cattivi scienziati
Lezioni dalla pandemia: urge un governo mondiale per le crisi globali
Covid-19, cambiamento climatico, sovrappopolazione: per affrontare problemi di così vasta portata avremmo bisogno di un'autorità transnazionale. Che segua la scienza e preservi la democrazia
Molte persone mi chiedono, qualche volta con lettere direi quasi struggenti, quando si tornerà alla normalità. La prima risposta che mi viene in mente è: dipende. Dipende da cosa intendiamo con ritorno alla normalità. Vi sono cose nel nostro stile di vita che dovremmo riconsiderare. Vale per tutte le sfide che ci attendono: che si tratti di patogeni, presenti o futuri o cambiamento climatico o sovrappopolazione o inquinamento, in ogni caso ci sono richiesti cambiamenti. Noi non possiamo abitare questo pianeta in miliardi di individui, iperconnessi fra noi e con gli individui di moltissime altre specie, tutti a contatto con una comune patosfera – cioè letteralmente immersi in una miriade di patogeni che scambiano fra loro e con i loro ospiti interazioni ecologiche, oltre che codice genetico e segnali chimici – e credere che non sia cambiato nulla anche solo rispetto agli anni Settanta del secolo scorso.
La velocità con cui Sars-CoV-2 ci fa pagare le nostre scelte sbagliate – come quelle di non fornire abbastanza antivirali contro l’Hiv in Africa, così da avere un serbatoio di soggetti immunodepressi in cui Sars-CoV-2, ma anche qualunque altro virus, possono sperimentare una pressione immunitaria debole, ambiente ideale per sviluppare resistenza – quella velocità, dicevo, dipende dal fatto che ogni nuova variante può rapidissimamente raggiungere i quattro angoli del globo, grazie a globalizzazione e sovrappopolazione; e se il prossimo virus infettasse anche qualche animale domestico diffuso in miliardi di esemplari, come quelli che usiamo per cibarci o per compagnia, il reticolo di “autostrade veloci” per esso sarebbe ancora maggiore. Anche il nazionalismo sanitario, proprio come quello economico, in un mondo come questo si paga subito: vaccinarsi ad alti livelli, ignorando gli altri, e pensare di cavarsela chiudendo le frontiere, è pia illusione, perché si crea ancora una volta solo un gradiente ideale per l’evoluzione darwiniana dei patogeni – da una parte un serbatoio di soggetti suscettibili ove replicarsi ad alto tasso, e dall’altro una popolazione immunologicamente schermata, che esercita la pressione giusta per selezionare varianti più aggressive.
In queste condizioni, esattamente come per il cambiamento climatico, la risposta giusta non è né quella di pensare a un ritorno all’indietro – visto che il nostro sistema attuale è superiore rispetto al passato in quanto a garanzia di sopravvivenza per un mondo abitato da miliardi di individui – né quella di proseguire senza far nulla, pensando che comunque, siccome siamo ancora qui, in futuro continueremo a cavarcela. Il virus ci mostra che, di fronte a problemi globali, servono due tipi di cambiamenti: alcuni a livello individuale, altri a livello istituzionale e complessivo, proprio come nel caso del cambiamento climatico, il quale però ha il difetto di essere troppo lento per spingere gli individui ad agire davvero (mentre il virus ci pressa in maniera molto stringente nell’immediato).
I cambiamenti individuali sono quelli che probabilmente incideranno su quella che si considera “normalità”: eventi da centinaia di migliaia di persone, ma anche riunioni in spazi chiusi in numeri più limitati, e comportamenti rischiosi andranno evitati, ogni qual volta si profila un periodo di rischio, proprio come in certi paesi asiatici si fa da tempo, almeno dopo la Sars; alle mascherine, da portare quando serve, ci si abitua, e così a comportamenti più corretti. Del resto, Internet e i social media hanno già rapidissimamente cambiato la nostra socialità; prima è stata la radio e la televisione, e prima ancora le ferrovie o la Rivoluzione francese; lo stesso, su altri piani, hanno fatto gli anticoncezionali e l’Hiv; i modi in cui ci adattiamo e inventiamo nuove socialità sono sotto gli occhi di tutti, e non dubito che musica, teatro o ristoranti sopravviveranno a questa e ad altre crisi.
Molto più difficile è immaginare come potremmo arrivare ai cambiamenti di sistema necessari per mantenere una migliore qualità di vita globale. Proprio come nel caso del clima, gli interessi nazionali, economici e politici sono un ostacolo al raggiungimento di una sorveglianza epidemiologica globale, di una produzione e di una logistica efficiente dei rimedi, ma soprattutto di una prevenzione delle prossime epidemie basata su comportamenti che diminuiscano i rischi a priori (pensate all’economia della raccolta di guano nelle caverne cinesi). Non esiste un governo mondiale e questo, per problemi globali, è un grande ostacolo; inoltre, la decisione democratica, attraverso l’accordo dei rappresentanti di miliardi di individui, è un processo lento e inefficiente, di fronte alla selezione darwiniana di un patogeno come un virus. Il cambiamento formidabile che qui si richiede è appunto questo: il sorgere di un’autorità mondiale in tema di patogeni, clima e altri problemi globali, la quale preservi le istituzioni democratiche. Come ricercatore in discipline biomediche, vedo il rischio e la scala del problema che abbiamo davanti; ma le competenze necessarie per pensare anche solo a come impostare una soluzione sono da cercare in aree diverse dalla mia e la volontà deve formarsi fra i cittadini e la politica, non certo nella sola comunità scientifica.
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