La variante Omicron e il panico da evitare
Sappiamo ancora troppo poco di queste nuove mutazioni. Meglio la ricerca di farmaci e vaccini delle risposte emotive
Se nominassimo i nuovi ceppi influenzali con la stessa convenzione utilizzata per i coronavirus, probabilmente avremmo da tempo esaurito le lettere dell’alfabeto greco. Si badi bene: i virus influenzali non hanno potenziale pandemico minore dei coronavirus, e alcuni ceppi noti, come la cosiddetta Spagnola, hanno avuto tassi di letalità ben paragonabile, se non superiore, a quella finora misurata per SARS-CoV-2.
Dunque, anche per l’influenza le “variant of concerns” – le varianti cioè che destano preoccupazione – non mancano di certo, ed anzi emergono in continuazione; in aggiunta, esse sono costantemente monitorate da una rete mondiale di osservazione e caratterizzazione, da ben prima che lo stesso metodo fosse attuato per i coronavirus. Il lettore ricorderà, di fatti, gli allarmi a suo tempo lanciati per la potenziale pericolosità delle zoonosi influenzali aviaria e suina; fortunatamente, in quei casi la portata pandemica si è rivelata ben più limitata di quella dell’attuale coronavirus, ma le notizie dell’epoca testimoniano il funzionare della rete di sorveglianza e allarme mondiale per i virus influenzali.
Questa breve introduzione mi serve ad introdurre un concetto semplice: dobbiamo abituarci all’idea che, proprio quando funziona in maniera decentemente, la nostra rete di prevenzione identifichi continuamente varianti virali con mutazioni potenzialmente pericolose. Il fatto che la conoscenza sia sufficientemente progredita, da identificare semplicemente guardando al genoma se un certo virus può essere più pericoloso di altri, è sintomo del progresso che abbiamo fatto, non dell’aumentare del numero di incipienti catastrofi all’orizzonte. Noi oggi stiamo aumentando l’efficienza con cui identifichiamo nuovi virus, e abbiamo qualche indicazione migliore di quali possano essere i virus pericolosi; ma non è possibile dedurre con certezza dal genoma di un virus quale siano in concreto le capacità di un virus di generare una nuova ondata epidemica, sia perché non siamo in grado di correlare sequenza del genoma ad effetti clinici peggiori o migliori, sia perché la diffusione di un virus dipende per una parte dal suo genoma, ma per un’altra da effetti stocastici diversi – che includono l’effetto fondatore, la composizione della quasispecie virale a livello locale, il comportamento dei primi ospiti infettati e una miriade di altri fattori in grado di deviare la traiettoria evolutiva di un certo ceppo. Nel caso di omicron, vi è qualche probabilità in più, rispetto ad altre varianti, che questa sia in grado di infettare meglio l’ospite umano e di aggirarne meglio la risposta immune; se queste capacità, scritte nel suo genoma, si tradurranno in una minaccia concreta, è troppo presto per dirlo.
In particolare, vorrei qui fare un breve elenco delle cose che non sappiamo, e che sono cruciali al fine di capire se questa sia la variante destinata a darci tormento nei prossimi mesi.
Non sappiamo se questa variante sia in grado di trasmettersi con maggiore efficienza. Sebbene infatti alcune sue mutazioni potrebbero facilitare l’ingresso in cellula, l’infettività dipende anche dalla carica virale che la variante è in grado di sviluppare in un ospite infetto, particolarmente a livello delle alte vie respiratorie; i dati che abbiamo, per il momento, sono troppo pochi, perchè mancano sia dati di PCR su un campione sufficiente, sia osservazioni epidemiologiche di cluster accurate per misurarne la capacità propagativa.
