cattivi scienziati
Dire che dopo Omicron “torneremo alla normalità” è fuorviante
Bisogna essere consapevoli che potremmo vivere periodi di relativa quiete, con ribollire epidemico localizzato in paesi diversi, emersione di varianti immunoevasive ma non particolarmente pericolose, e a intervalli di tempo più ampi potrebbero emergere altre minacce virali
Come ampiamente prevedibile, l’ondata di infezioni di Omicron, in tutti i paesi Italia compresa, sale vertiginosamente e in tempo rapido, ma raggiunge presto il suo picco, dopo il quale ci si attende un altrettanto rapida discesa. Se avessimo avuto maggior criterio da parte dei milioni di persone che hanno continuato a rifiutare i vaccini, gli ospedali non sarebbero andati sotto pressione, e non sarebbe ancora oggi sotto sforzo continuo e senza respiro il personale sanitario; perché, ricordiamolo, mentre la rapidità con cui crescono e quindi decrescono le infezioni giornaliere dipende dalle caratteristiche di infettività del virus e dalla rapidità con cui si esaurisce il serbatoio di suscettibili, al contrario la malattia è fatta dall’interazione fra virus e organismo umano, e sebbene vi siano indicazioni che anche la durata dei ricoveri per Omicron possa essere in media più breve che per le varianti precedenti, guarire richiede comunque il suo tempo e gli ospedali si svuoteranno più lentamente rispetto alla decrescita delle infezioni, e le morti, purtroppo, aumenteranno ancora per un po’, prima di cominciare pure esse lentamente a decrescere. Ora è il momento di chiedersi se e come una così diffusa epidemia di Omicron possa costituire l’uscita dall’emergenza, e se il costo che abbiamo pagato, a parte la giusta indignazione per il fatto che avremmo potuto pagarne uno molto minore, non sia l’ultimo e quello che ci garantirà una imminente tranquillità epidemiologica.
Da un punto di vista immunologico, le domande a cui si deve rispondere sono due: quanto l’infezione da Omicron protegga da altre varianti e quanto questa protezione duri nel tempo. I primi dati sembrano indicare che, come per precedenti varianti, l’infezione da Omicron sia protettiva; e però, in linea con le altre, ci si aspetta che nel tempo sopravviva soprattutto l’immunità cellulare di tipo T, il che significa rischio di reinfezione, ma basso rischio clinico – proprio come già accaduto finora. In uno scenario molto ottimistico, Sars-CoV-2 continuerebbe a causare malattia solo fra i non immuni – le nuove generazioni non vaccinate e non precedentemente infette – mentre fra gli adulti difficilmente darebbe problemi; questo è tipico dei virus che non sono capaci di superare l’immunità pregressa, come ve ne sono molti.
Tuttavia, proprio Omicron dimostra che Sars-CoV-2 è ben capace di mutare e diventare immunoevasivo; in uno scenario più realistico, ma ancora ottimistico, ogni anno nuovi ceppi di Sars-CoV-2 darebbero malattia nei suscettibili (i bambini non vaccinati) e infezione in frazioni più o meno ampie di adulti, senza però causare molti problemi clinici fra questi, anche grazie all’aiuto dei vaccini, alla memoria di tipo T di lungo periodo e alle ripetute esposizioni durante l’infanzia.
Vi è quindi un ulteriore scenario, il peggiore: l’evoluzione di Sars-CoV-2, anche grazie a occasionali ricombinazioni fra ceppi e virus diversi e alla sua ampia circolazione in riserve animali, ove il vaccino non può arrivare, può portare all’emersione improvvisa e casuale di virus che sono sia immunoevasivi sia sufficientemente patogenici da riportarci indietro a gennaio 2020. Se guardiamo ai sarbecovirus, questo è quanto è avvenuto dopo la prima epidemia di Sars, con un lungo periodo di evoluzione e ricombinazioni principalmente nei pipistrelli, che ha portato poi all’emersione di Sars-CoV-2.
Se guardiamo alle probabilità, una combinazione fra il secondo e il terzo scenario è quella che appare più probabile; dunque un periodo di relativa quiete, con ribollire epidemico localizzato in paesi diversi, emersione di varianti immunoevasive ma non particolarmente pericolose, e poi, accidentalmente, emersione a intervalli di tempo più ampi di virus nuovamente pericolosi.
Ecco perché se intendiamo tornare alla normalità, nel senso di ritornare a un passato che ignora il rischio inevitabilmente insito nell’esistenza su questo pianeta di miliardi di umani molto connessi e rapidamente trasportati ai quattro angoli del globo, e che ignora sorveglianza epidemiologica, ma anche cambi strutturali nei sistemi di sanità pubblica, di ricerca nel settore dei vaccini e degli anti infettivi, di logistica, di capacità produttiva in emergenza, non faremo altro che tornare indietro, a una nuova pandemia. Chi afferma che siamo usciti dalle passate epidemie senza poi cambiare troppo, dimentica i mutamenti radicali persino nella struttura architettonica delle nostre città, come nelle abitudini igieniche, nell’uso su larga scala degli antiparassitari o nel modo in cui ripuliamo le nostre case; e anche da questa pandemia usciremo cambiati, o non usciremo affatto, se non temporaneamente.