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La competitività del comparto farmaceutico italiano
Cosa serve per rilanciare in Italia un settore che è il quarto mercato europeo del farmaco e il settimo del mondo
Il governo ha mostrato un approccio difensivo della competitività farmaceutica italiana a proposito della proposta di Pharma Legislation dell’Ue quando, a fine marzo dell’anno scorso, il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto ha inviato alla commissaria Ue per la Salute, Stella Kyriakydes, un documento di posizionamento, sottoscritto da tutti i ministeri interessati, Aifa e Farmindustria, sottolineando in particolare la necessità di “evitare il rischio di indebolimento della protezione della proprietà intellettuale”.
Un elemento positivo e forse inatteso dato il generale disinteresse per affrontare in modo complessivo il tema farmaceutico di questo e precedenti governi.
Un budget sistematicamente insufficiente e allocato in modo da costruire un sistema secondario di finanziamento per le regioni attraverso una complicata e non bilanciata governance; l’ingerenza di un ministero di Economia e Finanza troppo esuberante nei confronti del ministero della Salute; una Aifa mal organizzata e con un organico decisamente ridotto, lasciata sostanzialmente senza timone per più di un anno e costantemente sotto attacco dall’una o dall’altra parte politica; una base normativa come il decreto che regola la definizione dei prezzi, risalente al ministro Grillo, anacronistica nei contenuti e inadeguata nella forma se confrontata con il resto dell’Europa. Sono queste le cause che hanno posizionato l’Italia, quarto mercato europeo del farmaco e settimo del mondo, ingiustamente tra gli ultimi paesi europei in quanto a innovazione e affidabilità.
Dopo un lungo e travagliato iter è stato nominato Robert Nisticò come presidente dell’Agenzia del farmaco. Egli ha obiettivi lodevoli di dialogo e che ne sottolinea il ruolo internazionale, a maggior ragione in vista della grande potenziale riforma introdotta dal nuovo Joint Clinical Assesment che entrerà in vigore a gennaio del 2025 per farmaci oncologici e innovativi.
Nisticò ha annunciato maggiore internazionalizzazione (maggiore presenza di Aifa nei tavoli europei dove si deciderà sugli indicatori per valutare il valore clinico aggiunto dei farmaci) e semplificazione (con l’obiettivo di dimezzare i tempi di accesso dei farmaci dai 14 mesi attuali), in linea con quanto il ministero della Salute definisce come priorità. Nisticò sembra anche interessato a varare anche in Italia l’importante riforma dell’accesso precoce intervenendo sulle diseguaglianze esistenti. Si tratta di norme e processi che definiscono modalità di rimborso veloce, ma successivi all’approvazione europea, necessari per gestire l’attesa dei 420 giorni medi necessari in Italia (risultato appena migliore della media europea) affinché il farmaco sia rimborsato a livello nazionale.
Diversi casi hanno infatti portato all’attenzione del Parlamento e della popolazione italiana la necessità di intervenire come in altri paesi europei, in primis la Francia, con una norma per anticipare, almeno per farmaci che sono considerati senza alternative, la disponibilità ai pazienti. Attualmente in Italia esiste una norma che è stata introdotta dal Ministro Balduzzi nel 2012, la Cnn (classe C non negoziata) che consiste sostanzialmente nel rendere commercializzabile, se l’azienda lo decide, il farmaco prima del rimborso dopo un passaggio formale di Aifa, senza però concederne il rimborso.
Per i farmaci salvavita che non hanno alternative terapeutiche e in patologie che necessitano di trattamenti non differibili, questa procedura è da più di dieci anni causa di diseguaglianze. E’ noto che i pazienti con maggiori possibilità acquistano a proprie spese i farmaci salvavita prima che siano rimborsati. In più esistono differenze geografiche in quanto esistono alcuni centri che decidono di acquistare il farmaco con il proprio budget, rendendolo disponibile ai pazienti e altri no. Non esistono però a oggi report che rendano chiaro il quadro. Ed è questa una situazione che deve essere risolta con un intervento normativo o con risorse dedicate agli ospedali.
Sul fronte del sostegno all’innovazione farmaceutica altri segnali, ancorché varati dal precedente governo, e un po’ timidi, arrivano dal Pnrr: dei 191 miliardi di euro previsti per l’Italia e dei 30,6 del fondo complementare, 15 sono destinati alla salute e 30 alla ricerca.