Non sappiamo in che misura questa variante sia in grado di evadere la risposta anticorpale dei soggetti precedentemente infettati o vaccinati. È certo che omicron sia in grado di sfuggire ad alcuni anticorpi monoclonali, e dunque è molto probabile che sia immunoevasiva a causa di un numero di mutazioni note per conferire questa proprietà, superiore a quello delle precedenti varianti. Tuttavia, altre varianti che preoccupavano per le loro capacità immunoevasive – come la beta – sono state soverchiate dalla delta, a minore capacità immunoevasiva, ma maggiore trasmissibilità. Il grado di immunoevasività e il grado di trasmissibilità, combinati insieme, sono il dato che ci manca per stabilire se questa variante sarà più o meno problematica per i soggetti vaccinati.
Non sappiamo se le mutazioni osservate nella omicron siano in grado di conferire proprietà immunoevasive anche nei confronti della risposta cellulare T. Alcune mutazioni ricadono infatti in regioni del virus riconosciute proprio dalle cellule T, ma essendo la risposta immune cellulare ridondante, non sappiamo valutare il significato finale di queste mutazioni – se siano cioè in grado di cambiare in maniera significativa la capacità delle cellule T di riconoscere il bersaglio.
Non sappiamo se questa variante abbia un effetto clinico diverso, peggiore o migliore delle varianti precedenti. I primi dati sembrano indicare il contrario, ma questi dati significano poco: sono basati su numeri troppo piccoli, su una popolazione prevalentemente giovane (gli infetti in Sudafrica), e spesso si riferiscono a soggetti vaccinati (che potrebbero avere un profilo clinico più favorevole, come per le varianti precedenti).
Potrei continuare con l’elenco, ma credo di aver identificato i punti più importanti. Ora, il fatto è che, ogni volta che identificheremo varianti mutate – e ne troveremo mutate quanto o più di questa, vista la capacità del virus di infettare alcuni pazienti con ceppi multipli e di ricombinare – noi saremo sempre in questa condizione di ignoranza; possiamo ogni volta riempire i titoli dei giornali e invadere la sociosfera virtuale con riferimenti alla “variante diabolica” o con altre similmente irresponsabili locuzioni, non importa se in senso dubitativo o meno?
Possiamo, a causa del panico diffuso in questo modo, permetterci una crisi di borsa – e non sono certo uno cui sta simpatico il mercato finanziario – ma soprattutto “sparare sul messaggero”, cioè causare l’isolamento economico di una nazione intera come il Sudafrica, che grazie ad una delle reti di sorveglianza delle malattie infettive fra le più progredite al mondo ha isolato il nuovo ceppo e ha prontamente condiviso i suoi dati?
Invece di starnazzare come galline quando entra la volpe nel pollaio, dobbiamo aspettare che si studi il nuovo ceppo. Da qui, otterremo i dati che ci servono, inclusa la capacità degli attuali vaccini di neutralizzarlo; se sarà il caso, questi saranno rapidamente – in pochi mesi – aggiornati, e nel frattempo il virus andrà contenuto con misure non farmacologiche e con i vaccini e i nuovi farmaci che abbiamo, se come è probabile manterranno comunque una certa efficacia.
Certo, è una seccatura continuare a vaccinarci inseguendo il virus; sempre meglio, tuttavia, che rivedere i camion di Bergamo o le fosse comuni di New York.
Intanto che, con una nuova dose, mettiamo una toppa al problema contingente, la ricerca di vaccini “pan-coronavirus” e quella di farmaci efficaci deve avere priorità; così come priorità dovrebbe avere, anche in Italia, l’organizzazione di una struttura di produzione in grado di fornirci quei vaccini che funzionano quando servono (perché il coronavirus non sarà l’ultimo dei problemi che avremo), visto che la produzione per fronteggiare una pandemia non può essere delegata a poche nazioni che se ne fanno carico per tutti (o per meglio dire per chi meglio paga).
Quante lettere dell’alfabeto ci vorranno, prima di rendersi conto di questi semplici elementi di realtà e di attrezzarsi, invece di scatenare ad ogni nuova lettera l’ennesimo sobbalzo emotivo di una nazione come l’Italia o del mondo intero?