Il Foglio salute

La cultura del cibo in Italia oltre il bla bla bla

Serena Scarpello

Dai programmi tv alle riviste, fino alle mostre. Perché siamo ormai diventati tutti esperti della materia

Pensiamo sempre al cibo? Sì. Da quanto è iniziata la pandemia poi in giro per le grandi e le piccole città ci sono più ristoranti che parcheggi, e dopo un anno e mezzo ad ordinare vino siamo tutti sommelier, o meglio, lasciamo il posto fisso per andare a curare le vigne di qualche parente lontano, ci crediamo esperti di stelle Michelin più della stessa Michelin, commentiamo programmi come “Dinner Club” come fossimo giudici di Masterchef mentre ci immedesimiamo nei protagonisti in viaggio per l’Italia con Carlo Cracco alla scoperta di ricette nascoste – che noi ovviamente già conoscevamo – tra gli angoli del nostro meraviglioso paese. Paese che ha sempre messo il cibo al centro della propria cultura, che ne ha fatto la prima leva di marketing nel mondo e che oggi vanta l’interesse internazionale di personaggi come Madonna che trascorre il suo compleanno in Puglia ballando la pizzica praticamente sempre circondata da cibo del posto, o come Stanley Tucci che viaggia tra le migliori cucine per il docufilm della Cnn “Searching for Italy”.

 

Ma non sarà troppo? “Penso che la più grande sfida sul fronte della lotta allo spreco in questo momento sia avere la volontà di mettere in pratica i consigli e le tecniche di cui siamo a conoscenza – mi spiega Lisa Casali, autrice di “Il dilemma del consumatore green” appena pubblicato per Gribaudo –. L’Italia è uno dei Paesi al mondo con abitudini alimentari più radicate e dove è più difficile metterle in discussione per adottare abitudini più virtuose. Se ad esempio abbiamo imparato da piccoli a sbucciare la mela prima di mangiarla, anche se vi dimostrassi con evidenze scientifiche che la buccia della mela è la vera parte nobile del frutto, con il 700 per cento di vitamina C in più della polpa e senza rischi per la nostra salute, sarebbe sufficiente questa informazione per farvi cambiare abitudine? Il più delle volte no. Forse dovremo attendere un cambio generazionale perché si consolidino nuove buone abitudini. Nel frattempo non dobbiamo comunque rinunciare a provare a cambiare le cose”.

 

La pandemia ha fatto intanto tornare di moda la vecchia scuola della Tv dinner, come scrive il magazine “Eater” in un articolo dedicato alla cena in contenitori da alluminio divisi in quattro parti e contenenti tutto il necessario: dalla carne alle patate e ai broccoli come contorno fino al dolce. Ci siamo appassionati ai fornelli e sappiamo fare il pane in casa ma ci siamo anche abituati al tutto e subito con il moltiplicarsi dei marchi di delivery, e così a volte – molto spesso in realtà – cediamo al cibo pronto per essere consumato mentre poltriamo davanti all’ennesima serie tv. Per non parlare degli effetti devastanti sugli adolescenti che hanno riversato molta della loro frustrazione di questo periodo storico nel cibo: sono aumentati i casi di obesità tra i giovanissimi, il New York Times lo scriveva già 6 mesi fa.

 

Eppure di cultura del cibo ne parliamo di continuo tra docufilm su Netflix, conferenze sugli effetti ambientali, riviste dedicate. A Bologna fino al 28 novembre è possibile visitare la quinta Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro dedicata quest’anno al cibo e che si concentra sul problema del nutrimento per gli oltre 7 miliardi persone che abitano la terra, attraverso mostre diffuse. Come “Food”, del fotografo olandese Henk Wildschut sull’avanzato sistema dell’industria alimentare del suo paese dal punto di vista dell’innovazione e della ricerca tecnologica, che accende i fari su temi quali le storpiature degli allevamenti biologici, di cui il consumatore medio è spesso all’oscuro. Ma un modo per orientarsi c’è e sono le certificazioni ambientali: “rappresentano un grandissimo aiuto per il consumatore perché semplificano la scelta di aziende e prodotti più green – mi racconta Lisa Casali –. Tra le tante ce ne è una a cui tengo particolarmente perché ho contribuito attivamente alla sua nascita: la nuova certificazione “Ambiente Protetto”, la prima al mondo che prevede requisiti tecnici per un’efficace prevenzione dei danni all’ambiente. Può essere implementata da qualunque azienda di ogni settore e dimensione”. Basta informarsi.

 

Già negli anni ’80 Alberto Capatti e Antonio Porta, protagonisti dell’esordio successivo di Slow Food, con Carlin Petrini in testa, avevano fondato la rivista “La Gola”, che parlava di gastronomia ma anche arte, letteratura, design (ci sono scritti bellissimi del grande Vanni Pasca, appena scomparso), filosofia, scienza e poesia, basata su una nuova concezione del cibo e del consumo lento, dopo gli anni del grande boom. Sempre “Gola” si intitola un testo di Mattia Torre, recitato da Valerio Mastrandrea proprio in una puntata di Dinner Club. “Che pure noi sul cibo avremmo tutta una secolare tradizione di generosità, di umana condivisione e partecipazione che proprio in molte famiglie, anche dopo cena, ti continuano ad offrì da magnà e tu sei sazio e rispettosamente dici: No, grazie. E loro si preoccupano. Che fai non mangi più? No sono apposto così. Ma stai male? No non sto male…E non capisci che vogliono da te e ad un certo punto capisci proprio che si mette male e ti defili. Nel frattempo loro si sono mortalmente offesi, ti implorano…”. E conclude: “Sono queste le cose che ci logorano, le cose che ci sfiniscono: il vino che sa di tappo, le linguine sciape, il riso scotto. Ecco, questi sono i disagi che in Italia se ripetuti possono far scendere in piazza la gente È l’Italia questo grande Paese a forma di spuntatura di maiale. È la magia, la poesia, dell’Italia”.

 

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