L'intervista
Che fine ha fatto il modello Israele? Omicron impone la stretta. Parla Abrignani (Cts)
Bennett rivede le regole dopo i contagi record, quarta dose per medici e over 60, mentre la campagna vaccinale rallenta. Appunti per l'Italia: "Mascherine, vaccini e green pass rafforzato ci tutelano. Ma sui tracciamenti siamo in ritardo", dice l'immunologo
Oltre milletrecento positivi nella giornata di ieri, erano stati più di mille anche nel bollettino precedente, un’incidenza dell’1,28 per cento e numeri mai così alti dallo scorso ottobre. Omicron inizia a mostrare i suoi effetti anche in Israele. Il paese che per mesi ha indicato la strada nella lotta alla pandemia adesso si ritrova a inseguire la nuova variante, con almeno 340 casi già accertati dal ministero della Salute, mentre si attendono i risultati del tracciamento di altri 800 infetti, sospettati di avere contratto il virus nella sua ultima mutazione. Circostanze che hanno indotto il governo a correre ai ripari, a chiudere le frontiere, impedendo i viaggi verso alcuni paesi, tra cui l’Italia, e imponendo da domenica, come riportano i giornali locali, lo smart working al 50 per cento negli uffici pubblici. Ma soprattutto, personale sanitario e over 60 potranno ricevere la quarta dose, a quattro mesi dalla terza.
Una decisione che "ci aiuterà a superare l'ondata di Omicron che sta investendo il mondo", ha detto il primo ministro Naftali Bennett invitando, ancora una volta, gli israeliani a immunizzarsi. Anche perché 3 pazienti su 4, ricoverati in condizioni gravi, risultano essere non vaccinati.
Una situazione che dipende anche da tassi di vaccinazione non altissimi: al 70 per cento degli israeliani è stata somministrata una sola dose, al 63 per cento due. Solo il 45 per cento ha ricevuto il cosiddetto booster. “In Israele hanno un problema con le comunità ortodosse”, spiega al Foglio Sergio Abrignani, immunologo dell’Università statale di Milano e membro del Comitato tecnico scientifico: “Non vogliono farsi vaccinare per motivi religiosi. E come mi raccontava un collega del posto, lì si fa una vita di comunità molto intensa, e questa diventa una sorgente di focolai”.
Eppure, tante volte, negli scorsi mesi quello israeliano ha rappresentato una sorta di modello, il paradigma a cui attingere per le politiche sanitarie nel resto del mondo, fino a offrire indicazioni predittive rispetto all’evolversi della pandemia. Dobbiamo, insomma, prepararci a tempi più duri anche dalle nostre parti? “E’ probabile, ma almeno in Italia abbiamo solo il 13-14 per cento di persone vaccinabili che non sono vaccinate, meno che altrove, dove arrivano al 20-25 per cento della popolazione. Ma più che un modello – dice Abrignani – Israele è una macchina del tempo, nel senso che sono mediamente due-tre mesi davanti a noi e all’Europa occidentale, avendo iniziato a vaccinare in maniera massiccia da novembre 2020, mentre noi abbiamo iniziato ad alto ritmo con il generale Figliuolo a marzo 2021. Abbiamo evidenza che quel che succede da loro più o meno accadrà anche da noi, ma con delle differenze”. Quali? “Anzitutto abbiamo un po’ più di vaccinati rispetto a Israele, siamo oltre l’85 per cento nella popolazione over 12 con doppia dose, poi abbiamo mantenuto più a lungo le restrizioni e abbiamo sempre tenuto la mascherina al chiuso, oltre ad avere introdotto il green pass rafforzato che in qualche modo limita il contatto tra vaccinati e non”, risponde il membro del Cts.
E non sarà un caso allora che tra le misure al vaglio del governo israeliano ci sia proprio un rafforzamento del meccanismo legato alla certificazione verde. Questa volta il modello siamo noi? “Lo siamo già stati e lo siamo ancora adesso. Siamo stati, da luglio a novembre, uno dei migliori paesi europei, insieme a Spagna e Portogallo, nel fronteggiare il virus. E non si parla solo di vaccinazioni”, sottolinea Abrignani con riferimento all’intero sistema messo in piedi da Draghi, Speranza e Figliuolo: “Anche la stessa Angela Merkel, in una delle ultime uscite da cancelliera ha elogiato davanti alla stampa tedesca l’Italia e il nostro operato. E avere questo tipo di riconoscimento, da paesi che non sono così inclini agli elogi nei nostri confronti, vuol dire che proprio tutto sbagliato non abbiamo fatto. Senza dimenticare che stiamo vivendo un qualcosa di epocale, che leggeremo sui libri di storia”.
Però, al netto dei meritati riconoscimenti, l’avanzata di Omicron ha mostrato una della grandi criticità italiane, un po’ rimossa negli scorsi mesi e tornata d’attualità con la nuova variante: l’incapacità di tracciare e sequenziare il virus. “E’ una cosa che abbiamo fatto male”, ammette l’immunologo: “A differenza della Gran Bretagna, per esempio, noi non avevamo strutture predisposte a questo scopo, e non ce le siamo date. Ora però stiamo correndo ai ripari, con un debito di mesi, ma lo stiamo facendo. E’ una dinamica che paghiamo con il ritardo con cui ci arrivano i dati e dobbiamo fidarci di quelli degli altri paesi”. Intende dire che questa mancanza può avere influito anche sulla nostra risposta a Omicron? “No, non sarebbe cambiato nulla”, risponde sicuro Abrignani, che conclude spiegando che l’Italia, sin dalla comparsa dei primi casi, ha reagito come se la nuova variante fosse già quella predominante, al netto degli scarsi sequenziamenti. “Ci comportiamo come se avessimo già tracciato decine di migliaia di casi”.