Il governo Meloni ha anche dato attuazione alla Fondazione EneaTech & Biomedical (500 milioni), istituita dalla precedente legislatura. Ha promosso un’agevolazione fiscale rafforzata al 60 per cento per il rientro dei professionisti dall’estero con figli piccoli (solo per questa categoria, per tutti gli altri le modifiche introdotte con la riforma fiscale sono peggiorative rispetto al passato, restando lo sconto fiscale comunque pari al 50 per cento della tassazione Irpef). Ha istituito un tavolo interministeriale sulla farmaceutica (tra ministero della Salute e ministero delle Imprese e del Made in Italy) e ha previsto in legge di bilancio un aumento del Fsn (anche se cresce in termini assoluti ma decresce in percentuale rispetto al Pil).
Ha riconosciuto dunque nei fatti la rilevanza del comparto farmaceutico.
Sforzi non sufficienti però per risolvere il problema degli investimenti farmaceutici in Italia che è diminuito del 25 per cento negli ultimi 20 anni. In molti stati europei invece sono stati adottati piani solidi e ambiziosi e soprattutto sono riusciti a convincere le multinazionali che il valore dell’investimento verrà riconosciuto.
Questa mancanza di lungimiranza negli investimenti genera incertezza e sfiducia anche nell’industria farmaceutica che si mostra più cauta e prudente. Le case farmaceutiche infatti sono alla ricerca di un meccanismo strutturato e stabile che possa effettivamente creare un maggiore richiamo di investimenti globali anche attraverso interventi strutturali e di reward. Se si pensa che negli ultimi sei anni il payback a carico delle aziende farmaceutiche è stato di 6 miliardi di euro e che questo è di fatto quasi del tutto a carico delle multinazionali a capitale estero (libro bianco Ambrosetti), è abbastanza evidente il messaggio che viene passato agli headquarter.
Il settore dell’healthcare in Italia ricopre un peso rilevante nel mercato, e benché sia un sistema universalistico (o forse anche per questo motivo) è in forte sofferenza.
Soprattutto a causa delle liste di attesa ormai fuori controllo e se il sistema sanitario nazionale promette una prestazione ma la differisce di mesi o in alcuni casi di anni. In pratica si è creata una frattura tra chi può permettersi di rivolgersi al privato e chi no. E se il decreto legge sulle liste d'attesa non verrà accompagnato da una riforma del sistema delle strutture sanitare non risolverà il problema.
Anche perché la scarsa digitalizzazione, la non interoperabilità dei servizi digitali tra strutture sanitarie diverse, le profonde differenze regionali e un apparato burocratico pachidermico contribuiscono a rendere il sistema sanitario poco sostenibile e a disincentivare gli investimenti.
In Italia abbonda poi la cultura che ritiene che promuovere gli investimenti nell’industria sia il male assoluto e cioè che qualsiasi azione che produca un beneficio, ancorché indiretto sull’industria farmaceutica, sia da evitare. E questo nuoce al sistema sanitario perché ha frenato gli investimenti delle multinazionali e delle aziende italiane. Le stesse aziende hanno poi costruito una polarizzazione che le ha portate a confliggere tra di loro.
Vi è l’urgenza di accrescere il rapporto tra pubblico e privato: l’industria deve confermarsi il partner di elezione delle istituzioni perché da qui nasce l’innovazione e perché gli obiettivi sono comuni. E c’è anche l’urgenza di costruire campi più larghi per la discussione di questi temi strutturali che al tempo stesso toccano i cittadini per l’accesso alla salute ma anche per lo sviluppo economico e sostenibilità del paese. Serve una prioritarizzazione del tema da parte della presidenza del consiglio per poter dare una svolta più chiara su questo tema e riposizionarlo nella discussione pubblica.
Cosa serve:
- Una maggiore presenza del governo sulla programmazione della spesa sanitaria e farmaceutica con una riunione con i ceo delle aziende per stabilire regole nuove e richieste specifiche da ambo le parti;
- Una maggiore apertura alla rilevanza del settore industriale, specie del lifescience, come settore che attraverso l’investimento in tecnologia ha un impatto sia sul PIL che sull’ottimizzazione della prevenzione e cura dei pazienti;
- Un accordo formale con stretta di mano e foto su una prospettiva a 5 anni con la presidenza del Consiglio, regioni, Mef e ministero della Salute per ridisegnare i criteri di finanziamento, allocazione e salvaguardia della spesa farmaceutica;
- Un Aifa solida e irrobustita in termini di organico, concentrata sui temi chiave e supportata da un forte “centro studi” sul farmaceutico coordinato dall’università che ne definisca in modo più oggettivo indicatori e priorità metodologiche.