ripensare le nostre idee di corpo e di persona fuori dalle retoriche tossiche di un’informazione scorretta, non attenta e vittima delle mire del mercato delle diete feroci. Esiste, o almeno è esistita, una questione alimentazione-Covid: la narrazione che ognuno in casa ha destinato più tempo ad un’alimentazione sana lascia il tempo che trova. In realtà è aumentato un consumo di cibo legato allo stress, di cibo spesso junk mentre il corpo di tutti è diventato inevitabilmente più sedentario. Non va persa l’occasione offerta dal dramma della pandemia per avviare una educazione alimentare in grado di metterci al riparo da fenomeni sociali e sanitari dannosi.
 

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