Perché vietare i tamponi alle parafarmacie non ha alcun senso
Col diffondersi di Omicron servono molti più test e in tempi più stretti. Potrebbero aiutare 6 mila parafarmacie, in grado fare 200 mila tamponi al giorno, ma le farmacie si oppongono. Il governo non fa nulla e gli italiani restano in coda
Col diffondersi della variante Omicron – certamente più contagiosa e probabilmente meno severa – cambiano le regole di ingaggio. Diventa sempre più cruciale la capacità del paese di garantire un volume di tamponi superiore all’attuale. Oggi sono le farmacie a farsi carico di gran parte di questo sforzo: sono loro a somministrare circa 700 mila tamponi al giorno, il 20% in più rispetto al periodo pre-festivo e il 73% dei 960 mila tamponi totali. E’ evidente che la missione rischia di travolgerle. O meglio, sta già accadendo con l’impennata dei contagi. Basta dare un’occhiata alle lunghe code all’esterno delle farmacie o all’allungamento dei tempi per prenotare un tampone. E’ necessario ampliare la platea dei soggetti autorizzati a svolgere questa funzione essenziale: accanto alle 19.500 farmacie (di cui però solo il 14 mila erogano il servizio) il governo dovrebbe autorizzare anche le circa 6 mila parafarmacie italiane. Anzi, non c’è una sola ragione valida per non averlo già fatto.
Tamponi, le parafarmacie potrebbero farne 200mila al giorno
La disponibilità di test è cruciale per almeno due motivi. In primo luogo, la scelta di fare del Green pass l’architrave della nostra politica sanitaria implica che i diritti dei 5,6 milioni di cittadini over 12 che – legittimamente, seppur non saggiamente – hanno scelto di non vaccinarsi sono subordinati al tampone. Queste persone possono recarsi al lavoro o accedere a un albergo, prendere un mezzo pubblico o entrare in palestra solo se esibiscono un tampone negativo nelle ultime 48 ore.
Secondariamente, la maggiore diffusività di Omicron sta determinando una revisione degli obblighi di quarantena in molti paesi: negli Stati Uniti la durata dell’isolamento fiduciario per i positivi asintomatici è stata ridotta da 10 a 5 giorni, mentre i vaccinati contatti stretti di positivi non hanno più obblighi di quarantena ma solo di indossare la mascherina. Nel Regno Unito la quarantena è stata ridotta da 10 a 7 giorni, in caso di due test negativi negli ultimi due giorni. E’ fisiologico che anche in Italia si andrà in questa direzione: ma ciò implica una maggiore domanda di tamponi, sia da parte di chi è obbligato sia da parte dei molti che vorranno essere sicuri di non aver contratto l’infezione.
Con l’aumento dei contagi e con la riduzione dei tempi di quarantena, affinché il sistema regga e funzioni con una certa efficienza è necessario che sia possibile effettuare test con una frequenza maggiore e senza ingorghi. Oggi quasi tre quarti dell’offerta sono soddisfatti dai farmacisti, che vedono i propri esercizi assediati da persone in attesa di tampone. In tal modo, però, risorse preziose vengono distolte dall’attività principale delle farmacie. Le parafarmacie potrebbero fornire utili truppe di complemento. Se si ipotizza un’offerta analoga a quella delle farmacie, ovvero circa il 70% degli esercizi che fanno in media 50 tamponi al giorno, otterremmo 200 mila test in più al giorno. Un aumento di oltre il 20% della capacità di testing del paese. Alle parafarmacie non serve molto per attrezzarsi, anche perché i software che utilizzano sono già integrati con il sistema nazionale. Manca solo l’autorizzazione: una riforma strutturale a costo zero.
Perché le farmacie continuano a opporsi
A fronte di questi evidenti benefici, non si capisce perché le parafarmacie debbano essere escluse. Ci lavorano dei farmacisti, che hanno esattamente la stessa formazione dei loro colleghi titolari di farmacia, hanno frequentato le stesse università e posseggono le medesime competenze. Ritenerli inadatti a somministrare un tampone vorrebbe dire ritenere ugualmente inadatti i farmacisti titolari e i loro dipendenti; tanto più che ormai le persone possono addirittura ricorrere a tamponi fai da te. E allora perché non si fa? Perché i farmacisti titolari si battono per mantenere l’esclusiva. Non si tratta di una ragione sufficiente per restringere l’offerta in generale, ma soprattutto in una situazione del genere.
Ma ci sono altre motivazioni che rendono questa opposizione paradossale. La prima è un precedente che riguarda proprio i farmacisti: l’opposizione da parte dei medici dalla somministrazione dei vaccini nelle farmacie. Ora è evidente a tutti che le farmacie sono un pilastro della campagna vaccinale e che era assurdo voler mantenere un divieto che non esiste in altri paesi. Perché, allora, replicare la stessa logica corporativa con le parafarmacie? Tra l’altro, paradosso nel paradosso, circa il 40% delle parafarmacie appartengono a farmacisti titolari di farmacia: è davvero singolare che lo stesso individuo possa svolgere oppure no una mansione a seconda del numero civico presso cui riceve i clienti.
Il governo, e in particolare il ministro della Salute Roberto Speranza, dovrebbe riconoscere che questa surreale resistenza lobbistica non solo è ingiustificabile, ma impone un enorme costo alla collettività. Il governo ha fatto della concorrenza e della lotta al Covid le sue bandiere fin dal primo giorno dell’insediamento di Mario Draghi: sul primo fronte ha licenziato un disegno di legge la cui strada sembra lunga, lenta e in salita; sull’altro sembra oggi arrancare di fronte a un virus che continua a condizionare la nostra vita. Reclutando le parafarmacie nella campagna di testing, l’esecutivo può fare della concorrenza uno strumento di contrasto alla pandemia.
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